Consiglio di Stato
Sezione VII
Sentenza 19 maggio 2023, n. 4987

Presidente: Giovagnoli - Estensore: Francola

FATTO

Con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, la Ma.Li.Ma. s.r.l. impugnava dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia-Romagna, sezione staccata di Parma, l'ordinanza notificatale il 5 maggio 2021 con la quale il Comune di Parma le intimava lo sgombero dei locali ubicati all'interno del Teatro Regio di Parma e dell'Auditorium Paganini di Parma adibiti all'esercizio di attività di ristorazione di tipo bar in quanto occupati sine titulo.

Il Comune di Parma, infatti, intendeva acquisire la disponibilità dei locali di sua proprietà, in quanto parti integranti del Teatro Regio e dell'Auditorium Paganini appartenenti al suo patrimonio pubblico indisponibile e presso i quali la Ma.Li.Ma. s.r.l. esercitava l'attività commerciale di ristorazione aperta al pubblico in virtù di una concessione di servizi, ormai scaduta, rilasciatale in data 5 giugno 2013, all'esito dell'esperimento di una procedura aperta all'uopo indetta, dalla Fondazione Teatro Regio, costituita e partecipata dal medesimo Comune di Parma ed alla quale il Comune stesso aveva concesso in comodato dal 30 dicembre 2002 sino al 31 dicembre 2033 l'utilizzo di entrambe le strutture adibite allo svolgimento di attività artistiche.

E poiché all'esito dell'interlocuzione intercorsa alla scadenza della concessione non si addiveniva ad una soluzione concordata in ordine al rilascio dei locali in questione, il Comune di Parma si determinava ad autonomamente agire, tutelando il suo diritto di proprietà mediante l'esercizio dei poteri di autotutela esecutiva di cui è titolare nella vantata qualità di proprietaria di beni pubblici appartenenti al suo patrimonio indisponibile.

Con ricorso notificato e depositato il 18 maggio 2021, la Ma.Li.Ma. s.r.l. domandava l'annullamento, previa sospensione cautelare degli effetti, dell'ordinanza di sgombero notificatale e degli atti prodromici impugnati, lamentandone l'illegittimità per i seguenti motivi:

1) carenza di legittimazione del Comune di Parma - poiché, con la disposta concessione in comodato d'uso, sarebbe stata trasferita alla Fondazione Teatro Regio non soltanto la gestione ma anche la titolarità esclusiva delle iniziative propedeutiche alla tutela degli interessi pubblici connessi alle due strutture teatrali del Teatro Regio e dell'Auditorium Paganini, con la conseguente carenza di potere e, comunque, di legittimazione dell'ente locale comodante ad intervenire autoritativamente ed unilateralmente su un rapporto contrattuale di cui non è parte e che sarebbe ancora in auge;

2) violazione dell'art. 823 c.c., difetto assoluto di attribuzione, nullità e carenza di potere - perché i poteri esercitati dal Comune nell'occasione sarebbero esperibili a tutela soltanto dei beni demaniali e del patrimonio indisponibile e non anche a tutela dei beni rientranti nel patrimonio disponibile, come dovrebbero ritenersi i locali adibiti ad attività di ristorazione occupati dalla ricorrente e presenti all'interno dei teatri in questione, non essendo funzionali all'erogazione di un pubblico servizio;

3) insussistenza di qualsivoglia concessione di servizi - poiché il contratto concluso tra la Fondazione e la ricorrente sarebbe qualificabile non quale concessione di servizi ma quale locazione commerciale, considerato che la Fondazione, da un lato, non sarebbe, né potrebbe ritenersi, ente aggiudicatore o (tanto meno) ente in house del Comune di Parma, e, dall'altro, non avrebbe potuto affidare in concessione l'uso di locali di cui avrebbe la disponibilità soltanto a titolo di comodato, dovendosi, quindi, ritenere sussistente un autentico rapporto locatizio ad uso commerciale cui sarebbe applicabile la disciplina prevista dall'art. 28 l. n. 392/1978, con conseguente proroga automatica di sei anni in sei anni, in assenza di formale disdetta, come dovrebbe ritenersi accaduto nella circostanza, anche qualora non si condividesse la prospettata qualificazione giuridica del rapporto in questione, posto che la concessione, rientrando nel novero dei rapporti di durata, dovrebbe comunque considerarsi prorogata in virtù del proseguimento dopo la fissata scadenza tacitamente voluto da entrambe le parti;

4) violazione dell'art. 3 l. n. 241/1990 - poiché nell'ordinanza di sgombero impugnata non si rinverrebbe alcun elemento motivazionale dedicato alle ragioni del provvedimento adottato o ai presupposti del potere di autotutela esecutiva esercitato ai sensi dell'art. 823, comma 2, c.c.;

5) violazione dei principi di affidamento e di proporzionalità - poiché la pregressa condotta serbata dalla Fondazione avrebbe ingenerato il legittimo affidamento in ordine alla prosecuzione dell'attività commerciale esercitata all'interno dei locali in questione.

Si costituivano il Comune di Parma e la Fondazione Teatro Regio di Parma, opponendosi all'accoglimento del ricorso in quanto infondato in fatto e in diritto.

Con sentenza n. 226/2022 pubblicata il 25 luglio 2022 e non notificata da alcuna delle parti in causa, il Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia-Romagna, sezione staccata di Parma, Sez. I, rigettava il ricorso, condannando la ricorrente alla rifusione delle spese processuali sostenute dalle altre parti liquidate in euro 1.000,00 per ciascuna di esse, poiché: a) con riguardo al primo motivo, sarebbe irrilevante la qualità di comodataria della Fondazione Teatro Regio di Parma, considerato che gli immobili in questione appartengono al patrimonio indisponibile del Comune di Parma e che, quindi, quest'ultimo è legittimato ad agire in autotutela per il recupero della disponibilità dei predetti beni, onde assicurarne la loro destinazione pubblicistica; b) con riguardo al secondo motivo, sarebbe rimasta priva di prova la deduzione difensiva della ricorrente secondo cui i locali dalla medesima utilizzati per l'attività di ristorazione-bar rientrerebbero nel patrimonio disponibile del Comune di Parma, essendo gli stessi in rapporto di stretta dipendenza con l'attività del Teatro al punto da obbligare la loro gestione a seguire le prescrizioni del capitolato speciale imposte dalla Fondazione per conformarsi alle programmate attività di spettacolo, né essendo rilevante l'apertura dell'attività di ristorazione-bar a terzi non fruitori del teatro in quanto conseguenza di una decisione della medesima Fondazione prevista nell'art. 5 del predetto capitolato speciale; c) con riguardo al terzo motivo: c.1) la Fondazione sarebbe un organismo di diritto pubblico, avendo personalità giudica ed essendo interamente controllata dal Comune di Parma ed istituita per il soddisfacimento di esigenze di carattere generale non commerciale; c.2) il rapporto intercorrente tra la Fondazione e la ricorrente sarebbe qualificabile come concessione di servizi; c.3) non sarebbe stata provata la dedotta prosecuzione del rapporto oltre la data di scadenza del 31 dicembre 2019; c.4) oggetto dell'affidamento alla ricorrente sarebbero locali qualificabili quali beni appartenenti al patrimonio indisponibile, da cui discende la qualificazione del rapporto come concessione e non come locazione; d) con riguardo al quarto motivo, non sussisterebbe il dedotto difetto di motivazione del provvedimento impugnato, essendo espressamente indicata la ragione dell'agire nell'esigenza di rientrare nel possesso di locali occupati sine titulo dalla ricorrente; e) con riguardo al quinto motivo, non sussisterebbe alcun affidamento meritevole di tutela nel persistente illegittimo utilizzo di un bene pubblico ed, inoltre, il procedimento conclusosi con l'impugnato provvedimento del 5 maggio 2021 sarebbe stato avviato il 29 marzo 2021, con conseguente rispetto del principio di proporzionalità.

Con appello notificato il 23 settembre 2022 e depositato il 17 ottobre 2022, la Ma.Li.Ma. s.r.l. impugnava la predetta sentenza domandandone la riforma, previa sospensione cautelare degli effetti e concessione delle opportune misure cautelari, poiché il giudice di primo grado, ritenendo infondate le doglianze dedotte in ricorso, sarebbe incorso nei seguenti errores in iudicando:

1) erronea valutazione della documentazione prodotta - poiché avrebbe erroneamente ritenuto non desumibile alcun intento di proseguire il rapporto contrattuale formalmente conclusosi, quando, in realtà, sarebbe desumibile proprio il contrario dalla documentazione offerta in comunicazione nel giudizio di primo grado, in quanto significativamente indicativa della volontà in tal senso tacitamente manifestata da entrambe le parti ed in particolare dalla Fondazione che, dopo avere continuato ad incassare i canoni originariamente pattuiti ed avere richiesto l'erogazione di appositi servizi di ristorazione per eventi teatrali, avrebbe, quanto meno, tacitamente assentito alla continuazione del rapporto;

2) omessa pronuncia sulla dedotta questione di giurisdizione - poiché non avrebbe in modo alcuno considerato la questione di giurisdizione sollevata dall'appellante in relazione al terzo motivo, potendo, infatti, soltanto il giudice civile accertare l'attuale sussistenza o meno di un rapporto negoziale in essere tra la Fondazione e la ditta Ma.Li.Ma. s.r.l., non essendo consentito, per difetto assoluto di attribuzione, al Comune di Parma alcun disconoscimento autoritativo ed unilaterale dell'assunto contratto di locazione intercorrente tra l'appellante e la Fondazione;

3) contraddittorietà della motivazione in relazione al primo motivo di ricorso - poiché il giudice di primo grado sarebbe incorso in contraddittorietà, affermando che il Comune di Parma sarebbe legittimato all'esercizio dei poteri di cui all'art. 823 c.c. in quanto proprietario e possessore dei beni, non essendo esperibile il rimedio possessorio ad opera di colui il quale, come il predetto ente, non sia stato nel possesso dei beni;

4) erronea e contraddittoria motivazione in relazione al secondo motivo di ricorso - poiché il giudice di primo grado avrebbe erroneamente ritenuto inclusi nel patrimonio indisponibile del Comune di Parma i locali esterni adibiti a bar-ristorante del teatro, essendo strutturalmente autonomi e, comunque, fruibili dall'utenza cittadina anche quando il teatro è chiuso al pubblico;

5) erronea motivazione con riguardo al terzo motivo di ricorso - poiché il giudice di primo grado avrebbe erroneamente qualificato come concessione e non come locazione il rapporto contrattuale intercorrente tra l'appellante e la Fondazione, non potendo ascriversi rilievo dirimente alla sussistenza di concordati obblighi di servizio, considerata l'analogia con i gestori dei locali commerciali siti all'interno di aeroporti e stazioni di servizio;

6) erronea motivazione con riguardo al quarto motivo di ricorso - poiché il giudice di primo grado avrebbe erroneamente ritenuto compiutamente motivato il provvedimento impugnato, non avendo il Comune di Parma, come sarebbe stato doveroso, verificato la veridicità delle affermazioni unilaterali della Fondazione in ordine alla presunta carenza di alcun titolo legittimante l'occupazione e l'utilizzo dei locali bar in questione ad opera dell'appellante.

Si costituivano la Fondazione Teatro Regio ed il Comune di Parma, opponendosi all'accoglimento dell'appello.

L'appellante, senza opposizione delle controparti, domandava ed otteneva, in seguito, il rinvio della causa per abbinamento al merito, successivamente proponendo una nuova istanza cautelare motivata dalla sopravvenuta esigenza di salvaguardare le proprie ragioni dal provvedimento nelle more adottato dal Comune di Parma decretante la cessazione degli effetti della s.c.i.a. inerente all'attività di somministrazione alimenti e bevande all'interno del Bar Teatro piano terra del Teatro Regio per sopravvenuta indisponibilità dei locali.

Con decreto monocratico n. 5617/2022 il Presidente della Sezione sospendeva l'esecuzione e l'efficacia della sentenza appellata e dei provvedimenti impugnati in primo grado, ordinando alle amministrazioni appellate di garantire alla parte appellante la prosecuzione dell'attività economica esercitata negli immobili per cui è causa, fissando la camera di consiglio del 20 dicembre 2022, all'esito della quale il Collegio, con ordinanza n. 5958/2022, confermava il precedente accoglimento dell'istanza cautelare dell'appellante.

In seguito, con istanza congiunta depositata il 28 marzo 2023, le parti domandavano il passaggio in decisione senza discussione.

All'udienza pubblica del 4 aprile 2023 il Consiglio di Stato tratteneva l'appello in decisione.

DIRITTO

I. Come noto, secondo quanto previsto dall'art. 101, comma 1, del c.p.a. il ricorso in appello deve contenere specifiche censure contro i capi della sentenza gravata. Nel giudizio amministrativo costituisce, infatti, specifico onere dell'appellante formulare una critica puntuale della motivazione della sentenza impugnata, posto che l'oggetto di tale giudizio è costituito da quest'ultima e non dal provvedimento gravato in primo grado; il suo assolvimento esige quindi la deduzione di specifici motivi di contestazione della correttezza del percorso argomentativo che ha fondato la decisione appellata, con la conseguenza che il mancato assolvimento di tale onere, con le modalità appena precisate, implica l'inammissibilità della censura relativa al capo della decisione che è rimasto estraneo alle critiche svolte nell'atto d'appello (C.d.S., Sez. IV, 13 dicembre 2013, n. 6005), con conseguente reiezione del gravame se detto autonomo capo della sentenza è idoneo a sorreggere di per sé la decisione assunta (C.d.S., Sez. VI, 31 ottobre 2011, n. 5820).

Con riguardo al caso in esame, a cagione della proposizione dell'appello e della reiterazione di tutti i motivi dedotti in prime cure, il Collegio osserva che è riemerso l'intero thema decidendum del giudizio di primo grado, che perimetra necessariamente il processo di appello ex art. 104 c.p.a. Sicché, per ragioni di economia dei mezzi processuali e semplicità espositiva, secondo la logica affermata dalla decisione della Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 5 del 2015, il Collegio prende direttamente in esame gli originari motivi posti a sostegno del ricorso di primo grado (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. IV, n. 1137 del 2020; 27 dicembre 2021, n. 8633), superando le censure inerenti l'omesso esame o l'omessa motivazione su questioni dedotte in primo grado.

Ed invero, «la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, anche quando si sia tradotta nella mancanza totale di pronuncia da parte del giudice di primo grado su una delle domande del ricorrente, non costituisce un'ipotesi di annullamento con rinvio; pertanto, in applicazione del principio dell'effetto sostitutivo dell'appello, anche in questo caso, ravvisato l'errore del primo giudice, la causa deve essere decisa nel merito dal giudice di secondo grado [...] nei casi in cui non si applica l'art. 105 c.p.a., la possibilità per il giudice di appello di pronunciarsi sulla domande o sulle domande non esaminate in primo grado o erroneamente dichiarate irricevibili, inammissibili o improcedibili, presuppone necessariamente che, ai sensi dell'art. 101, comma 2, tali domande siano oggetto di rituale riproposizione, operando, altrimenti, la presunzione di rinuncia stabilita dallo stesso articolo, con conseguente inammissibilità per difetto di interesse dell'appello proposto senza assolvere all'onere di riproposizione» (C.d.S., Ad. plen., 30 luglio 2018, n. 10).

Pertanto, può procedersi direttamente all'esame dei motivi dedotti in primo grado.

II. Con il primo motivo, coincidente con il terzo motivo di appello, si lamenta l'illegittimità del provvedimento impugnato poiché adottato da un ente privo di legittimazione in quanto non parte del rapporto contrattuale legittimante la permanenza dell'appellante nei locali in questione.

II.1. L'oggetto del contendere è costituito dalla legittimità di un provvedimento esplicativo del potere formalmente riconosciuto dall'art. 823, comma 2, c.c. al Comune di Parma di procedere in via di autotutela amministrativa per la tutela dei beni demaniali e, per costante orientamento giurisprudenziale, anche del proprio patrimonio indisponibile.

La questione, dunque, attiene non tanto all'astratta sussistenza del potere, quanto ai presupposti previsti per il suo legittimo esercizio, sui quali l'appellante palesa le proprie perplessità.

Il Comune di Parma, infatti, ritiene che i locali in questione siano abusivamente occupati, non riconoscendo all'appellante alcun titolo legittimante la permanenza all'interno degli stessi.

L'appellante, invece, sostiene di essere titolare di un contratto di locazione ancora efficace stipulato con la Fondazione, da cui consegue l'illegittimità dell'intervento del Comune, poiché invasivo delle prerogative delle parti di un rapporto di diritto privato rispetto al quale l'ente locale sarebbe estraneo.

Il motivo in esame manifesta un collegamento con il terzo motivo del ricorso di primo grado, poiché presuppone una qualificazione del rapporto intercorrente tra la Fondazione e l'appellante che sarà esaminato oltre. Qualora, infatti, si convenga con l'appellante sulla qualificazione giuridica del rapporto intercorrente con la Fondazione e sulla persistente efficacia dello stesso, il provvedimento impugnato sarebbe illegittimo per eccesso di potere in ragione dell'accertata carenza dei presupposti.

Donde, il congiunto esame del primo motivo con il terzo, con una precisazione che appare in questa sede opportuna.

II.2. Nel motivo di appello dedicato alla censura del capo della sentenza impugnata relativo al primo motivo di ricorso l'appellante lamenta l'erroneità della gravata decisione nella parte in cui il giudice di prime cure ha ritenuto ammissibile l'autotutela esecutiva per la tutela di un possesso che il Comune di Parma non avrebbe mai potuto vantare sugli immobili in questione.

A pagina 16 dell'appello, infatti, si precisa che "Non si capisce come possa parlarsi di legittimo esercizio della tutela possessoria in assenza di possesso dei beni da parte del Comune di Parma. Il Comune è sì proprietario del bene ma non ne è certo possessore e ciò, proprio in virtù della concessione intercorrente tra amministrazione comunale e Fondazione. Il possessore del Teatro Regio, infatti, in costanza di concessione è solo la Fondazione e non certo il Comune. Contrariamente a quanto affermato dal giudice di prime cure risulta, dunque, estremamente rilevante la circostanza che la Fondazione Teatro Regio di Parma sia concessionaria del bene di che trattasi e che lo gestisca integralmente, anche se lo stesso rimane di proprietà del Comune di Parma".

II.2.1. Al riguardo, il Consiglio di Stato chiarisce che l'art. 823, comma 2, c.c. soddisfa un'esigenza di tutela non connessa al possesso, né alla mera proprietà pubblica, ma dipendente dagli interessi pubblici che il bene può soddisfare.

Ed invero, come già anticipato, i poteri di cui all'art. 823, comma 2, c.c. possono essere esercitati non soltanto in relazione ai beni del demanio (necessario ed eventuale), avendo la giurisprudenza costantemente affermato che l'autotutela amministrativa contemplata dalla disposizione indicata riguarda anche i beni del patrimonio indisponibile (Cass. civ., Sez. un., ord. n. 15155 in data 20 luglio 2015; C.d.S., III, n. 6386/2020; VI, n. 5934/2019; C.G.A.R.S., 16 luglio 2019, n. 674; 3 aprile 2018, n. 178) al fine di impedire più efficacemente l'illecita sottrazione degli stessi alla loro destinazione, posto che ai sensi dell'art. 828, comma 2, c.c. i beni che fanno parte del patrimonio indisponibile non possono essere sottratti alla loro destinazione "se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano". Il Consiglio di Stato ha, infatti, chiarito che resta alla pubblica amministrazione "il potere di controllo e di intervento di imperio, sia per proteggere il bene da turbative, sia per eliminare ogni situazione di contrasto riguardo alle esigenze del pubblico interesse che devono ispirare l'utilizzazione dei beni destinati a pubblico servizio" (C.d.S., Sez. V, 22 novembre 1993, n. 1164; Sez. IV, 25 novembre 1991, n. 969; Sez. V, 1° ottobre 1999, n. 1224).

Il che giustifica l'ampio ambito di operatività dell'autotutela amministrativa dei beni demaniali o del patrimonio indisponibile, al punto da comprendere non soltanto i provvedimenti autoritativi di riduzione in pristino, come quello previsto dall'art. 378 l. 20 marzo 1865 [, n. 2248 - n.d.r.], all. F, ma anche quelli di revoca e modificazione, avente forza coattiva, degli atti e delle situazioni divenute incompatibili con la destinazione pubblica del bene (C.d.S., Sez. V, n. 1164 del 1993).

Pertanto, il potere di autotutela esecutiva, previsto all'art. 823, comma 2, c.c., presuppone il previo accertamento della natura di bene patrimoniale indisponibile del compendio immobiliare oggetto di tutela recuperatoria pubblicistica, poiché, diversamente, il bene pubblico ricompreso nel patrimonio disponibile dell'ente può costituire oggetto di tutela soltanto mediante l'esperimento delle azioni civilistiche possessorie o della rei vindicatio (ex multis, C.d.S., Sez. VI, 29 agosto 2019, n. 5934).

Affinché una res pubblica, non appartenente al demanio necessario, assuma il regime giuridico proprio dei beni patrimoniali indisponibili in quanto destinati ad un pubblico servizio occorrono tre condizioni: a) la proprietà del bene (requisito soggettivo) da parte della pubblica amministrazione (tra le altre Cass. civ., Sez. un., 28 giugno 2006, n. 14865; Sez. II, 13 marzo 2007, n. 5867); b) la presenza della manifestazione di volontà dell'ente titolare del diritto reale pubblico, desumibile da un espresso atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell'ente di destinare quel determinato bene ad un pubblico servizio (requisito oggettivo formale); nonché (congiuntamente) l'effettiva ed attuale destinazione del bene (requisito oggettivo sostanziale) al pubblico servizio (C.d.S., Sez. VI, 29 agosto 2019, n. 5934; Cass. civ., Sez. un., 25 marzo 2016, n. 6019; C.d.S., Sez. IV, 30 gennaio 2019, n. 513; Cass. civ., Sez. un., 28 giugno 2006, n. 14685).

Una volta, dunque, dimostrata la sussistenza delle predette condizioni l'Amministrazione è legittimata a tutelare il bene in via amministrativa, potendo adottare un'ordinanza di rilascio nei confronti di chi lo occupi abusivamente (C.d.S., Sez. VI, 30 settembre 2015, n. 4554) senza dover provare la ricorrenza dei presupposti di cui all'art. 1168 c.c. o all'art. 1170 c.c. o all'art. 948 c.c., costituendo un istituto giuridico del tutto autonomo dalle richiamate azioni civilistiche a tutela del possesso o della proprietà.

La limitazione, infatti, dell'eccezionale potere di autotutela esecutiva ai soli beni del demanio e del patrimonio indisponibile non può che essere giustificata proprio nell'ottica della salvaguardia di specifiche finalità di interesse generale (anche soltanto potenzialmente) soddisfatte dal bene pubblico, poiché, diversamente opinando, la norma si presterebbe a censure di incostituzionalità per irragionevole disparità di trattamento nella parte in cui non consente l'esercizio del medesimo potere per la tutela dei beni del patrimonio disponibile.

Qualora, invero, la ratio della norma fosse rinvenibile nella protezione della proprietà pubblica in sé considerata, il potere in questione sarebbe preordinato a soddisfare le medesime esigenze di tutela garantite dall'esercizio dell'azione di rivendicazione da parte di colui il quale intenda riacquisire la disponibilità del proprio bene dimostrando di esserne proprietario. Donde, l'irragionevolezza della disciplina nella parte in cui distingue le varie categorie di beni pubblici.

Ma poiché la ragione giustificatrice dell'eccezionale potere di autotutela esecutiva che supera il divieto penalmente sanzionato dall'art. 392 c.p. (violenza sulle cose) e che esonera l'ente pubblico dalla necessità di proporre dinanzi al giudice civile le azioni a tutela della proprietà o del possesso si rinviene nell'esigenza di garantire gli interessi pubblici soddisfatti da quei beni che per destinazione naturale o artificiale manifestino siffatta attitudine, non può ritenersi che l'art. 823, comma 2, c.c. presupponga la prova delle medesime condizioni previste per l'accoglimento delle azioni di cui agli artt. 1168 e ss. c.c. o dell'art. 948 c.c.

Sebbene, infatti, l'Amministrazione possa scegliere se adire il giudice civile o agire in autotutela, la coincidenza dei risultati conseguibili (ossia il riacquisto della disponibilità del bene) non significa che le due differenti tecniche di tutela condividano anche i relativi presupposti, essendo questi ultimi condizionati dalle differenti ragioni che giustificano l'ammissibilità del singolo rimedio nel nostro ordinamento.

Se, infatti, per la tutela possessoria di cui agli artt. 1168 e 1170 c.c. occorre provare la precedente disponibilità del bene e per l'azione di rivendicazione occorre dimostrare la titolarità del diritto di proprietà per oltre un ventennio, l'autotutela esecutiva di cui all'art. 823, comma 2, c.c. presuppone, per il suo legittimo esercizio, la dimostrazione soltanto che il bene in questione appartenga al demanio o al patrimonio indisponibile, presumendosi da siffatta qualità, iuris et de iure, la sua preordinazione al soddisfacimento di determinati interessi pubblici. Donde, l'impossibilità di considerare siffatto rimedio come speculare nei presupposti rispetto agli altri due, sebbene senza dubbio alternativo nell'utilità in concreto ritraibile per l'Amministrazione.

Di conseguenza, la tutela amministrativa di cui all'art. 823 c.c. non richiede, né la prova del possesso anteriore, né la prova di un diritto di proprietà ininterrotto per oltre venti anni, non essendo i beni demaniali e quelli del patrimonio indisponibile suscettibili di usucapione (tra le tante, Cass. civ., Sez. II, 15 febbraio 2010, n. 3465).

La censura, pertanto, non può essere condivisa.

III. Con il secondo motivo si lamenta l'illegittimità del provvedimento impugnato poiché il potere di autotutela esercitato non sarebbe esperibile su beni, come i locali in questione, appartenenti al patrimonio disponibile del Comune di Parma, in ragione della loro non funzionalità all'erogazione di un pubblico servizio, né asservimento a finalità propriamente istituzionali dell'ente locale, essendo, infatti, l'attività ivi esercitata fruibile anche ad opera di terzi non partecipanti agli eventi organizzati in teatro.

III.1. Il motivo è infondato.

L'appartenenza del Teatro Regio e dell'Auditorium Paganini al patrimonio indisponibile del Comune risulta provata dalla documentazione prodotta in primo grado proprio dall'ente locale in data 4 novembre 2022, considerato che: il documento 5 dimostra l'avvenuto trasferimento del Teatro Regio dal Governo al Comune di Parma; il documento 9 dimostra l'esistenza del vincolo di cui alla l. 1089/1939 per il Teatro Regio; il documento 10 dimostra l'acquisizione per espropriazione dell'Auditorium Paganini.

La destinazione, poi, dei predetti immobili al pubblico servizio dedicato alla realizzazione di spettacoli artistici di intrattenimento non è revocata in dubbio e, comunque, è desumibile dai medesimi documenti comprovanti la relazione intercorsa tra l'appellante e la Fondazione Teatro Regio di Parma (come, ad esempio, gli ordini di servizio di cui al documento 12 depositato il 4 novembre 2022 da quest'ultima).

Né, peraltro, l'appellante appare contestare l'assunto, censurando, invece, l'inclusione nel patrimonio indisponibile del Comune di Parma dei soli locali adibiti a bar-ristorazione presenti all'interno del Teatro Regio e dell'Auditorium Paganini.

III.2. Il Consiglio di Stato osserva che la natura di bene pubblico afferisce all'intero immobile, ossia allo stabile nella sua interezza, non essendo consentita una selezione delle parti dello stesso in ragione di una possibile qualificazione del particolare diversa da quella del tutto in assenza di un formale atto amministrativo che decreti la distrazione di determinati locali, pur sempre catastalmente ben individuati, dalla finalità pubblicistica al soddisfacimento della quale è preordinato l'immobile nel suo complesso.

La destinazione pubblicistica, infatti, attiene all'intero immobile e non ai singoli locali di cui il medesimo è composto. E poiché quelli adoperati dall'appellante costituiscono parte integrante degli immobili in questione (come comprovato dal documento 6C depositato dalla Fondazione Teatro Regio il 4 novembre 2022) la cui appartenenza al patrimonio indisponibile non è revocabile in dubbio, non può condividersi la dedotta censura, neanche rivalutando l'attività economica di ristorazione-bar esercitata dal deducente in ragione della chiara natura servente ed accessoria della stessa rispetto, in quanto propedeutica a migliorarne la qualità, al servizio pubblico principale nel suo complesso offerto alla cittadinanza con l'organizzazione di spettacoli ed eventi artistici.

Né, peraltro, a diverso esito può pervenirsi a fronte della riconosciuta possibilità di esercitare l'attività di ristorazione-bar anche in favore dei non fruitori dei servizi del teatro, poiché l'ubicazione dei relativi locali all'interno della struttura teatrale favorisce, di per sé, la promozione degli spettacoli artistici ivi organizzati nei confronti di tutti gli avventori e frequentatori a qualsiasi titolo del bar, manifestando così un chiaro collegamento con gli scopi pubblicistici caratterizzanti la destinazione dell'intero immobile.

Anche, infatti, il bar inserito all'interno di una struttura di pregio come il Teatro Regio o l'Auditorium Paganini può costituire attrattiva idonea a pubblicizzare gli eventi artistici in programma nella stagione teatrale.

La censura, pertanto, è destituita di fondamento, come l'intero motivo di ricorso.

IV. Con il terzo motivo si lamenta l'illegittimità dell'impugnato provvedimento per omessa considerazione della sussistenza di un valido titolo legittimante l'occupazione dei locali del Teatro Regio e dell'Auditorium Paganini adibiti a servizio bar-ristorazione.

Quello, infatti, stipulato tra la Fondazione e l'appellante non sarebbe, a dispetto del nomen iuris nell'occasione adoperato, una concessione di servizi, ma un contratto di locazione, poiché: a) la Fondazione non avrebbe i requisiti soggettivi per poter essere qualificata quale Amministrazione aggiudicatrice, né quale società in house del Comune, da cui discenderebbe l'impossibilità di rilasciare delle concessioni; b) il Comune di Parma non avrebbe potuto delegare alla Fondazione l'espletamento della gara per l'affidamento in concessione dei locali in questione, se non contravvenendo al divieto di cui all'art. 37, comma 6, d.lgs. n. 50/2016; c) la Fondazione aveva la disponibilità dei locali a titolo di comodato e, quindi, non poteva affidarli in concessione; d) non sussisterebbe un rapporto di strumentalità necessaria tra l'attività commerciale esercitata nei locali in questione ed il servizio di gestione del Teatro, essendo i bar-ristoranti accessibili anche al pubblico esterno e non soltanto agli spettatori del Teatro o agli amministratori e dipendenti della Fondazione Teatro Regio.

IV.1. Il motivo è infondato.

Con riguardo al dedotto profilo soggettivo, la Fondazione deve considerarsi concessionaria di beni e servizi pubblici.

Nella sua dichiarata qualità di ente di diritto privato di cui all'art. 14 c.c., secondo quanto precisato nello statuto, la Fondazione Teatro Regio di Parma è, infatti, affidataria, in virtù della convenzione del 30 dicembre 2002 stipulata con il Comune di Parma, della "realizzazione, con autonomia artistica e finanziaria, dell'attività lirica, concertistica, danza e le attività teatrali collaterali", nonché, per siffatte finalità, del Teatro Regio, dell'Auditorium Paganini e delle strutture di servizio dei medesimi immobili in comodato.

L'oggetto della convenzione non desta perplessità, essendo costituito dall'affidamento del servizio pubblico di organizzazione nei locali dei predetti teatri delle attività della stagione concertistica, lirica e teatrale, in precedenza gestite dall'ente locale. A pagina 2 della convenzione si precisa, infatti, che il Comune aveva gestito sino ad allora direttamente le predette strutture, promuovendo ed organizzando gran parte della produzione teatrale e musicale della città. Lo scopo, dunque, della convenzione era ed è l'affidamento ad un centro autonomo di imputazione dell'erogazione del servizio pubblico di intrattenimento mediante organizzazione di eventi artistico-musicali presso il Teatro Regio e l'Auditorium Paganini, che venivano espressamente concessi in comodato, onde chiarirne la gratuità dell'utilizzo e della gestione nei rapporti con il Comune di Parma.

Sennonché, a dispetto del nomen iuris adoperato, la riconosciuta facoltà di utilizzo dei predetti beni deve ritenersi oggetto di una vera e propria concessione e non di un contratto di comodato.

Al riguardo, con le dovute distinzioni, occorre richiamare la consolidata giurisprudenza secondo cui, per stabilire se si sia in presenza di concessione di bene pubblico ovvero di atto paritetico riconducibile alla locazione, non è sufficiente che l'amministrazione pubblica abbia concesso in godimento il bene al privato, ma è necessario indagare la natura del bene stesso, per cui solo se il bene appartiene al novero dei beni demaniali è possibile qualificare il provvedimento come concessione demaniale, e non è possibile invece qualora appartenga al patrimonio disponibile dell'amministrazione (C.d.S., Sez. V, 3 giugno 2021, n. 4216; 8 luglio 2019, n. 4783; Cass. civ., Sez. un., 25 marzo 2016, n. 6019).

Ed invero, secondo quanto da tempo affermato dalla Corte di cassazione a Sezioni unite, l'attribuzione a privati dell'utilizzazione di beni pubblici in senso stretto, ossia appartenenti al demanio o al patrimonio indisponibile di un ente pubblico, è sempre riconducibile (ove non risulti diversamente) alla figura della concessione-contratto, quale che sia la terminologia adottata dalle parti, in quanto il godimento dei beni pubblici, stante la loro destinazione alla diretta realizzazione di interessi pubblici, può essere legittimamente attribuito ad un soggetto diverso dall'ente titolare del diritto solo mediante concessione amministrativa, mentre laddove si tratti di beni del patrimonio disponibile viene a realizzarsi lo schema privatistico della locazione, con conseguente attribuzione delle relative controversie, nel primo caso, al giudice amministrativo e, nel secondo caso, al giudice ordinario (per tutte, Cass. civ., Sez. un., 14865/2006).

Nella fattispecie è indubbio che gli immobili in questione siano beni pubblici appartenenti al patrimonio indisponibile in quanto preordinati a favorire l'erogazione di un servizio pubblico ed è, quindi, del pari indubbio che l'affidamento alla Fondazione ad opera del Comune di Parma sia giuridicamente qualificabile quale concessione, a dispetto del nomen iuris adoperato, non potendosi ricorrere ai contratti di diritto privato per regolamentare la devoluzione a terzi di diritti d'uso di beni pubblici che non siano disponibili, come certamente non lo sono quelli in questione.

Ed invero, lo scopo perseguito dal Comune di Parma con il menzionato affidamento formalmente qualificato "in comodato" del Teatro Regio e dell'Auditorium Paganini era ed è rinvenibile nell'intento di assicurare alla Fondazione tutti i mezzi necessari per poter erogare in favore della cittadinanza locale il servizio pubblico di organizzazione di spettacoli artistici-musicali di intrattenimento, senza prevedere il pagamento di alcun corrispettivo a titolo di canone per l'utilizzo delle strutture teatrali in ragione della circostanza che la prevista gratuità non è fine a se stessa.

Donde, la qualificazione giuridica della "Convenzione fra il Comune di Parma e la Fondazione Teatro Regio per la realizzazione di attività lirica, concertistica, danza e le attività collaterali" stipulata il 30 dicembre 2002 quale concessione mista di beni e servizi pubblici, in cui la componente dei servizi risulta prevalente rispetto a quella dei beni pubblici, al punto da giustificare l'affidamento in utilizzo di questi ultimi a titolo gratuito, sebbene con tutti gli obblighi di manutenzione e gli altri oneri previsti.

Siffatta natura mista della concessione del 30 dicembre 2002 si riflette anche nei rapporti tra la Fondazione e l'appellante. Se, infatti, la prima è concessionaria di beni e servizi, costituisce sua facoltà gestire i beni affidati in uso per garantire l'erogazione del miglior servizio pubblico possibile, anche mediante la sub-concessione di taluni locali per attività strumentali rispetto a quella istituzionalmente perseguita dall'intera struttura teatrale, come, appunto, accaduto nell'occasione, mancando nella concessione del 30 dicembre 2002 la previsione di un'apposita clausola propedeutica a vietare siffatta eventualità e, per converso, prevedendosi soltanto un ampio e generico affidamento alla Fondazione della gestione dei teatri in questione.

Donde, la conclusione secondo cui il controverso rapporto intercorso tra la Fondazione e l'appellante è stato correttamente qualificato nel relativo atto quale concessione del servizio-bar, poiché costituisce una concessione mista di beni e servizi funzionale rispetto all'erogazione del servizio pubblico di organizzazione di eventi artistico-musicali presso il Teatro Regio e l'Auditorium Paganini.

Il contratto di concessione siglato dalle parti il 5 giugno 2013, infatti, soddisfa tutti i requisiti propri dei rapporti di concessione, avendo per oggetto lo svolgimento di un'attività economica strumentale al miglioramento del servizio pubblico erogato dal concedente mediante l'affidamento in uso di taluni locali del teatro all'uopo appositamente adibiti da parte di un ente, la Fondazione, concessionaria tanto del servizio quanto dei beni pubblici e, quindi, dei locali stessi interessati.

Non può, infatti, ritenersi la concessione mista in esame una locazione commerciale, come sostenuto dall'appellante, per carenza degli elementi tipici dei rapporti locatizi, in quanto: a) i locali concessi in uso appartengono al patrimonio indisponibile e non a quello disponibile del Comune di Parma; b) l'oggetto del rapporto non è il mero godimento dei locali in uso per il mero soddisfacimento di esigenze proprie del conduttore, ma l'erogazione di un servizio di ristorazione strettamente strumentale al servizio pubblico erogato dalla Fondazione con la gestione dell'intera struttura teatrale, come chiaramente desumibile dal tenore letterale del contratto di concessione del 5 giugno 2013 nella parte in cui all'art. 1 identifica nella gestione del servizio bar all'interno dei locali del Teatro Regio e dell'Auditorium Paganini l'oggetto dell'affidamento ed all'art. 3 obbliga l'appellante a corrispondere alla Fondazione un corrispettivo composto tanto da un canone mensile di euro 2.020,00 per "la messa a disposizione dei locali", quanto da un compenso ulteriore pari al 3,01% "sul fatturato di tutti i servizi affidati" a titolo di quota variabile.

L'appellante richiama un orientamento della Corte di cassazione, affermato con riguardo alle attività commerciali esercitate su aree demaniali in affidamento da concessionari secondo cui i servizi di natura commerciale svolti in area demaniale che trovano origine in un rapporto derivato fra il concessionario e il terzo, cui l'amministrazione concedente sia rimasta estranea e che risultino privi di collegamento con l'atto autoritativo concessorio, che ne costituisce un mero presupposto, non soggiacciono alle regole del procedimento ad evidenza pubblica, ma si risolvono in contratti di diritto privato, devoluti alla giurisdizione ordinaria civile (cfr. in termini, proprio con riguardo al rapporto di sub-concessione di spazi aeroportuali, Cass. civ., Sez. un., nn. 4884/2017, 7663/2016, 8623/2015, nonché nn. 9233/2002 e 9288/2002).

Il Consiglio di Stato osserva che nella fattispecie sussiste quel collegamento con la concessione mista di beni e servizi rilasciata a monte dal Comune di Parma alla Fondazione che preclude la qualificazione del rapporto in questione come contratto di locazione poiché il servizio di ristorazione-bar non è avulso dal servizio pubblico di organizzazione di spettacoli artistico-musicali, divenendo un elemento integrativo dell'offerta di intrattenimento nel suo complesso considerata. Lo scopo, infatti, perseguito dal Comune di Parma e dalla Fondazione è la promozione della cultura mediante la programmazione e promozione di eventi artistici che avvicinino sempre più la cittadinanza al mondo dell'arte musicale ed alle importanti tradizioni storiche della nostra cultura artistica italiana che in diversi momenti è stata contraddistinta da grandi compositori e da opere rappresentative anche di valori ed ideologie che caratterizzano l'identità nazionale dell'Italia.

Donde, l'esigenza di garantire allo spettatore un servizio pubblico di livello elevato e assai confortevole con la possibilità di beneficiare anche di un punto di ristoro ubicato non al di fuori ma all'interno degli edifici teatrali, ed ossia di immobili contraddistinti da un proprio pregio ed indiscutibile valore storico ed artistico.

Non si può, infatti, assimilare la ristorazione-bar all'interno di un teatro storico alla ristorazione-bar gestita all'interno dei locali di un aeroporto o nell'ambito di una stazione di servizio autostradale, poiché l'offerta del servizio al pubblico è qualitativamente diversa, potendo l'utenza dei teatri beneficiare anche della possibilità di consumare pasti e bibite nell'ambito di un edificio di valore storico-artistico-culturale, ammirando affreschi e strutture architettoniche.

Ecco la ragione per la quale l'attività di ristorazione in questione diventa parte integrante del servizio artistico e culturale offerto al pubblico, al punto da essere oggetto di una concessione e non di un contratto privatistico di locazione.

Peraltro, il collegamento con gli spettacoli teatrali è chiaramente desumibile dal capitolato speciale allegato alla concessione del servizio bar stipulata il 5 giugno 2013, laddove all'art. 3, in ragione dell'espletamento dell'attività all'interno di locali di un "Teatro di tradizione", si annovera, tra i doveri a carico del concessionario, l'obbligo di fornire un servizio di vigilanza integrativo a quello in dotazione al teatro, onde evitare che gli utenti possano accedere, senza autorizzazione, ai locali teatrali non oggetto di servizio bar ed, inoltre, all'art. 5 si prevede che il concessionario dovrà garantire il servizio tutti i giorni, festivi inclusi, senza alcun onere aggiuntivo, financo oltre l'orario convenuto e per tutto il tempo necessario che sarà concordato con l'Amministrazione in occasione di emergenze e di eventi di natura straordinaria.

Non può, dunque, ritenersi che quello intercorso tra l'appellante e la Fondazione sia un mero contratto di locazione di immobile ad uso commerciale, essendo, invece, un complesso rapporto di concessione di beni e soprattutto di servizi.

Donde, l'inapplicabilità della evocata disciplina prevista dall'art. 28 della l. n. 392/1978.

Trattandosi, comunque, di un rapporto di durata, occorre verificare se la prosecuzione dell'attività oltre la scadenza pattuita abbia determinato una rinnovazione della concessione.

Al riguardo, rileva la clausola di cui all'art. 2 del contratto di concessione secondo cui "La Fondazione si riserva di rinnovare lo stesso per ulteriori sei anni. Ove la Fondazione determinasse di procedere con il rinnovo, ne darà comunicazione al Concessionario con un preavviso di almeno tre mesi rispetto alla prima scadenza. La Fondazione si riserva il diritto di rinnovare la concessione per tutti i servizi affidati o solo per alcuni tra essi".

Il Consiglio di Stato osserva che occorre distinguere la rinnovazione, implicante la decisione di proseguire il rapporto per un periodo di tempo pari a quello originariamente concordato e scaduto, dalla c.d. proroga tecnica che, invece, determina la prosecuzione temporanea del rapporto sino al soddisfacimento di una transitoria esigenza, identificabile, nel nostro caso, con la necessità di non interrompere il servizio nelle more del completamento della procedura da indire per l'individuazione del nuovo concessionario.

Nel caso in esame, il rapporto tra la Fondazione e l'appellante è certamente proseguito dopo la scadenza della concessione, come comprovato dagli ordini di servizio offerti in comunicazione (documento 12 depositato il 4 novembre 2022 dalla Fondazione), ma non vi è stata alcuna espressa rinnovazione, essendo stata, invece, manifestata dalla Fondazione la volontà contraria di procedere all'individuazione di un nuovo concessionario, previa indagine di mercato, sin dal mese di gennaio 2019 (documenti 13, 14 e 15 depositati il 4 novembre 2022 dalla Fondazione), ossia ben prima della data di scadenza della concessione.

Né, peraltro, può ritenersi che la rinnovazione sia tacitamente avvenuta, poiché la concessione non prevede una clausola di rinnovo automatico salvo disdetta similare a quella spesso operante nei contratti di locazione, prevedendo, invece, all'art. 2 proprio la regola opposta, ossia della rinnovazione espressa preceduta da un preavviso di tre mesi che formalizzi l'intento di prolungare la durata del rapporto per ulteriori sei anni con riguardo a tutti o soltanto ad alcuni dei servizi affidati.

Dunque, la prosecuzione dell'attività oltre la data del 5 giugno 2019 non può essere indicativa di una tacita rinnovazione della concessione, costituendo, invece, una condotta esplicativa di una c.d. proroga tecnica, ossia provvisoria in quanto limitata al soddisfacimento di transitorie esigenze, nell'occasione dipendenti dalla necessità di non interrompere il servizio per il tempo occorrente all'individuazione di un nuovo concessionario, dovendosi in tal senso intendere l'accordo firmato dalle parti in causa con il quale è stata convenuta la proroga della concessione sino al 31 dicembre 2019 in ragione delle trattative in corso per dirimere la controversia in atto in ordine al rilascio dei locali in questione.

Trattandosi, però, di una prosecuzione precaria del rapporto, è in facoltà del concedente decretarne la conclusione per dichiarata cessazione delle esigenze che lo giustificavano, non venendo in rilievo alcun affidamento del concessionario scaduto da tutelare in ragione del beneficio di fatto da costui conseguito nell'espletamento dell'attività oltre il tempo originariamente pattuito.

Pertanto, una volta manifestata la volontà di riacquisire la disponibilità dei locali in questione, con la diffida del 17 febbraio 2020 (doc. 19 depositato il 4 novembre 2022 dalla Fondazione), il rapporto si è formalmente interrotto e, di conseguenza, l'appellante era tenuta a rilasciare i locali in quanto occupante sine titulo.

Donde, la piena legittimazione del Comune di Parma ad agire, in via amministrativa, per il recupero della disponibilità dei predetti locali nei confronti di un terzo che, senza più alcun titolo, si oppone al loro rilascio, non essendo in modo alcuno preclusivo l'affidamento alla Fondazione del Teatro Regio e dell'Auditorium Paganini, trattandosi di un affidamento in gestione che non pregiudica all'ente locale proprietario la possibilità di agire ai sensi dell'art. 823 c.c. per la tutela degli interessi pubblici perseguiti.

Con riguardo, poi, al profilo di giurisdizione che il giudice di primo grado avrebbe omesso di esaminare, il Consiglio di Stato osserva che la doglianza non è chiara.

Qualora, infatti, l'appellante intendesse contestare la giurisdizione del giudice amministrativo dalla medesima adito, il motivo sarebbe inammissibile, secondo l'orientamento ormai consolidato sia della giurisprudenza amministrativa (tra le altre: C.d.S., Ad. plen., ord. 28 luglio 2017, n. 4; II, 18 giugno 2021, n. 4740, 6 maggio 2021, n. 3543, 8 marzo 2021, n. 1909, 24 dicembre 2020, n. 8330, 2 dicembre 2020, n. 7628, 20 dicembre 2019, n. 8630, 14 novembre 2019, n. 7811, 31 maggio 2019, n. 3654; III, 17 maggio 2021, n. 3822, 31 maggio 2018, n. 3272, 1° dicembre 2016, n. 5047, 26 ottobre 2016, n. 4501, 13 aprile 2015, n. 1855, 7 aprile 2014, n. 1630; IV, 24 luglio 2019, n. 5231, 22 maggio 2017, n. 2367, 21 dicembre 2013, n. 5403; V, 15 marzo 2021, n. 2164, 7 gennaio 2020, n. 75, 6 dicembre 2019, n. 8345, 19 settembre 2019, n. 6247, 28 maggio 2019, n. 3500, 13 agosto 2018, n. 4934, 27 marzo 2015, n. 1605, 7 febbraio 2012, n. 656; VI, 5 gennaio 2021, n. 151, 8 aprile 2015, n. 1778, 8 febbraio 2013, n. 703), sia della Corte di cassazione (Cass. civ., Sez. un., 20 ottobre 2016, n. 21260; seguita poi dalle sentenze 19 gennaio 2017, n. 1907, 25 maggio 2018, n. 13192, e 24 settembre 2018, n. 22439).

L'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 19 del 29 novembre 2021 ha, infatti, precisato che è inammissibile l'eccezione di difetto di giurisdizione proposta in appello dal ricorrente soccombente in primo grado per una duplicità di motivi: da un lato (secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato), in ragione del divieto dell'abuso del processo e della violazione del dovere di cooperazione per la ragionevole durata del processo sancita dall'art. 2, comma 2, c.p.a., riconducibile all'ondivago comportamento del ricorrente consistente nel contestare in appello la giurisdizione da lui stesso adita dopo l'esito sfavorevole del giudizio di primo grado; dall'altro (secondo i più recenti arresti della Cassazione) in ragione del difetto, in capo al ricorrente, del requisito della soccombenza in primo grado sulla questione di giurisdizione. Aggiunge la Plenaria che la conclusione dell'inammissibilità trova un'ulteriore base giuridica nell'esistenza di un rimedio tipico per dirimere in via definitiva ed immodificabile i dubbi sulla giurisdizione, cioè il regolamento preventivo di giurisdizione davanti alle Sezioni unite della Cassazione, ai sensi dell'art. 41 c.p.c., che secondo la giurisprudenza della stessa Cassazione è proponibile anche dall'attore a fronte dell'altrui contestazione: sicché, il mancato utilizzo di tale apposito strumento processuale prima che la causa "sia decisa nel merito in primo grado" (così l'art. 41, primo comma, c.p.c.) dimostra la strumentalità della riproposizione della questione in appello ad opera della parte che non l'ha sollevata in primo grado e che su di essa non ha riportato alcuna soccombenza.

Qualora, invece, con la censura in esame si intendesse contestare la legittimità del provvedimento impugnato poiché incidente su un presunto rapporto contrattuale privatistico di cui il Comune di Parma non sarebbe neanche parte e che sarebbe sindacabile soltanto dal giudice ordinario, la doglianza sarebbe infondata, poiché spetta al giudice adito la preventiva qualificazione di un atto giuridico al fine di individuare la disciplina in concreto applicabile per la decisione della controversia, non essendo il medesimo vincolato neanche dalla concordata prospettazione delle parti, come chiarito in generale dalla Corte di cassazione per il procedimento di qualificazione del contratto. Il giudice di merito, infatti, non è vincolato dal nomen iuris attribuito dalle parti, pur dovendone tenere conto, essendo invece tenuto a ricercare ed interpretare la concreta volontà dei contraenti stessi, avuto riguardo all'effettivo contenuto del rapporto e facendo applicazione delle regole ermeneutiche dettate dagli artt. 1362 e ss. c.c. (Cass. civ., Sez. III, 20 novembre 2002, n. 16342; Cass. nn. 6439/1988, 6610/1991, 10898/1992, 9944/2000, 3200/2001).

La censura volta, infatti, a dedurre l'impossibilità per il Comune di Parma di esercitare poteri autoritativi di cui all'art. 823 c.c. è destituita di fondamento, tanto più considerato che la formale qualificazione del rapporto controverso intercorso tra la Fondazione e l'appellante come concessione di beni e servizi è giuridicamente corretta, non sussistendo nessun rapporto privatistico, né, al tempo dell'impugnato provvedimento, alcuna concessione o titolo giustificante la permanenza dell'appellante all'interno dei locali oggetto di causa.

Donde, l'infondatezza dell'intero motivo esaminato.

V. Con il quarto motivo si lamenta l'illegittimità del provvedimento impugnato per difetto di motivazione, poiché il Comune non avrebbe adeguatamente considerato la complessità dell'intera vicenda, limitandosi ad affermare che l'appellante occupava sine titulo i locali in questione.

V.1. Il motivo è destituito di fondamento, poiché, per le ragioni già indicate, il provvedimento è stato correttamente adottato e adeguatamente motivato, occupando l'appellante i locali oggetto di causa senza alcun valido titolo giustificativo.

VI. Con il quinto e ultimo motivo si lamenta l'illegittimità del provvedimento impugnato per violazione del principio di affidamento e del principio di proporzionalità, poiché, da un lato, la Fondazione avrebbe consentito la prosecuzione del rapporto oltre la sua scadenza e, dall'altro, il termine assegnato per lo sgombero dei locali sarebbe stato troppo esiguo rispetto alla complessità del caso ed alle attività all'uopo occorrenti.

VI.1. Il Consiglio di Stato osserva che, in relazione al primo profilo, non sussiste alcun affidamento da tutelare, tenuto conto dell'assenza di una clausola espressa di rinnovo tacito e della volontà della Fondazione di individuare un nuovo affidatario manifestata sin dal mese di gennaio 2019, ossia sei mesi prima della scadenza della concessione. La prosecuzione, dunque, del rapporto oltre la sua scadenza costituiva una proroga tecnica del tutto transitoria e precaria di cui l'appellante si è avvalso, continuando ad esercitare l'attività oltre il 5 giugno 2019 in ragione di una contestazione, rivelatasi poi infondata, sulla qualificazione giuridica del rapporto intercorso con la Fondazione.

Quindi, non sussiste la dedotta violazione di alcun legittimo affidamento sulla rinnovazione della concessione.

Non sussiste, poi, neanche la prospettata violazione del principio di proporzionalità se si considera che la Fondazione aveva, comunque, concesso la proroga del rapporto per ulteriori sei mesi, così concedendo un termine ragionevole per predisporre le operazioni di sgombero e rilascio dei locali.

Il motivo, pertanto, è infondato, come l'intero appello che, quindi, deve essere respinto.

VII. La complessità delle questioni di diritto esaminate giustifica l'integrale compensazione delle spese processuali del grado d'appello.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Settima), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Spese processuali del grado d'appello compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.