Consiglio di Stato
Sezione III
Sentenza 22 settembre 2023, n. 8484
Presidente: Corradino - Estensore: Ferrari
FATTO
1. Con ricorso proposto dinanzi al T.A.R. Lombardia, sezione staccata di Brescia, la signora Fiorenza M. ha impugnato la nota del 21 gennaio 2015, n. 6719, con la quale il Capo ufficio dello Sportello caccia (del Settore agricoltura, caccia e pesca) della Provincia di Brescia ha risposto alla richiesta di informazioni in merito alla autorizzazione per appostamento fisso da caccia n. 26627 in località Poffé Punta Scala nel Comune di Lumezzane, rilasciata al signor Severino Z. su un terreno confinante con quello ove sorge una abitazione di proprietà sua e dei suoi congiunti. Con detta nota la Provincia, nel chiarire che l'istruttoria era ancora in corso, ha affermato che l'autorizzazione rilasciata al signor Z. era stata sospesa e non revocata, con la conseguenza che non ne era stata rilasciata una nuova ma meramente riattivata la n. 26627. Ha aggiunto che tale autorizzazione era stata rilasciata, secondo la vigente disciplina, "in deroga" alle distanze da altri appostamenti e che non è di competenza del Settore agricoltura, caccia e pesca - "Sportello caccia" la verifica della presenza di eventuali strutture o manufatti qualora gli stessi siano mantenuti in zona e non utilizzati a fini venatori.
La vicenda relativa alla legittimità della autorizzazione alla posa del predetto appostamento fisso di caccia rilasciata al signor Z. inizia oltre quattro anni addietro con una serie di segnalazioni alla Polizia provinciale e all'Ufficio caccia e pesca della Provincia che nel giugno del 2011 hanno portato all'avvio di un procedimento di verifica della sussistenza dei requisiti per la posa del predetto capanno.
È dedotto in ricorso, tra l'altro, che illegittimamente la Provincia avrebbe fatto rivivere una licenza già inesistente per effetto del provvedimento di revoca, con la conseguenza che al controinteressato sarebbe stata illegittimamente rilasciata una nuova licenza.
2. Con sentenza 19 dicembre 2016, n. 1725, la Sezione II del T.A.R. Brescia ha respinto il ricorso.
3. La sentenza è stata impugnata dalla signora M. con appello notificato in data 15 giugno 2017 e depositato il successivo 7 luglio, deducendone l'erroneità innanzitutto perché attribuisce valenza di provvedimento a mere comunicazioni.
Ha aggiunto che l'autorizzazione non è conforme al regime delle distanze imposto dalla normativa in questione. Infatti, essa non rispetta la distanza di almeno 100 metri dalla abitazione della ricorrente, ma nemmeno da quelle di cui il controinteressato è comproprietario e da altro capanno di caccia.
4. Si è costituita la Provincia di Brescia, che ha preliminarmente eccepito l'inammissibilità delle censure dedotte contro il provvedimento del 6 settembre 2013 e dei motivi nuovi introdotti per la prima volta in appello, nonché la sopravvenuta carenza di interesse perché a seguito del decesso (avvenuto in data 7 maggio 2020) del sig. Severino Z., il signor Massimo Z., con decreto regionale del 6 ottobre 2021, n. 13262, è subentrato nella titolarità dell'appostamento fisso del precedente titolare a seguito di nuova verifica del rispetto delle distanze minime; nel merito la Provincia ha sostenuto l'infondatezza dell'appello.
5. Il signor Severino Z. non si è costituito in giudizio.
6. Con ordinanza 20 febbraio 2023, n. 1692, è stata dichiarata l'interruzione del giudizio a seguito della morte del signor Severino Z.
7. I signori Massimo Z., Maria Tatiana Z. e Anna Maria C., ai quali l'appello è stato notificato, a seguito di riassunzione, nella qualità di eredi del signor Severino Z. (i primi due figli, l'ultima moglie), non si sono costituiti in giudizio.
8. All'udienza del 13 luglio 2023 la causa è stata trattenuta in decisione.
DIRITTO
1. Come esposto in narrativa la controversia attiene all'autorizzazione per un appostamento fisso da caccia n. 26627 (c.d. "capanno") in località Poffé Punta Scala nel Comune di Lumezzane, rilasciata al signor Severino Z. su un terreno confinante con quello ove sorge una abitazione di proprietà dell'appellante, signora Fiorenza M., e dei suoi congiunti. L'autorizzazione in questione, ad avviso dell'appellante, in realtà non esiste più nel mondo giuridico perché revocata.
Ha invece affermato il giudice di primo grado che l'autorizzazione esisteva, perché la revoca era stata a sua volta revocata con provvedimento del 6 settembre 2013, non impugnata.
2. Nel costituirsi in giudizio la Provincia di Brescia ha sollevato una serie di eccezioni.
Ha eccepito innanzitutto l'inammissibilità delle censure dedotte contro il provvedimento del 6 settembre 2013 e dei motivi nuovi introdotti per la prima volta in appello, nonché la sopravvenuta carenza di interesse perché, a seguito del decesso (avvenuto in data 7 maggio 2020) del signor Severino Z., il signor Massimo Z., con decreto della Regione Lombardia del 6 ottobre 2021, n. 13262, è subentrato nella titolarità dell'appostamento fisso del padre a conclusione di nuova verifica del rispetto delle distanze minime.
In replica all'eccezione sollevata dalla Provincia con la costituzione in giudizio l'appellante ha notificato il ricorso agli eredi del signor Severino Z. (la moglie e i figli Anna Maria C., Massimo Z. e Maria Tatiana Z.), che non si sono costituiti in giudizio.
Tale notifica, se ha consentito di garantire agli eredi del signor Z. la possibilità di difendersi in giudizio, non ha peraltro sanato l'intervenuta improcedibilità dell'appello determinata dal subentro, ex art. 25, comma 5, l.r. Lombardia n. 26 del 1993, del figlio (Massimo Z.) del signor Severino Z. nell'autorizzazione all'appostamento fisso da caccia n. 26627.
La necessità di impugnare il subentro è connessa alla natura dello stesso di "atto di conferma in senso proprio", attribuitogli dal Collegio nell'esercizio del suo potere di qualificare gli atti amministrativi oggetto di giudizio. Si tratta di un potere ufficioso che il giudice amministrativo può esercitare senza essere vincolato né dall'intitolazione dell'atto né tanto meno dalle deduzioni delle parti in causa (C.d.S., Sez. V, 5 giugno 2018, n. 3387). L'esatta qualificazione di un provvedimento va effettuata tenendo conto del suo effettivo contenuto e della sua causa reale, anche a prescindere dal nomen iuris formalmente attribuito dall'Amministrazione, con la conseguenza che l'apparenza derivante da una terminologia eventualmente imprecisa o impropria, utilizzata nella formulazione testuale dell'atto stesso, non è vincolante né può prevalere sulla sostanza e neppure determina di per sé un vizio di legittimità dell'atto, purché ovviamente sussistano i presupposti formali e sostanziali corrispondenti al potere effettivamente esercitato (C.d.S., Sez. V, 28 agosto 2019, n. 5921; Sez. IV, 18 settembre 2012, n. 4942).
3. Il Collegio, nell'esercizio del potere sopra menzionato, rammenta la distinzione tra atti "meramente confermativi" e atti "di conferma in senso proprio".
La distinzione ha qui rilievo in quanto l'eventuale appartenenza dell'atto di subentro al novero degli atti "di conferma in senso proprio", permetterebbe di apprezzarne gli effetti autonomamente lesivi e, quindi, la sua soggezione all'impugnazione nei termini decadenziali e la sua capacità di determinare il consolidamento della statuizione non oggetto di nuovo gravame.
Va rilevato che gli atti "meramente confermativi" sono quegli atti che, a differenza degli atti "di conferma", si connotano per la ritenuta insussistenza, da parte dell'amministrazione, di valide ragioni di riapertura del procedimento conclusosi con la precedente determinazione; mancando detta riapertura e la conseguente nuova ponderazione degli interessi coinvolti, nello schema tipico dei c.d. "provvedimenti di secondo grado", essi sono insuscettibili di autonoma impugnazione per carenza di un carattere autonomamente lesivo (C.d.S., Sez. V, 4 ottobre 2021, n. 6606; 8 novembre 2019, n. 7655; 17 gennaio 2019, n. 432; Sez. III, 27 dicembre 2018, n. 7230; Sez. IV, 12 settembre 2018, n. 5341; Sez. VI, 10 settembre 2018, n. 5301; Sez. III, 8 giugno 2018, n. 3493; Sez. V, 10 aprile 2018, n. 2172; 27 novembre 2017, n. 5547; Sez. IV, 27 gennaio 2017, n. 357; 12 ottobre 2016, n. 4214; 29 febbraio 2016, n. 812).
In pratica, l'atto meramente confermativo ricorre quando l'amministrazione si limita a dichiarare l'esistenza di un suo precedente provvedimento, senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione (C.d.S., Sez. V, 22 giugno 2018, n. 3867). In altre parole, esso si connota per la sola funzione di illustrare all'interessato che la questione è stata già delibata con precedente espressione provvedimentale, di cui si opera un integrale richiamo. Tale condizione, quale sostanziale diniego di esercizio del riesame dell'affare, espressione di lata discrezionalità amministrativa, lo rende privo di spessore provvedimentale, da cui, ordinariamente, la intrinseca insuscettibilità di una sua impugnazione (C.d.S., Sez. IV, 3 giugno 2021, n. 4237; 29 marzo 2021, n. 2622).
Di contro, l'atto di conferma in senso proprio è quello adottato all'esito di una nuova istruttoria e di una rinnovata ponderazione degli interessi, e pertanto connotato anche da una nuova motivazione (C.d.S., Sez. VI, 13 luglio 2020, n. 4525; Sez. II, 24 giugno 2020, n. 4054; Sez. VI, 30 giugno 2017, n. 3207; Sez. IV, 12 ottobre 2016, n. 4214; 29 febbraio 2016, n. 812; 12 febbraio 2015, n. 758; 14 aprile 2014, n. 1805).
In particolare, non può considerarsi "meramente confermativo" di un precedente provvedimento l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al primo provvedimento, giacché solo l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fase considerata, può condurre a un atto "propriamente confermativo", in grado, come tale, di dare vita a un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione (C.d.S., Sez. V, 7 maggio 2021, n. 3579).
Corollario obbligato di tale premessa è, nel caso sottoposto all'esame del Collegio, che il subentro, in quanto adottato all'esito di una nuova verifica delle distanze, avrebbe dovuto essere fatto oggetto di autonoma impugnazione la cui mancanza rende improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse il ricorso proposto avverso l'autorizzazione rilasciata al de cuius; ed infatti, ove pure fosse fondato il ricorso proposto avverso l'autorizzazione rilasciata al signor Severino Z., resterebbe intangibile, perché non censurata, la nuova verifica delle distanze che ha consentito il subentro.
4. Fondata è anche l'eccezione di inammissibilità per essere stata censurata, per la prima volta in appello, la nota della Provincia di Brescia del 6 settembre 2013.
Contrariamente a quanto assume l'appellante si tratta di atto con natura provvedimentale perché ha disposto l'annullamento della revoca dell'autorizzazione e la sua contestuale sospensione. Tale provvedimento supera la revoca decisa il 6 agosto 2013, rendendo dunque non pertinenti i richiami alla stessa operati nell'atto di appello al fine di dimostrare che l'autorizzazione all'appostamento n. 26627 non fosse più esistente nel mondo giuridico.
Quanto, poi, alla circostanza che tale provvedimento era stato inviato solo al signor Z., è da rilevare che lo stesso era stato depositato (doc. n. 9) dalla Provincia di Brescia (in data 17 ottobre 2016) agli atti del giudizio di primo grado e non gravato nella via dei motivi aggiunti; né, come afferma la signora M., può ritenersi censurato nell'atto introduttivo del giudizio, perché allora non ancora conosciuto.
Il Collegio ben conosce - e condivide - il principio richiamato dall'appellante secondo cui l'oggetto del gravame non deve essere individuato avendo riguardo formalisticamente all'epigrafe del ricorso o alle sue conclusioni. Occorre infatti far riferimento a criteri sostanziali e non a mere prospettazioni formali, ricercando l'effettiva volontà del ricorrente, desumibile dal contesto dello stesso ricorso e da ogni altro elemento utile, ancorché l'atto impugnato sia stato indicato in modo non preciso o erroneo o non sia stato proprio indicato. Nell'esercizio del potere d'interpretazione e di qualificazione della domanda il giudice, infatti, non è condizionato dalla formula adottata dalla parte, dovendo tener conto del contenuto sostanziale della pretesa come desumibile dalla situazione dedotta in giudizio e dalle eventuali precisazioni formulate nel corso del medesimo, nonché del provvedimento in concreto richiesto, sicché anche un'errata deduzione di una causa petendi non preclude al giudice la corretta qualificazione del danno e la sua liquidazione, iuxta alligata et probata. Unica condizione è che il provvedimento, anche se non citato, sia impugnato, condizione questa assolta nel caso all'esame del Collegio.
Nella specie però la volontà di censurare la "revoca della revoca" e la contestuale sospensione dell'autorizzazione, disposte nel settembre 2013, non può desumersi dall'atto introduttivo del giudizio, perché al momento della proposizione del giudizio non conosciuti. Ne consegue che tardivamente - solo con l'atto di appello - si censura la "revoca della revoca" e la sospensione dell'autorizzazione, deducendo asseriti profili di illegittimità per la prima volta in secondo grado, e ciò in palese violazione del divieto dei nova sancito dall'art. 104, comma 1, c.p.a., come tale pacificamente inammissibile. Infatti, nel giudizio di appello il thema decidendum è circoscritto dalle censure ritualmente sollevate in primo grado, non potendosi dare ingresso, per la prima volta in sede di appello, a nuove doglianze in violazione del divieto dei nova sancito dall'art. 345 c.p.c. (C.d.S., Sez. VI, 27 novembre 2010, n. 8291), siano dette doglianze in fatto o in diritto (C.d.S., Sez. IV, 8 gennaio 2018, n. 76; 8 febbraio 2017, n. 549; Sez. V, 22 marzo 2012, n. 1640).
Si tratta di un divieto imprescindibile perché - di carattere assoluto e di ordine pubblico processuale - promana dalla fondamentale esigenza di assicurare il rispetto del principio del doppio grado di giurisdizione ed impone l'immutabilità della causa petendi introdotta in primo grado. L'effetto devolutivo dell'appello, oggi consacrato dall'art. 104 c.p.a., dal quale discende il divieto - con le eccezioni ora previste dal c.p.a. - di porre nuove difese rispetto a quelle formulate innanzi al primo giudice, assicura che l'oggetto del giudizio del gravame non risulti più ampio di quello su cui si è pronunciato il giudice della sentenza appellata (C.d.S., Sez. IV, 8 gennaio 2018, n. 76; 8 febbraio 2017, n. 549).
5. Per le ragioni sopra esposte l'appello, oltre ad essere in parte inammissibile, è improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse e ciò impedisce al Collegio di esaminare il merito della controversia.
6. Sussistono giusti motivi, in considerazione della peculiarità della vicenda contenziosa, per compensare le spese e gli onorari del giudizio nei confronti della Provincia di Brescia; nulla per le spese nei confronti dei signori Severino Z., Massimo Z., Maria Tatiana Z. e Anna Maria C.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo dichiara improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse.
Compensa le spese e gli onorari del giudizio nei confronti della Provincia di Brescia; nulla per le spese nei confronti dei signori Severino Z., Massimo Z., Maria Tatiana Z. e Anna Maria C.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.