Corte di cassazione
Sezione IV civile (lavoro)
Ordinanza 4 aprile 2024, n. 8899
Presidente: Doronzo - Relatore: Garri
RILEVATO CHE
1. La Corte di appello di Lecce ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa città che, in accoglimento del ricorso proposto da Piero M., aveva accertato la illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli dalla Monteco s.p.a. e ne aveva disposto la reintegrazione nel posto di lavoro con condanna della convenuta al pagamento dell'indennità risarcitoria quantificata in dodici mensilità di retribuzione oltre al pagamento dei contributi previdenziali.
2. La Corte territoriale ha ricordato che era risultata accertata l'insussistenza del fatto contestato al dipendente da intendersi come fatto giuridico e non come fatto materiale. Il fatto storico di aver riportato una condanna penale nella sostanza, avulsa dal rapporto lavorativo, non sarebbe stato sufficiente per giustificare la risoluzione del rapporto di lavoro.
3. Per la cassazione della sentenza ricorre Monteco s.p.a. che articola due motivi ai quali resiste con controricorso Piero M. che ha depositato memoria illustrativa.
RITENUTO CHE
4. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la «violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c. e, nello specifico, della clausola elastica della "giusta causa", non avendo la Corte di appello fatto corretta applicazione degli insegnamenti della Suprema Corte in merito all'interpretazione della suddetta disposizione ed essendo pertanto pervenuta ad una erronea declaratoria di insussistenza ontologica del "fatto" così come contestato».
4.1. Deduce che a seguito di controlli in esecuzione di un obbligo di vigilanza ex d.lgs. n. 159 del 2011 aveva acquisito il certificato penale del casellario giudiziale ed il certificato dei carichi pendenti ed era emerso che il M. aveva riportato condanne per reati previsti e puniti dall'art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti) per i quali era stato condannato alla reclusione per cinque anni ed interdetto in via perpetua dai pubblici uffici (fatti del 2002-2003 e condanna definitiva del 2008).
4.2. Osserva che si tratta di reati che integrano comportamenti contrari all'etica ed al vivere comune e configurano violazione di legge e degli specifici obblighi contrattuali ex art. 73 c.c.n.l. nonché dei generali doveri di correttezza e buona fede.
4.3. Rammenta di essere venuta a conoscenza delle condotte contestate solo nel febbraio 2019 e sottolinea che la società opera esclusivamente nell'ambito dei contratti di appalto con la pubblica amministrazione e che in tale contesto la condotta extralavorativa, sebbene risalente, è rilevante e può ben integrare una giusta causa di risoluzione del rapporto di lavoro. Precisa che la condanna non era nota al datore di lavoro all'atto dell'assunzione, avvenuta ai sensi dell'art. 6 del c.c.n.l. per passaggio diretto dalla società che era titolare del servizio in appalto e ritiene che i fatti, che non erano stati contestati, fossero idonei a ledere gravemente l'elemento fiduciario che deve sorreggere il rapporto di lavoro poiché violano quel "minimo etico" che è richiedibile al lavoratore.
5. Con il secondo motivo di ricorso è censurata la sentenza della Corte di merito perché, in violazione e falsa applicazione dei commi 4 e 5 dell'art. 18 della l. n. 300 del 1970, come modificati dalla l. n. 92 del 2012, aveva erroneamente individuato il regime sanzionatorio applicabile alla fattispecie nel comma 4 della citata norma invece che nel successivo comma 5.
5.1. Evidenzia che il fatto contestato al lavoratore era esistente e che, al più, si poteva discutere della sua rilevanza per sorreggere il licenziamento. Sostiene perciò che la Corte avrebbe potuto riconoscere solo una tutela indennitaria senza la reintegrazione nel posto di lavoro.
6. Entrambi i motivi di ricorso sono infondati.
6.1. Con riguardo alle censure contenute nel primo motivo di ricorso va ribadito quanto affermato da questa Corte con riferimento a condotte extralavorative, integranti illecito penale, tenute prima dell'instaurazione del rapporto lavorativo (cfr. Cass. n. 24259 del 2016; conf. Cass. n. 3076 del 2020).
6.2. Ritiene il Collegio che intanto può aversi una responsabilità disciplinare in quanto si tratti d'una condotta posta in essere mentre il rapporto di lavoro è in corso (quantunque non necessariamente in connessione con le mansioni espletate). Diversamente, non si configura neppure un obbligo di diligenza e/o di fedeltà ex artt. 2104 e 2105 c.c. e, quindi, una sua ipotetica violazione, l'unica che possa dare luogo ex art. 2106 c.c. a responsabilità disciplinare. Anche laddove i contratti collettivi inseriscano nel novero degli illeciti disciplinari, puramente e semplicemente, l'avere il lavoratore riportato condanna penale per determinati fatti-reato non connessi con lo svolgimento del rapporto di lavoro, nondimeno tali previsioni possono definirsi stricto sensu come disciplinari soltanto ove la condotta criminosa e la condanna abbiano avuto luogo durante il rapporto medesimo. Tuttavia, il precedente richiamato chiarisce come ciò non significhi che condotte costituenti reato non possano integrare giusta causa di licenziamento pur essendo state realizzate a rapporto lavorativo non ancora incorso e non in connessione con esso. È noto, infatti, che per giusta causa ai sensi degli artt. 2119 c.c. e 1 l. n. 604 del 1966 non si intende unicamente la condotta ontologicamente disciplinare, ma anche quella che, pur non essendo stata posta in essere in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro e magari si sia verificata anteriormente ad esso, nondimeno si riveli ugualmente incompatibile con il permanere di quel vincolo fiduciario che lo caratterizza e sempre che sia stata giudicata con sentenza di condanna irrevocabile intervenuta a rapporto ormai in atto. Avuto specifico riguardo all'ipotesi che la condotta criminosa sia stata realizzata prima dell'instaurazione del rapporto di lavoro, secondo Cass. n. 24259 del 2016 cit., il giudice dovrà direttamente valutare se la condotta extralavorativa sia di per sé incompatibile con l'essenziale elemento fiduciario proprio del rapporto di lavoro, osservando il seguente principio di diritto: "Condotte costituenti reato possono - anche a prescindere da apposita previsione contrattuale in tal senso - integrare giusta causa di licenziamento sebbene realizzate prima dell'instaurarsi del rapporto di lavoro, purché siano state giudicate con sentenza di condanna irrevocabile intervenuta a rapporto ormai in atto e si rivelino - attraverso una verifica giurisdizionale da effettuarsi sia in astratto sia in concreto - incompatibili con il permanere di quel vincolo fiduciario che lo caratterizza".
6.3. Nella specie i fatti addebitati al lavoratore non solo sono risalenti nel tempo (in quanto commessi tra il 2002-2003) ma la stessa irrevocabilità della sentenza di condanna, del 2008, è precedente alla instaurazione del rapporto di lavoro (del 2015) e la sentenza impugnata non manca di evidenziare come la società non abbia specificamente indicato "l'incidenza negativa" di fatti così risalenti "sulla funzionalità del rapporto", e quindi il riflesso attuale sulla concretezza del rapporto limitandosi a prospettare un mero rischio ancorato a fatti accertati o commessi anteriormente alla instaurazione del rapporto di lavoro.
6.4. Rispetto a questa valutazione compiuta dai giudici del merito, che non hanno ritenuto condotte così risalenti incompatibili con il permanere del vincolo fiduciario connotante il rapporto di lavoro dedotto in giudizio, è sufficiente richiamare i noti limiti del sindacato di legittimità nelle ipotesi di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo di licenziamento (per i quali si rinvia, ai sensi dell'art. 118, comma 1, disp. att. c.p.c., a Cass. n. 13064 del 2022 ed alla giurisprudenza ivi citata; conf. v. Cass. n. 20780 del 2022 e, da ultimo, Cass. n. 107 del 2024). L'attività di integrazione del precetto normativo di cui all'art. 2119 c.c. compiuta dal giudice di merito è sindacabile in cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale (cfr. Cass. n. 985 del 2017; Cass. n. 5095 del 2011; Cass. n. 9266 del 2005).
Ne consegue che a fronte di una motivazione con cui la Corte territoriale ha escluso che i fatti addebitati, estranei al rapporto lavorativo, sebbene sicuramente gravi, potessero assumere rilevanza disciplinare attuale, in quanto molto risalenti nel tempo e precedenti all'instaurazione del rapporto, parte ricorrente non identifica quali siano i parametri integrativi del precetto normativo elastico che sarebbero stati violati dai giudici del merito, per cui la denuncia, mancando l'individuazione di una incoerenza del loro giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale, si traduce in una censura generica e meramente contrappositiva rispetto al giudizio valutativo operato in sede di merito.
7. Anche il secondo motivo di ricorso, con cui ci si duole della tutela reintegratoria riconosciuta al lavoratore illegittimamente licenziato nel vigore della disciplina di cui all'art. 18 della l. n. 300 del 1970, come modificato dalla l. n. 92 del 2012, è infondato atteso che il fatto contestato è da ritenere insussistente, ai fini del quarto comma della disposizione citata, quando non abbia rilevanza disciplinare (cfr. Cass. n. 20540 del 2015), così come accertato nella specie dai giudici del merito.
8. In conclusione il ricorso deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza e, liquidate in dispositivo, devono essere distratte in favore degli avvocati Cosimo Finiguerra e Salvatore P. Serafino che se ne sono dichiarati antistatari.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 5.500,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e rimborso spese generali al 15%. Spese da distrarsi.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, della l. 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.