Corte di cassazione
Sezione I civile
Ordinanza 6 giugno 2024, n. 15822
Presidente e Relatore: Scotti
FATTI DI CAUSA
1. Con ricorso in riassunzione depositato il 2 novembre 2016 Francesco M., Maria Patrizia M., Annalisa M. e Raniero G. hanno riassunto dinanzi alla Corte di appello di Reggio Calabria il giudizio di opposizione alla stima, già precedentemente riassunto dinanzi al Tribunale di Locri in seguito a specifica declinatoria della giurisdizione su quel capo di domanda da parte del T.A.R. con sentenza n. 732 del 2012.
Gli attori hanno così insistito nella domanda di liquidazione dell'indennizzo loro dovuto alla stregua del valore venale al momento del provvedimento acquisitivo emesso dal Comune di Gerace ex art. 42-bis del d.P.R. 327 del 2001 in data 30 gennaio 2012, maggiorato del 10%, con i relativi interessi; hanno inoltre indicato le rispettive quote di proprietà in 45% per Francesco M., 20% ciascuna per Maria Patrizia M. e Annalisa M. e 7,50% per Raniero G., nonché 3,75% ciascuno per Cristiano Maria e Nicoletta G.
Si è costituito il Comune di Gerace, resistendo e chiedendo che per la determinazione del valore del bene (una chiesetta ridotta a rudere) si tenesse conto della delibera comunale n. 30/11, atto presupposto del decreto sanante sopra citato, e che si avesse altresì riguardo alle condizioni del bene de quo al momento della immissione in possesso dell'ente locale, avvenuta nell'anno 2000; il Comune ha evidenziato altresì che le condizioni attuali del bene erano state determinate dall'esecuzione di importanti e costosi interventi di restauro da parte sua e ha sostenuto che non tenerne conto avrebbe comportato una locupletazione ingiustificata dei proprietari; ha aggiunto ancora che in difetto di acquisizione i proprietari avrebbero dovuto rifondere ex art. 936 c.c. le spese sostenute.
Cristiano Maria G., in proprio e quale procuratore di Nicoletta G., si è costituito, aderendo al ricorso in opposizione.
Il Comune di Gerace, con memoria costitutiva di nuovo difensore, ha eccepito l'inammissibilità e la improcedibilità dell'opposizione alla stima per la violazione del termine di cui all'art. 54 d.P.R. 327 del 2001.
Dopo ulteriore trattazione sono state disposte dapprima una consulenza tecnica e poi la sua successiva integrazione.
2. La Corte di appello con ordinanza del 9 gennaio 2020 ha accolto l'opposizione e ha determinato l'indennità in euro 305.659,00 oltre interessi dal 1° febbraio 2012 al saldo, condannando il Comune al pagamento pro quota, nonché alla rifusione delle spese legali e di consulenza tecnica.
Secondo la Corte reggina, la questione preliminare di decadenza sollevata dal Comune di Gerace era inammissibile e comunque infondata. In primo luogo, tale eccezione avrebbe dovuto essere sollevata dinanzi al T.A.R. in relazione alla regolarità della procedura; il T.A.R. aveva invece riscontrato l'infondatezza di tutti i motivi sollevati con riguardo all'iter procedurale e non aveva ravvisato decadenza alcuna, pronunciando all'esito del giudizio il proprio difetto di giurisdizione in relazione al solo capo afferente alla determinazione dell'indennità contenuta nel decreto di esproprio sanante e rigettando tutti gli altri motivi. La questione di decadenza pertanto era da ritenersi preclusa con la definizione davanti al T.A.R. di ogni questione relativa alla regolarità della procedura espropriativa semplificata e sanante.
In secondo luogo, il termine di 30 giorni per impugnare non era decorso perché bisognava avere riguardo alla data di notifica del decreto di esproprio ai sensi dell'art. 29, comma 3, del d.lgs. n. 150 del 2011, notificato in data 17 febbraio 2012, mentre il ricorso al T.A.R. era stato notificato il 13 marzo 2012 e quindi tempestivamente.
Quindi la Corte reggina, richiamata la sentenza n. 71 del 2015 della Corte costituzionale, ha proceduto alla determinazione del valore del bene acquisito sulla base della prima elaborazione compiuta dai consulenti tecnici, fondata sul valore del manufatto e del terreno alla data del 30 gennaio 2012 e quindi tenuto conto anche delle opere eseguite medio tempore dal momento dell'occupazione da parte della Pubblica Amministrazione, con le ulteriori maggiorazioni e incrementi di legge.
La Corte reggina ha invece ritenuto non condivisibile la diversa valutazione, pure elaborata dai consulenti tecnici, basata sulla possibilità di sfruttamento dell'immobile come bene turistico ricettivo, con l'utilizzo all'uopo del metodo dei flussi di cassa. Secondo la Corte d'appello, l'indennizzo doveva essere finalizzato ad assicurare al privato espropriato il serio ristoro per la perdita della sua proprietà, a cui rimanevano estranee le finalità pubbliche dell'opera medesima.
3. Avverso la predetta ordinanza del 9 gennaio 2020, notificata in data 10 marzo 2020, con atto notificato l'11 maggio 2020 ha proposto ricorso per cassazione il Comune di Gerace, svolgendo sei motivi.
Con atto notificato il 26 maggio 2020 Francesco M., Maria Patrizia M., Annalisa M. e Raniero G. hanno proposto controricorso resistendo all'avversaria impugnazione.
Con atto notificato l'8 giugno 2020 pure Cristiano Maria G., anche quale procuratore di Nicoletta G., ha proposto controricorso resistendo all'avversaria impugnazione.
Tutte le parti hanno depositato memoria illustrativa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
4. Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., il Comune ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione all'art. 57 del d.P.R. 327/2001.
4.1. Il Comune ricorrente deduce la violazione dell'art. 57 del d.P.R. 327 del 2001 in tema di ambito di applicazione della normativa sui procedimenti in corso, facendo constare che la dichiarazione di pubblica utilità dell'opera risaliva al lontano 1999, con l'avviso della delibera della Giunta comunale n. 155 del 1999.
Il Comune di Gerace aggiunge di aver dimostrato dinanzi alla Corte d'appello di Reggio Calabria la non applicabilità dell'art. 42-bis del d.P.R. 327 del 2001, norma peraltro applicata «con provvedimento illegittimo e suicida» (sic!) da parte dello stesso Comune di Gerace, poiché questa norma non era applicabile alla fattispecie oggetto del giudizio per esplicita esclusione ad opera dell'art. 57. La predetta inapplicabilità avrebbe dovuto essere oggetto anche di rilievo d'ufficio da parte della Corte d'appello di Reggio Calabria dal momento che risultava dagli atti del procedimento offerti in comunicazione dal Comune di Gerace.
4.2. Le finalità e gli obiettivi del motivo non sono agevolmente comprensibili: se fondata, la tesi del Comune ricorrente dovrebbe condurre a rilevare la illegittimità e la invalidità del decreto di acquisizione sanante e l'invalidità derivata della procedura di opposizione, mentre di conseguenza i proprietari controricorrenti dovrebbero tuttora essere considerati proprietari dell'area.
Il motivo, tuttavia, è palesemente inammissibile.
4.3. Il decreto di acquisizione sanante è stato emesso dallo stesso Comune di Gerace, che ora viene contra factum proprium, e nessuna delle parti, incluso lo stesso Comune ricorrente, che pure anche al di fuori del processo non lo ha mai annullato, né revocato in autotutela, ne ha contestato la legittimità, né davanti al Tribunale amministrativo regionale, ove invece il Comune lo ha difeso, né dinanzi al Tribunale di Locri, né infine dinanzi alla stressa Corte di appello di Reggio Calabria.
In secondo luogo, al proposito si è formato il giudicato interno in seguito alla pronuncia del T.A.R. che, respingendo le altre censure, ha declinato la giurisdizione esclusivamente sul punto della determinazione dell'indennità spettante ai proprietari M.-G.
Si aggiunga, ancora, che la censura contrasta con le conclusioni assunte nel giudizio di merito dal Comune stesso.
4.4. Non viene quindi in rilievo in causa il principio, pur recentemente formulato da questa Corte, con l'affermazione che in tema di espropriazione per pubblica utilità, l'acquisizione sanante prevista dall'art. 42-bis, introdotto dall'art. 34, comma 1, del d.l. n. 98 del 2011, conv. con modif. dalla l. n. 111 del 2011, non trova applicazione a procedimenti ablatori avviati in epoca anteriore all'entrata in vigore del d.P.R. n. 327 del 2001, atteso che, quantunque, a mente del comma 8 del citato art. 34, le disposizioni introdotte si applichino anche a fatti anteriori alla sua entrata in vigore, non ne fa menzione la disciplina delle occupazioni sine titulo anteriori al 30 settembre 1996 ex art. 55 del t.u., dovendosi tenere conto del fatto che tale norma risponde alla medesima finalità del sostituito art. 43 del t.u., dichiarato incostituzionale per eccesso di delega, consistente nell'agevolare il superamento dell'istituto dell'occupazione acquisitiva, ma soltanto per i procedimenti ablatori avviati in epoca successiva all'entrata in vigore del medesimo t.u., sicché, essendo il relativo provvedimento emesso, in tali casi, in carenza di potere e potendo, perciò, essere disapplicato, resta esclusa l'improcedibilità della domanda risarcitoria e la contemporanea pendenza dell'opposizione alla stima (Sez. 1, n. 159 del 3 gennaio 2024).
5. Con il secondo motivo di ricorso, proposto ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., il Comune ricorrente denuncia omesso esame dei fatti e allegati e provati con il conseguente difetto di esercizio dei poteri-doveri del giudice di conoscere tutta la materia del contendere nonché vizio di motivazione ed errata motivazione del convincimento dovuto all'aver trascurato un elemento idoneo a segnare una rilevante diversità di decisione.
5.1. Il ricorrente insiste nel riferimento ai fatti e agli atti amministrativi relativi all'esistenza e all'adozione di atti procedimentali di carattere ablatorio in data anteriore all'entrata in vigore del testo unico espropriazioni.
5.2. Valgono al proposito le precedenti obiezioni in tema di inammissibilità della censura e preclusione da giudicato interno.
5.3. Merita di essere aggiunto che l'omesso esame dei presunti fatti decisivi non sussiste perché gli atti amministrativi in questione sono stati espressamente considerati e valutati dalla Corte territoriale.
6. Con il terzo motivo di ricorso principale, proposto ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 57 e 42-bis d.P.R. 327/2001, in tal modo riproponendo ulteriormente le censure già esaminate e giudicate inammissibili con riferimento ai primi due motivi.
7. Con il quarto motivo di ricorso, proposto ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., il ricorrente denuncia falsa applicazione dell'art. 42-bis d.P.R. 327/2001.
7.1. Il ricorrente sostiene che la norma in esame non impone la conseguenza che l'indennità debba essere determinata con riferimento al valore del bene al momento dell'adozione del provvedimento sanante senza considerare i notevoli interventi di restauro della chiesetta, ridotta a rudere degradato, effettuati dal Comune di Gerace per la somma complessiva di lire 358.700.000, ossia euro 185.253,08.
7.2. Il motivo è fondato.
Ben vero, non vi è dubbio che ai fini dell'indennizzo ex art. 42-bis del d.P.R. n. 327 del 2001, il valore venale del bene oggetto del provvedimento di c.d. «acquisizione sanante» debba essere determinato con riferimento alla data di adozione del provvedimento acquisitivo, volto a ripristinare, ma solo con effetto ex nunc, la legalità amministrativa violata (Sez. 1, n. 8163 del 26 marzo 2024; e prima Sez. 1, n. 18780 del 2 luglio 2021).
Nello stesso senso si schierano sia la giurisprudenza amministrativa (Consiglio di Stato, Sezione IV, n. 6255 del 13 settembre 2021, secondo il quale «nell'ambito dell'art. 42-bis d.P.R. 327/2001, il valore venale delle aree da acquisire al patrimonio pubblico, ai fini del ristoro del pregiudizio patrimoniale per la perdita della proprietà, deve essere calcolato alla data di adozione del provvedimento acquisitivo»), sia la Corte costituzionale, che nella sentenza del 30 aprile 2015, n. 71, ha precisato che «... la norma prevede bensì la corresponsione di un indennizzo determinato in misura corrispondente al valore venale del bene e con riferimento al momento del trasferimento della proprietà di esso, sicché non vengono in considerazione somme che necessitano di una rivalutazione».
7.3. Il mezzo propone un tema giuridico, dibattuto in dottrina e solo recentemente affrontato dalla giurisprudenza di questa Corte, che attiene alla computabilità in sede di determinazione del valore venale del bene oggetto del provvedimento di acquisizione sanante, alla data della adozione dello stesso, anche il valore dell'opera pubblica che sullo stesso bene sia stata, anche solo parzialmente, realizzata dalla pubblica amministrazione.
La recente decisione di questa Corte (Sez. 1, n. 9871 del 13 aprile 2023) si è orientata negativamente.
7.4. In quella sede si sono ricordati alcuni, peraltro non univoci, precedenti della giurisprudenza amministrativa che hanno riconosciuto che il valore venale del suolo occupato dovesse ricomprendere anche le opere su di esso eventualmente realizzate dalla pubblica amministrazione: sentenza n. 4457 del 25 ottobre 2016 della IV Sezione del Consiglio di Stato, secondo cui «La disposizione dell'art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001 (t.u. espropriazione per p.u.) risponde ad una finalità di favore per l'espropriato nella misura in cui sottintende che il valore venale del bene cui la norma si riferisce comprende non solo il valore del suolo occupato, ma anche quello delle opere che su di esso siano state eventualmente realizzate (le quali, ove la p.a. non procedesse all'acquisizione, sarebbero soggette ad accessione a favore del privato in applicazione degli ordinari canoni civilistici)», nonché T.A.R. Marche, Ancona, n. 625 del 28 settembre 2018; in senso contrario T.A.R. Lazio, Sez. II Roma, n. 9107 del 31 agosto 2018, secondo cui «ai fini della quantificazione del valore del bene oggetto di risarcimento del danno da occupazione illegittima ovvero di indennizzo ex art. 42-bis, il terreno oggetto di occupazione deve essere stimato nella sua mera consistenza materiale senza computare il costo dell'opera costruita dall'amministrazione».
Si è detto tuttavia nel citato arresto che la tesi secondo cui nel valore venale del bene non si deve computare anche quello dell'opera pubblica che sul bene stesso è stata realizzata trova riscontro, anzitutto, nel tenore letterale del terzo comma dell'art. 42-bis in esame, che dispone: «Salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti, l'indennizzo per il pregiudizio patrimoniale di cui al comma 1 è determinato in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l'occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell'articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7».
Il legislatore ha previsto unicamente una misura forfettizzata (5%) per il periodo di occupazione sine titulo e che quanto al danno patrimoniale l'indennità sia commisurata «al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità» e non a quello del bene «risultante dalla» predetta utilizzazione. L'espressione «utilizzato» vale solo ad individuare il bene oggetto della misura indennitaria, ma non legittima l'inclusione nel valore del bene anche di quello dell'opera pubblica su di essa realizzata, non dal privato ma dalla pubblica amministrazione.
Da ciò si è arguito che, se quello che rileva è il valore intrinseco del bene occupato e trasformato, non può essere inglobato in esso anche il valore delle opere realizzate dalla pubblica amministrazione, che va dunque scomputato dal calcolo dell'indennizzo, così da evitare che quest'ultimo si traduca in un indebito arricchimento del privato ed in una altrettanto indebita duplicazione di costo per la amministrazione, la quale, dopo avere realizzato le opere a proprie spese, dovrebbe rimborsarne il valore al proprietario del bene occupato a tal fine, senza potere beneficiare dell'indennizzo previsto dagli artt. 936 c.c. per l'ipotesi - alternativa alla acquisizione - della restituzione del bene nello stato in cui si trova dopo la trasformazione.
Si è inoltre osservato che l'art. 42-bis, comma 3, in punto di quantificazione del pregiudizio patrimoniale, fa espresso rinvio all'art. 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7, del d.P.R. 327/2001 e che l'art. 37, comma 4, fa salva la disposizione dell'art. 32, comma 1.
Quest'ultima norma detta le regole generali da seguire nel computo dell'indennità di espropriazione ed espressamente prescrive, ai fini della determinazione dell'indennità di espropriazione sulla base delle caratteristiche del bene «alla data dell'emanazione del decreto di esproprio», che si debba valutare «l'incidenza dei vincoli di qualsiasi natura non aventi natura espropriativa» e che non si considerino «gli effetti del vincolo preordinato all'esproprio e quelli connessi alla realizzazione dell'eventuale opera prevista, anche nel caso di espropriazione di un diritto diverso da quello di proprietà o di imposizione di una servitù». In sostanza, gli effetti connessi alla realizzazione dell'opera pubblica non vanno considerati né in diminuzione né in accrescimento del valore venale del bene.
Si è rilevato inoltre che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 283/1993, nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis del d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito, con modificazioni, nella l. 8 agosto 1992, n. 359, aveva già chiarito, al § 6.6, che, una volta rispettato il canone di adeguatezza espresso dall'art. 42, comma 3, Cost., «rientra nella discrezionalità del legislatore fissare i criteri di determinazione dell'indennità espropriativa secondo generali valutazioni di politica economico-finanziaria che possono tenere conto anche del fatto che la rendita di posizione, della quale è parzialmente privato il soggetto espropriato, è frutto in larga parte - oggi più ancora che in passato - di investimenti della collettività».
Infine anche la Corte EDU, Grande Chambre, nella sentenza Guiso-Gallisay c. Italia del 22 dicembre 2009, ha, inoltre, confermato il revirement della giurisprudenza inaugurato dalla sentenza del 21 ottobre 2008, in tema di calcolo del risarcimento dei danni da espropriazione indiretta finora seguito (consistente nel riconoscere alle vittime una somma pari al valore attuale del fondo espropriato aumentata del plusvalore apportato dalla costruzione delle opere: sentenza Papamichalopoulos del 31 ottobre 1995 e sentenza Carbonara e Ventura dell'11 dicembre 2003), affermando che il criterio secondo cui l'indennizzo equo debba ricomprendere anche il plusvalore apportato dall'opera pubblica reca un pericolo discriminatorio decisivo, quello di differenziare il ristoro dovuto ai proprietari espropriati sulla base di un elemento, indipendente dalla loro volontà, del tutto casuale, quale il valore dell'opera costruita dall'ente pubblico procedente.
7.5. Merita quindi di ricevere continuità il principio di diritto in quella sede formulato, condiviso dal Collegio e non confutato dalle difese proposte dalle parti, secondo il quale «In tema di indennizzo ex art. 42-bis d.P.R. 327/2001, ai fini della determinazione del valore venale del bene oggetto del provvedimento di c.d. acquisizione sanante, alla data della adozione dello stesso, non deve computarsi, alla luce del tenore della citata disposizione, nonché del richiamo all'art. 37, comma 4, d.P.R. 327/2001, che fa salva la disposizione dell'art. 32, comma 1, anche il valore dell'opera pubblica che sullo stesso bene sia stata, anche solo parzialmente, realizzata dalla pubblica amministrazione».
7.6. Del resto, anche sotto il profilo sistematico, la conclusione così attinta sulla base delle regole autonome che governano la materia speciale dell'indennità dovuta per l'acquisizione sanante, resta indirettamente avvalorata dai principi che disciplinano l'accessione di diritto comune, che comunque porterebbero ad escludere la correttezza della soluzione adottata dalla Corte territoriale di attribuire al proprietario del fondo acquisito una indennità parametrata al valore attuale del fondo acquisito, incluso il valore dell'opera pubblica sullo stesso nel frattempo realizzata, sol perché oggetto di acquisto medio tempore per accessione da parte del privato.
L'art. 936 c.c. in tema di «Opere fatte da un terzo con materiali propri» prevede che quando le piantagioni, costruzioni od opere sono state fatte da un terzo con suoi materiali, il proprietario del fondo ha diritto di ritenerle o di obbligare colui che le ha fatte a levarle. Se il proprietario preferisce di ritenerle, deve pagare a sua scelta il valore dei materiali e il prezzo della mano d'opera oppure l'aumento di valore recato al fondo. Poiché in caso di acquisizione sanante è da escludersi, non foss'altro che in ragione del fenomeno ablativo speciale previsto dalla legge, che il proprietario del bene acquisito possa imporre la rimozione delle opere realizzate alla Pubblica Amministrazione, inevitabilmente in sede di valutazione del valore di mercato del bene ablato occorre tener conto dell'onere che grava sulla proprietà acquisita, considerata la pacifica natura ambulatoria dell'obbligazione in questione (Sez. 2, n. 13603 del 30 maggio 2013; Sez. 2, n. 3586 del 6 agosto 1977; Sez. 1, n. 4780 del 7 settembre 1984).
8. Con il quinto motivo di ricorso, proposto ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione all'art. 42-bis d.P.R. 327/2001 e all'art. 2041 c.c.
Il ricorrente osserva che l'interpretazione adottata dalla Corte reggina portava al riconoscimento in favore degli opponenti [di] un indebito arricchimento ai danni del Comune di Gerace in violazione del disposto dell'art. 2041 codice civile.
In tal modo il Comune di Gerace andrebbe a pagare due volte il suo intervento: una prima volta con i pagamenti effettuati a progettisti e imprese che hanno realizzato l'opera pubblica per conto del comune e una seconda volta [a]i proprietari intestatari catastali che non avevano sopportato nessun costo per la sua realizzazione.
Il motivo resta assorbito per effetto dell'accoglimento del motivo precedente.
9. Con il sesto motivo di ricorso, proposto ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., il ricorrente denuncia motivazione omessa per il mancato esame della normativa precedente l'entrata in vigore del d.P.R. 327/2001.
Il motivo riprende il tenore dei primi tre motivi e ne subisce le sorti.
10. Per i motivi esposti occorre accogliere il quarto motivo di ricorso, inammissibili i primi tre e il sesto e assorbito il quinto, cassare la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinviare alla Corte di appello di Reggio Calabria, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il quarto motivo di ricorso, inammissibili i primi tre e il sesto e assorbito il quinto, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte di appello di Reggio Calabria, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.