Corte di cassazione
Sezione VI penale
Sentenza 14 maggio 2024, n. 23639
Presidente: Aprile - Estensore: Rosati
RITENUTO IN FATTO
1. Con atto del proprio difensore, Paola A. impugna il provvedimento con il quale il Tribunale di Vercelli, a norma dell'art. 554-ter, comma 3, c.p.p., ha disposto la prosecuzione del giudizio dibattimentale nei suoi confronti per il delitto di esercizio abusivo di professione sanitaria.
L'atto - si deduce - sarebbe affetto da abnormità funzionale per carenza di potere in concreto, per avere il giudice disposto il prosieguo del giudizio con un provvedimento motivato, non essendo ciò previsto, invece, dall'anzidetta disposizione normativa, allo scopo di garantire l'imparzialità del giudice investito della prosecuzione del dibattimento e della decisione.
Peraltro, nel motivare il proprio provvedimento, il giudice dell'udienza predibattimentale si è spinto oltre l'ambito di giudizio consentitogli, avendo ritenuto «ragionevole formulare, allo stato degli atti, una chiara ed evidente previsione di condanna». Inoltre, ha di fatto ampliato la contestazione, sostenendo che l'attività dell'imputata giungesse anche alla prescrizione di "diete", di cui, invece, non si fa menzione nel capo d'imputazione; e, infine, richiamando i contenuti di alcune sommarie informazioni testimoniali, ha introdotto nel fascicolo del dibattimento, in violazione degli artt. 511, 512 e 513 c.p.p., elementi di conoscenza destinati a rimanervi estranei, non potendo quel provvedimento essere espunto da tale fascicolo.
2. Il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta, concludendo per l'inammissibilità del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile, trattandosi di provvedimento non impugnabile e che non presenta alcun profilo di abnormità.
2. L'art. 554-ter c.p.p., al comma 3, stabilisce che, per i processi con citazione diretta a giudizio, «se non sussistono le condizioni per pronunciare sentenza di non luogo a procedere» e se il processo non deve essere celebrato secondo uno dei riti alternativi legali, «il giudice fissa per la prosecuzione del giudizio la data dell'udienza dibattimentale».
La legge non indica espressamente quale sia la forma dell'atto con cui tale decisione è adottata, se cioè si tratti di un'ordinanza oppure di un decreto: anzi, nel riferirsi ad esso, il successivo comma 4 dello stesso art. 554-ter lo indica con il termine generico di "provvedimento".
La distinzione, tuttavia, non è semplicemente accademica e la questione, lungi dal rimanere confinata al piano puramente terminologico, può avere delle ricadute significative proprio sotto il profilo dedotto in ricorso, ove si pensi che - in applicazione della regola generale dell'art. 125, comma 3, c.p.p. - la motivazione delle ordinanze non soltanto è consentita, ma è addirittura dovuta a pena di nullità, mentre per i decreti essa è necessaria solamente qualora espressamente prevista dalla disciplina di rito.
3. Ritiene il Collegio che il provvedimento di cui si discorre abbia natura di decreto.
Vero è che il comma 1 del citato art. 125 assegna alla legge il compito di definire la forma dei provvedimenti del giudice («la legge stabilisce i casi nei quali il provvedimento del giudice assume la forma della sentenza, dell'ordinanza o del decreto»), ma è indiscutibile che, qualora essa non lo faccia apertis verbis, tocchi al giudice stabilirla, se ciò sia necessario ai fini della decisione che è chiamato ad adottare.
Escluso, dunque, che si tratti di sentenza, essendo tale solo il provvedimento con cui il giudice definisce il grado del giudizio (salve le eccezioni specificamente previste dalla legge: decreti penali di condanna, procedimenti incidentali di riesame ed appello cautelare), deve rilevarsi che la legge processuale non indica, in linea generale, specifici tratti peculiari e distintivi tra "ordinanza" e "decreto", tanto sul piano formale (se si eccettua proprio la necessità o meno della motivazione), quanto dal punto di vista funzionale.
Nella disamina di un nuovo istituto processuale - come sono quelli della c.d. "udienza filtro" e del conseguente provvedimento di prosecuzione del giudizio, previsti dal citato art. 554-ter, comma 3 - la fondamentale esigenza di unitarietà e non contraddizione dell'ordinamento impone, dunque, in mancanza di specifiche indicazioni normative, di verificare anzitutto se esso trovi un modello di riferimento già tipizzato.
Ebbene, nel caso che qui interessa, tale indagine si presenta di agevole soluzione, emergendo all'evidenza come il d.lgs. n. 150 del 2022 (c.d. "riforma Cartabia"), che ha introdotto la disciplina in rassegna, abbia inteso sostanzialmente replicare, per i reati a citazione diretta, l'istituto dell'udienza preliminare (artt. 416 ss. c.p.p.).
Tanto si coglie nitidamente dalla relazione illustrativa del predetto decreto legislativo (pubblicata in G.U., n. 245 del 19 ottobre 2022, serie gen., supplemento straordinario, in part. pagg. 318-321), che, nella descrizione del nuovo istituto, opera continui richiami alle corrispondenti norme in tema di udienza preliminare.
Ma, ancor prima, è sufficiente un rapido esame della relativa disciplina, per rilevare le numerose e qualificanti identità di regole rispetto all'udienza preliminare. Solo per citare le più significative, anche nel caso della nuova "udienza filtro" il giudice prende conoscenza del fascicolo del Pubblico ministero (art. 553 c.p.p.); qualora, poi, ritenga non necessario il giudizio, pronuncia sentenza di "non luogo a procedere", secondo una formula, cioè, diversa da quelle di proscioglimento adottabili dal giudice del dibattimento (artt. 529-531 c.p.) ed esclusiva, prima della novella del 2022, del giudice dell'udienza preliminare; mentre, se reputi necessario procedere al dibattimento, questo si svolgerà davanti ad un diverso magistrato dell'ufficio; ed identico, infine, è il relativo parametro selettivo per la devoluzione al giudice del dibattimento, ovvero la «ragionevole previsione di condanna» (art. 425, comma 3, c.p.p.).
Risulta, perciò, del tutto ragionevole concludere che, così come il corrispondente provvedimento terminale dell'udienza preliminare, ovvero il decreto che dispone il giudizio (art. 429 c.p.p.), anche quello con il quale il Tribunale monocratico, nei casi di citazione diretta, disponga la prosecuzione del giudizio a norma dell'art. 554-ter c.p.p. ha natura di decreto.
Del resto, semmai lo si volesse classificare come "ordinanza", si darebbe vita ad una sorta di ircocervo procedurale, trattandosi di un provvedimento che dovrebbe essere necessariamente motivato (a norma del ricordato art. 125 c.p.p.), ma che non potrebbe mai essere impugnato: né unitamente alla sentenza di primo grado, perché l'art. 586 c.p.p. attribuisce tale possibilità solo rispetto alle ordinanze rese nel corso del dibattimento o degli atti ad esso preliminari, fase, quest'ultima, destinata ad aprirsi in séguito (art. 555 stesso codice); né per abnormità, trattandosi di un atto espressivo di un potere specificamente assegnato al giudice dalla legge e che non determina alcuna stasi processuale.
4. Tanto premesso, e venendo alla disamina della questione specificamente sollevata con il ricorso, va osservato che la motivazione di tale provvedimento non è necessaria, ma, allo stesso tempo, neppure è vietata, mancando specifiche disposizioni normative nell'uno o nell'altro senso.
Né può ritenersi che la sua presenza determini, per ciò solo, un pregiudizio per l'imparzialità del giudice del dibattimento: il quale, in perfetta simmetria con quanto accade per i processi che transitano dall'udienza preliminare, non sarà vincolato dalla valutazione del giudice che lo ha preceduto, peraltro calibrata su un parametro diverso e meno stringente rispetto al suo (la colpevolezza, cioè, «al di là di ogni ragionevole dubbio»: art. 533 c.p.p.), né potrà derogare alle ordinarie regole di lettura degli atti delle indagini preliminari (artt. 511-514 c.p.p.), sol perché essi, ritualmente conosciuti - come s'è visto - dal giudice della "udienza filtro", siano stati da lui citati nell'eventuale motivazione del provvedimento di prosecuzione del giudizio.
In questo senso, d'altronde, la Corte di cassazione ha già avuto modo di esprimersi proprio con riferimento al modello ispiratore del provvedimento in discussione, stabilendo che non è abnorme il decreto che dispone il giudizio emesso dal giudice dell'udienza preliminare contestualmente ad un'ordinanza che contenga valutazioni sulla responsabilità dell'imputato, in quanto tale atto non determina stasi processuale (Sez. 6, n. 8836 del 3 febbraio 2020, Sagazio, Rv. 278712, la quale in motivazione ha precisato che, onde evitare effetti pregiudicanti per il giudice del dibattimento, la parte che vi ha interesse può sempre sollecitare lo stralcio dei contenuti esorbitanti rispetto alla vocatio in iudicium).
Esclusa, quindi, l'abnormità c.d. "funzionale", a maggior ragione non è configurabile quella "strutturale", quella, cioè, che è ravvisabile soltanto nelle ipotesi di esercizio, da parte del giudice, di un potere non attribuitogli dall'ordinamento processuale (carenza di potere in astratto), oppure di deviazione del provvedimento giudiziale rispetto allo scopo di modello legale, nel senso dell'esercizio di un potere previsto dall'ordinamento, ma in una situazione processuale radicalmente diversa da quella configurata dalla legge, e cioè completamente al di fuori dei casi consentiti, perché al di là di ogni ragionevole limite (carenza di potere in concreto). Nel caso in esame, infatti, il giudice ha esercitato un potere riconosciutogli specificamente dalla legge, nei casi consentiti e con forme non vietate, e perciò legittime.
5. All'inammissibilità dell'impugnazione consegue obbligatoriamente - ai sensi dell'art. 616 c.p.p. - la condanna della proponente al pagamento delle spese del procedimento e di una somma in favore della cassa delle ammende, non ravvisandosi una sua assenza di colpa nella determinazione della causa d'inammissibilità (vds. Corte cost., sent. n. 186 del 13 giugno 2000). Detta somma, considerando la manifesta assenza di pregio degli argomenti addotti, va fissata in tremila euro.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Depositata il 12 giugno 2024.