Consiglio di Stato
Sezione II
Sentenza 19 settembre 2024, n. 7687

Presidente: Caputo - Estensore: Basilico

FATTO

1. In primo grado, l'associazione appellante ha impugnato la deliberazione n. 781 del 19 dicembre 2017 con cui la Giunta del Comune di Brescia ha stabilito indirizzi per il rilascio di concessioni temporanee per le occupazioni occasionali di spazi e aree pubbliche nel territorio cittadino prevedendo l'obbligo di allegare alla relativa domanda una dichiarazione che contenga, tra l'altro, l'impegno del richiedente «di riconoscersi nei principi e nelle norme della Costituzione italiana e di ripudiare il fascismo e il nazismo» (la ricorrente ha peraltro precisato che le sue doglianze sono limitate alla parte relativa al ripudio del fascismo).

2. Con ordinanza n. 68 del 2018, il T.A.R. ha respinto l'istanza cautelare presentata dall'associazione per difetto di fumus boni juris.

3. L'appello cautelare è stato rigettato con ordinanza n. 2177 del 2018, la quale ha considerato «che la natura di atto di indirizzo del provvedimento impugnato in primo grado esclude la sussistenza del lamentato danno grave e irreparabile».

4. Il T.A.R. ha quindi respinto il ricorso e condannato l'associazione al pagamento delle spese di lite, richiamando la discrezionalità dell'ente nel definire i criteri per la concessione di beni pubblici e osservando che la deliberazione fa ricorso a un'endiadi «nel senso che l'adesione ai principi e alle norme costituzionali non è scindibile rispetto al ripudio del fascismo e del nazismo» (sul punto, è stata anche richiamata, quale precedente conforme, la sentenza del T.A.R. del Piemonte n. 447 del 2019).

5. L'associazione ha proposto appello.

6. Nel giudizio di secondo grado si è costituito il Comune di Brescia, chiedendo il rigetto del gravame.

7. All'udienza del 3 luglio 2024, la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

8. In via preliminare, è opportuno precisare che nel caso di specie è preclusa una verifica delle condizioni dell'azione di annullamento proposta dinanzi al T.A.R., dato che sul punto il giudice di prime cure si è pronunciato con una statuizione che non è stata impugnata.

8.1. Secondo una giurisprudenza consolidata, infatti, il potere del giudice di appello di rilevare d'ufficio la sussistenza dei presupposti e delle condizioni per la proposizione del ricorso di primo grado sussiste «in carenza di pronuncia del giudice di primo grado, sul punto» (così C.d.S., Ad. plen., sent. n. 4 del 2018) ed è invece precluso «dalla formazione del giudicato interno, per effetto della mancata impugnazione della statuizione di prime cure sul punto intervenuta» (C.d.S., Sez. VI, sent. n. 3963 del 2022; negli stessi termini, si v. anche C.d.S., Sez. III, sent. n. 73 del 2016 e, nella giurisprudenza civile, Cass. civ., Sez. I, sent. n. 12568 del 2021 e Sez. VI, sent. n. 31574 del 2018).

8.2. Nel caso di specie, in primo grado il Comune ha eccepito la carenza di legittimazione e interesse in capo alla ricorrente, sostenendo in particolare che l'atto impugnato conterrebbe indirizzi generali, quindi non sarebbe immediatamente lesivo (con argomentazioni non dissimili da quelle che hanno poi condotto il Consiglio di Stato a respingere l'appello cautelare con ordinanza n. 2177 del 2018).

8.3. Nella sentenza, il T.A.R. ha esaminato ed espressamente respinto queste tesi, affermando che «è il legale rappresentante di CasaPound che si duole dell'imposizione del preciso obbligo di rendere una dichiarazione ritenuta lesiva della libertà di pensiero dell'Associazione rappresentata e dei suoi aderenti. La lesione deve, dunque, presumersi, salvo verificarne l'effettiva sussistenza. Il soggetto che si sente leso nella propria libertà, anche se non persona fisica, ma portatore di interessi collettivi, infatti, deve ritenersi legittimato alla proposizione di un ricorso preordinato all'accertamento dell'effettiva lesività della libertà imputata al provvedimento censurato: lesione la cui sussistenza deve essere indagata in concreto. Né può ritenersi che il provvedimento impugnato sia privo di lesività attuale, perché atto di indirizzo, dal momento che esso reca l'indicazione del contenuto minimo delle dichiarazioni che le singole strutture comunali dovranno richiedere in tutti i casi di istanze volte ad ottenere la concessione per l'occupazione del suolo pubblico».

8.4. A questa parte della pronuncia non sono state mosse contestazioni, con la conseguenza che sul punto deve ritenersi formato il giudicato interno e che occorre dunque esaminare nel merito le censure dedotte dall'appellante.

9. L'appello si fonda su cinque motivi.

9.1. Il primo è intitolato: «Sulla violazione di legge (in particolare: artt. 2, 3, 17, 18, 21 e 49 Cost.) che permane soprattutto alla luce dell'interpretazione elaborata nella sentenza impugnata».

In particolare, s'insiste nel sostenere che, diversamente da quanto ritenuto dal T.A.R., la delibera leda le libertà di manifestazione del pensiero, in quanto impone al singolo di esternare le proprie convinzioni personali, e di associazione, perché limita lo svolgimento di attività sociali e politiche negli spazi pubblici.

9.2. Il secondo è intitolato: «Sul rispetto del principio di proporzionalità».

In particolare, si sostiene che, diversamente da quanto ritenuto dal T.A.R., la misura incida sensibilmente sulle convinzioni personali del singolo senza avere alcuna efficacia in chiave preventiva, non impedendo che poi venga fatto uso illecito dello spazio pubblico.

A supporto delle tesi articolate con i primi due motivi, l'associazione invoca quale precedente l'ordinanza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana n. 797 del 2019 che, sia pure in sede cautelare, ha ritenuto che subordinare la concessione di aree pubbliche al sostanziale impegno a non commettere il reato di apologia del fascismo violi la libertà di manifestazione del pensiero nella sua declinazione di "diritto al silenzio" e che l'applicazione della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione non può riverberarsi sul "foro interno" «dal momento che, in disparte ogni considerazione in ordine all'assoluta impossibilità di controllare quest'ultimo, è la connotazione pubblica della manifestazione del pensiero a delineare la rilevanza penale delle condotte tipizzate dalla legge Scelba».

9.3. Con il terzo motivo si deduce: «Violazione di legge (artt. 13 e 14 d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267; art. 63 d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446; artt. 4, 7, 20, 23, comma 4, d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285) ed eccesso di potere».

In particolare, si sostiene che la delibera esorbiti dalle funzioni attribuite all'ente locale in materia di occupazione di suolo pubblico, le quali sarebbero limitate alla disciplina degli aspetti tributari.

9.4. Con il quarto motivo si deduce: «Violazione di legge (artt. 7, 42 e 48, comma 3, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267)».

In particolare, si sostiene che, in ogni caso, il Comune avrebbe dovuto adottare un regolamento, invece di un atto d'indirizzo.

9.5. Con il quinto motivo si deduce: «Violazione di legge (art. 134, comma 4, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267)».

In particolare, si sostiene che non ci fossero i presupposti per la dichiarazione dell'immediata esecutività della deliberazione e che la relativa decisione non sia stata adeguatamente motivata.

10. L'appello è infondato.

10.1. In primo luogo, si deve ribadire il consolidato orientamento secondo cui la concessione di spazi pubblici, comportando un utilizzo a fini privati di aree o locali che vengono così sottratti all'uso comune, è espressione di una potestà ampiamente discrezionale, sia nell'an, sia nella definizione di tempi, modi e condizioni dell'occupazione (sul punto si v., tra le tante, C.d.S., Sez. V, sentt. n. 4129 del 2024, n. 4660 del 2022, n. 5442 del 2015).

La definizione in via preventiva e generale di criteri e indirizzi per l'esame delle relative istanze da parte del Comune, proprietario e concedente, non è dunque illegittima, anzi, comportando un vincolo che la stessa Amministrazione pone rispetto all'esercizio dell'ampia discrezionalità che le è riconosciuta in materia, costituisce attuazione del principio d'imparzialità di cui all'art. 97 Cost.

10.2. Inoltre, la circostanza che il Comune possa approvare o abbia invero emanato un regolamento in materia non esclude l'adozione di atti d'indirizzo, con il solo limite che questi siano rispettosi del primo (e, ovviamente, delle altre fonti sovraordinate): da una lettura congiunta dell'art. 107 (secondo cui ai dirigenti spettano i compiti di gestione e agli organi di governo dell'ente le funzioni d'indirizzo e controllo) e dell'art. 48 del t.u.e.l. (secondo cui la Giunta compie tutti gli atti rientranti nelle funzioni degli organi di governo che non siano riservati al Consiglio comunale o al Sindaco) emerge infatti una generale competenza della Giunta all'adozione di atti d'indirizzo rispetto alla concreta gestione amministrativa, finanziaria e tecnica demandata ai dirigenti.

Nello specifico caso del Comune di Brescia, poi, questa potestà è ribadita dall'art. 4, comma 5, del regolamento COSAP, secondo cui il rilascio delle concessioni compete ai singoli dirigenti «in osservanza degli eventuali indirizzi disposti dalla Giunta comunale», e dall'art. 26, comma 1, del regolamento di polizia urbana, secondo cui «l'occupazione di spazi ed aree pubbliche o di uso pubblico nonché degli spazi soprastanti o sottostanti è subordinata al preventivo rilascio di apposita concessione osservando gli indirizzi eventualmente disposti dalla giunta comunale e secondo le norme contenute nel regolamento per l'applicazione del canone occupazione spazi ed aree pubbliche».

Pertanto, non si può dubitare né del potere del Comune di stabilire criteri per l'occupazione di spazi pubblici, né della competenza della Giunta a emanare atti d'indirizzo in merito, con conseguente infondatezza del terzo e del quarto motivo di appello.

10.3. Nel definire le condizioni cui è subordinata la concessione di questi spazi, l'Amministrazione ben può perseguire l'obiettivo di evitare che essi vengano utilizzati per il perseguimento delle finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, ovvero per la pubblica esaltazione di esponenti, principi, fatti, metodi e finalità antidemocratiche del fascismo - comprese le idee e i metodi razzisti - o ancora per il compimento di manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste.

Si tratta, infatti, di un obiettivo di sicuro interesse pubblico, alla luce di quella che la Corte costituzionale ha definito «l'ispirazione antifascista della nostra Costituzione» (sent. n. 254 del 1974).

Infatti, come pone in luce la dottrina costituzionalistica a larga maggioranza, la matrice antifascista della Costituzione repubblicana emerge tanto dalla sua genesi - in quanto essa è stata elaborata dalle forze che avevano partecipato alla Resistenza, conclusasi con quella "cesura ordinamentale" rappresentata dalla fondazione della Repubblica e dall'avvento del nuovo ordine democratico - quanto soprattutto dalla sua struttura e dal contenuto: le norme e i principi costituzionali - in particolare, il principio lavoristico, quelli di democrazia, solidarietà ed eguaglianza, il riconoscimento dei diritti dell'uomo (anteriori a ogni concessione da parte dello Stato) come singolo e nelle formazioni sociali nonché delle autonomie, pur nell'unità e indivisibilità della Repubblica, la pace e l'apertura alla Comunità internazionale - si pongono (consapevolmente, come emerge anche dai lavori preparatori della Costituente) in chiara discontinuità rispetto a quelli propri del regime precedente, riconoscendo espressamente diritti e libertà che dal fascismo erano stati violati e approntando gli istituti giuridici per garantire loro tutela - non ultimo, prevedendo un controllo di costituzionalità delle leggi.

In tale contesto, il primo comma della XII disposizione, che vieta «la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista», non può ritenersi meramente "transitoria", ossia destinata a trovare applicazione per un periodo di tempo determinato (com'è, per esempio, il secondo comma), ma, come osservato anche in letteratura, è norma "finale", in quanto, legandosi all'art. 54, comma 1, Cost. secondo cui «tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica» e all'art. 139 Cost., che sottrae alla revisione costituzionale «la forma repubblicana» (secondo Corte cost., sent. n. 1146 del 1988, da intendersi comprensiva di tutti quei principi che «appartengono all'essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione Italiana» e quindi innanzitutto dei "diritti inviolabili", su cui si v., tra le più recenti, Corte cost., sent. n. 135 del 2024), rifinisce il disegno costituzionale ponendo una clausola di salvaguardia che - in deroga all'art. 49 Cost. che riconosce il diritto di tutti i cittadini di associarsi liberamente in partiti, nonché agli artt. 17 e 21 che sanciscono le libertà di riunione e di manifestazione del pensiero (sul punto si v. Corte cost., sentt. n. 74 de 1958 e n. 15 del 1973) - è volta a scongiurare un ritorno "sotto qualsiasi forma" del fascismo, che segnerebbe la fine dell'esperienza democratica con essa iniziata e il disconoscimento dei diritti e delle libertà che le sono propri.

A tale disposizione ha dato attuazione [la] l. 20 giugno 1952, n. 645 (c.d. "legge Scelba"), che fornisce a quel bene giuridico definibile come "ordine pubblico democratico e costituzionale" «una tutela anticipata in relazione a manifestazioni che, in connessione con la natura pubblica delle stesse, espressamente richiesta dalla norma, possano essere tali da indurre alla ricostituzione di un partito che, per la sua ideologia antidemocratica, e per espressa previsione appena sopra richiamata, contenuta nella stessa Carta del 1948 (XII disp. trans. fin. Cost.), è contraria all'assetto costituzionale» (Cass. pen., Sez. un., sent. n. 16153 del 2024).

Inoltre, come il Consiglio di Stato ha già osservato, «detto precetto costituzionale, fissando un'impossibilità giuridica assoluta e incondizionata, impedisce che un movimento politico formatosi e operante in violazione di tale divieto possa in qualsiasi forma partecipare alla vita politica e condizionare le libere e democratiche dinamiche. Va soggiunto che l'attuazione di tale precetto, sul piano letterale come sul versante teleologico, non può essere limitata alla repressione penale delle condotte finalizzate alla ricostituzione di un'associazione vietata» - la quale, come puntualizzato nella giurisprudenza costituzionale (Corte cost., sent. n. 15 del 1973) e in quella penale (Cass. pen., Sez. un., sent. n. 16153 del 2024) presuppone il "pericolo concreto" di ricostituzione del partito fascista - «ma deve essere estesa ad ogni atto o fatto che possa favorire la riorganizzazione del partito fascista» (Sez. V, sent. n. 1354 del 2013, che ha ritenuto, anche richiamando il parere n. 173/94 della Sez. I, che dalla XII disposizione discende direttamente - dunque anche in assenza di un'espressa previsione di legge - il potere della commissione elettorale circondariale di ricusare ed estromettere dalla competizione liste o simboli che si richiamino esplicitamente al partito fascista «bandito irrevocabilmente dalla Costituzione»).

È dunque legittimo che il Comune, nel definire gli indirizzi per la concessione degli spazi pubblici, adotti delle cautele preventive volte a evitare che questi siano utilizzati per il compimento di atti o fatti che possano favorire la riorganizzazione "sotto qualsiasi forma" del partito fascista come definita dall'art. 1 della l. n. 645 del 1952 (secondo cui «si ha riorganizzazione del disciolto partito fascista quando una associazione, un movimento o comunque un gruppo di persone non inferiore a cinque persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la democrazia, le sue istituzioni e i valori della Resistenza, o svolgendo propaganda razzista, ovvero rivolge la sua attività alla esaltazione di esponenti, principi, fatti e metodi propri del predetto partito o compie manifestazioni esteriori di carattere fascista»), comprese dunque quelle manifestazioni che siano tali da «provocare adesioni e consensi e concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste» (Corte cost., sent. n. 74 del 1958, la quale ha ritenuto legittimo punire le manifestazioni usuali del partito fascista che siano tenute "pubblicamente" e possano determinare tale pericolo).

10.4. Rispetto a tale finalità, l'obbligo posto dalla Giunta del Comune di Brescia non può dirsi sproporzionato, come conduce a ritenere una lettura integrale, e non parcellizzata, della dichiarazione richiesta dall'Amministrazione per la concessione di spazi pubblici, la quale comprende i seguenti impegni: «di riconoscersi nei principi e nelle norme della Costituzione italiana e di ripudiare il fascismo e il nazismo; di non professare e non fare propaganda di ideologie neofasciste e neonaziste, in contrasto con la Costituzione e la normativa nazionale di attuazione della stessa; di non perseguire finalità antidemocratiche, esaltando, propagandando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la Costituzione e i suoi valori democratici fondanti; di non compiere manifestazioni esteriori inneggianti le ideologie fascista e/o nazista».

La riproduzione quasi integrale dell'art. 1 della "legge Scelba", il riferimento al "professare" e "fare propaganda" nonché a "manifestazioni esteriori" porta a ritenere che anche la parte di dichiarazione contestata dall'associazione appellante - lungi dal rappresentare una sorta di "professione di fede" o un giuramento di fedeltà fini a se stessi - debba intendersi come strettamente correlata all'uso dello spazio pubblico di cui si chiede la concessione, fondandosi sulla presunzione non irragionevole che chi si rifiuti di ripudiare il fascismo, e quindi mantenga un legame con quell'esperienza, possa poi utilizzare quello spazio per perseguire finalità antidemocratiche.

La sentenza impugnata è dunque condivisibile laddove considera che «se non può essere limitata la libertà di pensiero, che peraltro non può giustificare comportamenti contrari alla Costituzione e alla legge, nemmeno può limitarsi il potere dell'ente pubblico di perseguire l'interesse collettivo alla cui tutela è preposto escludendo da un uso esclusivo dei beni pubblici soggetti che si facciano portatori del pensiero fascista e che per la sua tutela e diffusione potrebbero avvalersi degli stessi beni sottratti all'uso della collettività».

10.5. Né si può ritenere che l'obbligo sia inefficace.

In primo luogo, come già osservato, la delibera implica che chi si rifiuti di ripudiare il fascismo, mantenendo un legame con un sistema di principi e valori rispetto al quale quello costituzionale si pone in antitesi, non possa ottenere in concessione spazi pubblici, in modo da evitare che questi siano usati per il perseguimento di finalità antidemocratiche, la cui concretizzazione potrebbe comportare un pregiudizio - in quanto «la riorganizzazione del partito fascista può anche essere stimolata da manifestazioni pubbliche capaci di impressionare le folle» (Corte cost., sent. n. 74 del 1958, che ha ritenuto legittimo punire tali manifestazioni, una volta tenutesi, «in quanto idonee a costituire il pericolo di tale ricostituzione») - non necessariamente e interamente riparabili mediante l'applicazione di sanzioni successive, compresa la decadenza dalla concessione.

Nella diversa ipotesi in cui la dichiarazione venga resa e poi lo spazio sia utilizzato con modalità incompatibili con l'impegno assunto con essa, l'effettività della previsione è comunque assicurata dal fatto che la sua violazione comporta l'applicazione delle sanzioni amministrative previste dal regolamento COSAP e dal regolamento della Polizia urbana, oltre alle altre conseguenze previste dalla legge (a tal proposito, non è superfluo ricordare che l'inosservanza di un precetto non lo priva di effettività se sono previste e applicate delle conseguenze a carico del trasgressore).

10.6. Non venendo dunque in rilievo una restrizione fine a se stessa e irragionevole delle libertà di manifestazione del pensiero e di associazione, quanto piuttosto una misura preventiva volta a evitare che lo spazio pubblico di cui si chiede la concessione venga utilizzato con modalità e per finalità incompatibili con l'ordinamento costituzionale, i primi due motivi di appello non meritano accoglimento.

10.7. Nemmeno è fondato il quinto motivo di appello, con cui si reiterano contestazioni relative alla decisione di dichiarare immediatamente esecutiva la delibera.

A prescindere dai seri dubbi sull'interesse a dedurre la censura, correlati al fatto che l'eventuale carenza dei presupposti per l'immediata esecutività non comporterebbe l'illegittimità dell'atto censurato, ma solo degli eventuali provvedimenti attuativi adottati prima del termine ordinario di dieci giorni di cui all'art. 134, comma 3, del t.u.e.l. (in questi termini si v. C.d.S., Sez. V, sent. n. 1567 del 2019), la motivazione della decisione della Giunta sul punto emerge da una lettura complessiva della deliberazione: l'urgenza, in particolare, è stata correlata alla necessità di procedere celermente all'applicazione dei principi da essa stabiliti tenuto conto di «recenti episodi e manifestazioni che hanno inneggiato o propagandato ideologie naziste, fasciste e/o razziste».

Si tratta di una valutazione non irragionevole che rientra nel margine di discrezionalità da riconoscere all'Amministrazione in merito alla scelta di apporre la clausola d'immediata esecutività e che si sottrae alle censure dell'appellante.

11. L'appello è quindi meritevole di rigetto.

12. La relativa novità e la particolare complessità delle questioni dedotte dalle parti giustificano la compensazione delle spese di lite.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge; compensa tra le parti le spese di lite.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Note

La presente decisione ha per oggetto TAR Lombardia, Brescia, sez. II, sent. n. 166/2020.