Consiglio di Stato
Sezione IV
Sentenza 3 giugno 2025, n. 4820

Presidente: Neri - Estensore: Monteferrante

FATTO E DIRITTO

Nell'anno 2013, l'allora Corpo forestale dello Stato notificava alla società Irma s.r.l., all'Ente Parco Delta del Po, al Comune di Comacchio ed alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Ferrara, una segnalazione in cui si dava conto dello svolgimento di una attività di gestione di rifiuti, svolta senza autorizzazione, dalle società Irma s.r.l. e Laguna s.c. a r.l., presso lo stabilimento sito in Comacchio, località Valle Pega, via Arsa Pega 3 e 6, all'interno dell'area protetta e tutelata del Parco regionale Delta del Po.

La Procura della Repubblica avviava una indagine nel corso della quale veniva emesso, in data 1° ottobre 2013, un decreto di sequestro preventivo delle aree di proprietà della ricorrente, essendo stata rilevata la presenza in sito di cumuli di cascame di lana con relativi imballaggi di plastica, cumuli di materiali tipo gesso in stato di abbandono, fanghi con fuoriuscite di materiale scuro e maleodorante, che impregnavano il terreno, nonché batterie e fusti di olio posizionati sotto una tettoia.

Sussistendo concreto pericolo di inquinamento, i luoghi venivano quindi sottoposti a sequestro, anche al fine di effettuare nuovi campionamenti ed indagini tecniche approfondite.

Dette indagini si concludevano nel luglio 2014, allorquando il consulente depositava la propria relazione in cui dava atto che sulle aree in questione erano presenti 130.000 metri cubi di materiale abbandonato, accumulati nel corso degli anni (almeno dal 2009), privi di qualsiasi tracciabilità documentale. Nell'area, in prossimità dei cumuli, si rilevava la presenza di ammoniaca in concentrazione elevata, nonché una elevata presenza di metalli pesanti nel terreno, di solfato di ammonio e percolati da discarica.

Il Sindaco del Comune di Comacchio emanava quindi una prima ordinanza contingibile ed urgente, affinché la società provvedesse alla copertura del materiale che, con le piogge, aggravava la situazione di inquinamento stante il dilavamento per effetto delle acque piovane. L'ordinanza rimaneva ineseguita.

Gli indagati, fra cui il legale rappresentante della società appellante, venivano quindi rinviati a giudizio per vari reati aventi ad oggetto la realizzazione e gestione non autorizzata di una discarica di rifiuti pericolosi e non pericolosi, per violazione di sigilli ed inottemperanza agli ordini impartiti dall'Autorità.

L'ammasso dei rifiuti aveva, infatti, determinato un progressivo e crescente degrado dello stato dei luoghi e dell'area, che, essendo ubicata in località Valle Pega, era inserita all'interno del Parco del Delta del Po, quale sito di interesse comunitario e zona di protezione speciale - Valli di Comacchio - e vi era il pericolo concreto di inquinamento del terreno, dell'aria e delle falde sia per effetto dei fenomeni di trasformazione biologica incontrollata dei rifiuti sia per il rilascio degli inquinanti nelle matrici ambientali.

Nel frattempo il Comune di Comacchio adottava un'ordinanza di rimozione rifiuti e ripristino dei luoghi (n. 1347 del 20 luglio 2015), a cui faceva seguito la presentazione da parte della società ricorrente di un cronoprogramma che tuttavia non rispettava le prescrizioni sindacali, prevedendo non la rimozione bensì una attività di "recupero in situ" del materiale, non autorizzabile.

Tant'è che Arpae, con nota del 18 giugno 2016, rilevava come gli ordini di bonifica fossero rimasti inattuati e precisava che la proposta, formulata da Irma per dare esecuzione all'ordinanza comunale, in realtà non rispettasse il cronoprogramma adottato e si discostasse totalmente da quanto imposto dall'Autorità, avanzando una modalità "alternativa" di smaltimento (ovvero l'utilizzazione dei rifiuti per realizzare fertilizzanti e concimi) non autorizzabile.

Irma s.r.l. contestava la natura di "rifiuto" del materiale rinvenuto presso lo stabilimento e proponeva modalità di smaltimento che "minimizzassero" il ricorso allo smaltimento in discarica, pretendendo di recuperare quel materiale (alla stregua di materia secondaria) per la produzione di concimi.

Il Comune, a seguito del parere negativo espresso da Arpae, respingeva l'istanza in autotutela della ricorrente tesa ad ottenere l'annullamento dell'ordinanza comunale n. 1347/2015 e confermava l'ordine di rimozione e ripristino come da prescrizioni già impartite da Arpae.

Anche l'Ente di gestione per i parchi e la biodiversità - Delta del Po adottava l'ordinanza n. 55 del 7 novembre 2016 con cui accertava la violazione dell'art. 60, comma 3, l.r. n. 6/1995 e, conseguentemente, disponeva la rimozione dei rifiuti ed il ripristino dello stato dei luoghi con le modalità indicate nel provvedimento.

Tale ultima ordinanza - oggetto del presente giudizio - veniva impugnata dinanzi al T.A.R. per l'Emilia-Romagna dalla società Irma s.r.l. per chiederne l'annullamento.

In particolare con il predetto ricorso la società ha chiesto:

- l'annullamento dell'ordinanza dell'Ente di gestione per i parchi e la biodiversità - Delta del Po, n. 55/2016 del 7 novembre 2016, notificata in data 24 novembre 2016, di ripristino dello stato dei luoghi a firma del direttore, con la quale è stato ordinato "per i fini ambientali di competenza dell'ente scrivente (...) di provvedere entro e non oltre 150 giorni dalla notifica del presente atto alla rimozione dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi, con le modalità segnalate dal Corpo forestale dello Stato con propria nota prot. n. 830 del 12 maggio 2015";

- di ogni altro atto amministrativo ad essa presupposto, connesso e/o consequenziale, ivi compresi, per quanto occorra, la nota prot. n. 830 del 12 maggio 2015 del Corpo forestale dello Stato - Comando Stazione di Comacchio; l'ordinanza n. 1347 del 20 luglio 2015 del Comune di Comacchio; la nota dell'ARPAE - Sezione provinciale di Ferrara prot. n. 11019/2016 del 18 ottobre 2016.

Al contempo la Irma presentava analoga istanza di riesame all'Ente Parco, chiedendo questa volta l'annullamento in sede di autotutela dell'ordinanza n. 55/2016 qui gravata ma l'Ente Parco, con nota del 10 maggio 2017, "stante il perdurare dello status quo, in quanto l'impresa non ha adempiuto a quanto intimato con il provvedimento in data 7.11.2016", confermava l'ordinanza e respingeva la richiesta di riesame.

Nelle more del ricorso di primo grado dinanzi al T.A.R., il procedimento penale avviato nei confronti di Irma s.r.l. e del legale rappresentante della società ed altri veniva definito con sentenza n. 568 del 19 aprile 2018: in particolare il Tribunale di Ferrara riconosceva la responsabilità amministrativa della società e condannava il legale rappresentante alla pena di anni due di arresto per la violazione degli artt. 256, 137 e 113 d.lgs. n. 152/2006 e per gli artt. 349, 334 e 650 c.p., nonché alla pena di anni due di reclusione per i restanti reati contestati, oltre sanzioni pecuniarie, confisca dell'area e obbligo di bonifica.

Nonostante tale condanna ed i numerosi provvedimenti amministrativi sanzionatori adottati dall'Ente Parco, dal Comune e da Arpae, la ricorrente non ha mai provveduto né al pagamento delle sanzioni né alla bonifica del sito, né alla rimozione dei rifiuti.

Successivamente il Comune disponeva la revoca parziale dell'ordinanza n. 1347/2015 nella parte in cui era stata estesa a soggetti riconosciuti dal Giudice penale estranei ai fatti di causa.

Con sentenza n. 348 del 16 aprile 2022 il T.A.R. per l'Emilia-Romagna, Bologna, Sez. II, ha respinto il ricorso n. 407/2017 R.G. proposto da Irma s.r.l. per l'annullamento dell'ordinanza n. 55 del 7 novembre 2016 del direttore dell'Ente di gestione per i parchi e la biodiversità Delta del Po, recante l'ordine di rimozione dei rifiuti e la rimessione in pristino dello stato dei luoghi.

Avverso la predetta sentenza ha interposto appello la società Irma s.r.l. per chiederne la riforma in quanto errata in diritto.

All'udienza pubblica del 5 dicembre 2024 la causa è stata trattenuta in decisione, previo deposito di memorie conclusive e di replica con le quali le parti hanno nuovamente illustrato le rispettive tesi difensive ed eccezioni.

L'appello è infondato atteso che le puntuali ed articolate motivazioni rese dal T.A.R. resistono alle critiche mosse con l'atto di appello.

Il Corpo forestale dello Stato in particolare ha contestato al legale rappresentante della Irma s.r.l. e ad altri soggetti la realizzazione e la gestione di una discarica non autorizzata di rifiuti pericolosi e non pericolosi, mediante conferimenti e stoccaggi di materiali eterogenei per un volume pari a circa 130.000 mc.

Irma s.r.l. contesta la natura di rifiuti sostenendo che si tratterebbe di materiali che recupera per produrre fertilizzanti: si tratterebbe cioè di sottoprodotti.

Il Comune di Comacchio, prima, e l'Ente di gestione per i parchi e la biodiversità Delta del Po, successivamente, hanno adottato, per quanto di rispettiva competenza, due distinte ordinanze di rimozione dei rifiuti e di ripristino dello stato dei luoghi; Irma ha impugnato la seconda dinanzi al T.A.R. per l'Emilia-Romagna che ha respinto i motivi di ricorso variamente articolati in punto di difetto di istruttoria, violazione del contraddittorio procedimentale, incompetenza dell'Ente Parco, contraddittorietà rispetto al contenuto della precedente ordinanza sindacale, insussistenza dei caratteri di "rifiuto".

Anche il Tribunale penale di Ravenna ha condannato il legale rappresentate della Irma per avere realizzato una discarica abusiva e in quella sede è stata disposta una c.t.u. - le cui risultanze sono state valorizzate dal T.A.R. - che ha accertato trattarsi di rifiuti, in linea con quanto già accertato da C.d.S., Sez. V, con sentenza n. 6402 del 2014 in una precedente vicenda.

Avverso la sentenza del T.A.R. per l'Emilia-Romagna Irma s.r.l. ha articolato 8 motivi di appello.

Con il primo motivo la società appellante ha dedotto "l'illegittimità degli atti impugnati in quanto emanati indipendentemente dalle vicende penali riguardanti la vicenda in esame e sull'illegittimità degli atti impugnati per mancata considerazione dell'elemento psicologico".

Lamenta che il T.A.R. avrebbe errato nel non considerare la pendenza di un giudizio penale e l'insussistenza di alcun accertamento all'epoca dell'emanazione dei provvedimenti impugnati, della qualificazione dell'attività e del materiale rinvenuto, nonché della responsabilità connessa.

Il fatto che il T.A.R. abbia attinto alle risultanze del procedimento penale confermerebbe la dedotta carenza di istruttoria nella adozione dell'ordinanza impugnata e la necessità di attendere l'esito dell'appello ancora pendente.

In ogni caso alcuna indagine sarebbe stata condotta circa il requisito del dolo e della colpa in capo ai destinatari dell'ordinanza in relazione alla condotta di abbandono essendo stata peraltro ampiamente contestata la stessa natura di rifiuti del materiale rinvenuto.

Il motivo è infondato.

È pacifico che non sussiste pregiudizialità del processo penale rispetto a quello amministrativo. Il fatto che non vi sia pregiudizialità non implica tuttavia che il giudice amministrativo non possa valorizzare gli elementi di prova già acquisiti in quel giudizio - dove è stata disposta una c.t.u. - per formare il proprio convincimento, secondo i principi generali in materia di prove atipiche. Il fatto che si tratti di semplici elementi di prova non rende illegittimo il mancato accoglimento da parte del T.A.R. della richiesta di verificazione o di c.t.u. poiché i predetti elementi risultano corroborati dalla sentenza della V Sezione di questo Consiglio n. 6402 del 2014 che consente di delineare un quadro di indizi gravi, precisi e concordanti circa la natura del materiale ivi rinvenuto, sufficiente per poterlo qualificare come rifiuti.

Con la predetta sentenza infatti è stato accertato che: «è evidente che la società Irma trattava la trasformazione di "prodotti" cui non si può negare la nozione di rifiuto e che quindi come tali dovevano essere assoggettati alle specifiche autorizzazioni all'uopo necessarie e delle quali non viene dato alcun conto».

Quanto al preteso mancato accertamento dell'elemento soggettivo, l'entità dei rifiuti stoccati - ben 130.000 mc - e il carattere risalente del loro deposito, rappresentano indizi gravi e precisi sul fatto che il titolare fosse a conoscenza della loro presenza nelle are di proprietà, come confermato dalla circostanza che egli non ne addebita a terzi il deposito, limitandosi a contestare la natura di rifiuto del materiale giacente che, a suo dire, sarebbe utilizzato, a fini di recupero, per produrre fertilizzanti. Non contesta dunque la responsabilità del deposito ma la natura del materiale.

Con il secondo motivo ha dedotto: "errata interpretazione dell'art. 192 del T.U. Ambiente e violazione del ne bis in idem".

Lamenta che il T.A.R. avrebbe errato nell'interpretare la parte iniziale dell'art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006, ritenendo che tale disposizione non introduca una sanzione alternativa a quella prevista dagli artt. 255 e 256 del medesimo t.u. ambiente.

L'incipit dell'art. 192 del t.u. ambiente, facendo riferimento alla sua applicazione "Fatta salva l'applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 255 e 256", prevederebbe espressamente un'alternatività delle due sanzioni, nella specie non rispettata dall'Amministrazione.

Il motivo è infondato.

In base al tenore letterale delle disposizioni in esame infatti la sanzione concorrere con la misura ripristinatoria. In questo senso l'espressione "Fatta salva l'applicazione delle sanzioni di cui agli articoli 255 e 256" va intesa nel senso di "Fermo restando l'applicazione delle sanzioni...".

Del resto le misure di prevenzione e quelle ripristinatorie sono centrali nel sistema di tutela previste dal diritto ambientale e giammai potrebbero essere surrogate da mere sanzioni sostitutive delle misure riparative necessarie a garantire il miglior standard di tutela dei beni ambientali: di qui la loro necessaria concorrenza in luogo della prospettata alternatività che non è giustificabile né sul piano letterale né su quello teleologico; ciò in quanto la misura afflittiva e punitiva completa quella riparatoria e ripristinatoria proprio in chiave general-preventiva e dissuasiva rispetto al pericolo di future nuove violazioni.

Con il terzo motivo ha dedotto "Omessa e comunque illegittima pronuncia in merito all'incompetenza dell'Ente Parco a emanare l'ordinanza impugnata".

Lamenta che l'ordinanza n. 55/2016 sarebbe stata emanata dall'Ente di gestione per i parchi e la biodiversità - Delta del Po, sebbene privo di tale potere, per legge attribuito esclusivamente al Sindaco ex art. 192, comma 3, del d.lgs. n. 152/2006. Il T.A.R. avrebbe errato nel ritenere che anche l'Ente Parco avesse tale prerogativa poiché ciò implicherebbe una sovrapposizione di competenze ed il rischio di provvedimenti potenzialmente contrastanti.

Il motivo è infondato.

L'Ente Parco poteva adottare l'ordinanza impugnata, anche dopo la adozione della ordinanza da parte del Comune perché ha esercitato un potere distinto e proprio, quello di cui all'art. 60, comma 3, della l.r. n. 6 del 2005 che prevede il potere di ordinare la riduzione in pristino stato. In ogni caso la eventuale illegittimità della seconda ordinanza non fa cadere la prima, quella comunale, non impugnata nei termini di legge, da cui comunque consegue l'obbligo di rimozione dei rifiuti, secondo le modalità indicate dal Corpo forestale dello Stato, palesando dubbi sulla stessa ammissibilità del ricorso, in relazione al requisito dell'interesse ad agire che l'infondatezza complessiva del gravame consente tuttavia di assorbire.

Con il quarto motivo ha dedotto "Erroneità della statuizione secondo cui il dispositivo dell'ordinanza n. 55/2016 rappresenterebbe una mera ripetizione del contenuto dell'ordinanza comunale n. 1347/2015".

Il T.A.R. avrebbe errato nel non considerare che l'ordinanza comunale prevede una modalità di ripristino dello stato dei luoghi - oltre che rispettosa dei principi che informano il diritto ambientale - diversa da quella che vuole imporre l'Ente Parco, e altresì opposta a quest'ultima.

L'ordinanza dell'Ente Parco esclude infatti la possibilità di lavorare o trasformare i rifiuti in situ, mentre l'ordinanza comunale n. 1347/2015 la prevedeva e richiedeva.

Tale prescrizione limitativa avrebbe precluso a Irma s.r.l. la possibilità di utilizzare il materiale rinvenuto, impedendo anche l'attuazione del cronoprogramma presentato antecedentemente dalla Irma, in ottemperanza (senza acquiescenza) dell'ordinanza n. 1347/2015.

Il motivo è infondato.

Non sussiste la dedotta difformità di contenuto tra le due ordinanze poiché anche quella adottata dell'Ente Parco ordina la rimozione dei rifiuti "con le modalità" contenute nella nota del Corpo forestale dello Stato n. 830 del 2015 "ovvero..." e le elenca.

Tra queste non v'è la possibilità di recupero in situ come afferma l'appellante bensì la prescrizione di "presentare... il crono programma relativo alle operazioni di rimozione e di avvio a recupero/smaltimento" laddove il riferimento al "recupero" va letto in connessione con le prodromiche e necessarie operazioni di rimozione da finalizzare ad attività di "avvio a recupero" ovvero di smaltimento presso centri a ciò deputati.

Segue - tra le prescrizioni da rispettare - la necessità di indicare le ditte incaricate del trasporto nonché quelle di destinazione finale, senza possibilità dunque di trattenere e recuperare in situ i predetti rifiuti.

In altre parole, quanto alle modalità del ripristino, l'Ente Parco si uniforma alle indicazioni contenute nel verbale del Corpo forestale dello Stato che non contempla la possibilità di attività di recupero dei rifiuti in situ bensì il solo trasporto presso centri autorizzati al recupero o allo smaltimento.

Si tratta pertanto delle modalità di ripristino, prospettate nella relazione istruttoria del Corpo forestale dello Stato, che le autorità competenti (il Sindaco in materia di rifiuti e l'Ente Parco in materia di tutela ambientale dell'area del Parco) hanno ritenuto di recepire nei provvedimenti repressivi di rispettiva competenza.

Con il quinto motivo ha dedotto "l'illegittimo rigetto della richiesta istruttoria di disporre una verificazione o una consulenza tecnica".

Il rifiuto del T.A.R. di disporre l'incombente istruttorio sarebbe illegittimo poiché avrebbe impedito di colmare le rappresentate carenze istruttorie, che avevano portato all'emanazione dei provvedimenti impugnati senza alcuna concreta analisi del materiale, delle responsabilità addebitabili e dell'eventuale inquinamento prodotto. Il T.A.R. non avrebbe potuto limitarsi a richiamare la c.t.u. disposta in sede penale ed ivi fermamente contestata anche mediante gravame in appello ma avrebbe dovuto disporre una autonoma c.t.u. nel giudizio amministrativo.

Il motivo è infondato per le ragioni esposte nella disamina del primo motivo di appello cui si rinvia.

La relazione del Corpo forestale dello Stato, l'esito della c.t.u. disposta in sede penale, le verifiche condotte dall'ente regionale di protezione ambientale e la stessa sentenza di questo Consiglio di Stato n. 6402 del 2014 sono tutte convergenti nel senso dell'esistenza di un deposito incontrollato di rifiuti e forniscono un congruo corredo istruttorio per supportare la legittimità della ordinanza impugnata.

Con il sesto motivo ha dedotto la violazione delle garanzie partecipative stante l'omessa comunicazione di avvio del procedimento.

Il T.A.R. non poteva addurre ex post e d'ufficio ragioni di urgenza per derogare al suddetto principio generale la cui applicazione le avrebbe consentito di presentare argomenti per escludere la natura di rifiuto dei materiali rinvenuti e per evidenziare la contraddittorietà dell'ordinanza con quella adottata dal Comune nel 2015.

Il motivo è infondato.

Non sussiste la dedotta violazione delle garanzie partecipative poiché l'appellante ha comunque avuto conoscenza aliunde dell'atto di impulso dei due procedimenti, avendo ricevuto la notifica del verbale del Corpo forestale dello Stato che ha originato le due ordinanze di rimozione e di ripristino adottate dai due enti competenti.

Ricevuta la notifica del verbale, Irma s.r.l. era nelle condizioni di contraddire e contestare gli accertamenti del Corpo forestale interloquendo con tutti gli organi di tutela ambientale notiziati mediante la produzione di documenti e scritti difensivi secondo quanto previsto dall'art. 10 della l. n. 241 del 1990.

Con il settimo motivo ha dedotto la carenza di istruttoria.

L'errore di fondo contenuto nell'ordinanza dell'Ente Parco consisterebbe nell'aver imposto l'attività di smaltimento del materiale rinvenuto non prendendo in considerazione l'avvio di un diverso iter di risanamento dei luoghi, la contrarietà di quanto imposto con la statuizione dell'ordinanza comunale, nonché l'insussistenza di alcun materiale qualificabile come rifiuto.

Il motivo è infondato alla luce di quanto evidenziato nella disamina dei precedenti motivi n. 1 e n. 5 in particolare cui si rinvia.

Con l'ottavo motivo ha dedotto "l'errata qualificazione del materiale rinvenuto quale rifiuto".

Lamenta che non intendeva "disfarsi" del materiale rinvenuto in sito [come invece richiesto dalla definizione di rifiuto contenuta nell'art. 183, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 152 del 2006], che invece era utilizzabile per essere convertito in fertilizzante, mentre il restante materiale era regolarmente conservato e annotato nei relativi registri. Trattasi di sottoprodotto ex art. 184-bis del t.u. ambiente.

Il T.A.R., dopo aver affermato l'autonomia del processo penale, non poteva limitarsi a recepire le risultanze della c.t.u. disposta in quella sede, senza disporre ulteriori accertamenti istruttori necessari a verificare la natura dei materiali rinvenuti.

Il motivo è infondato.

Fermo quanto osservato nella disamina dei motivi n. 1 e n. 5, con sentenza n. 6402 del 2014 questo Consiglio ha già avuto occasione di occuparsi della natura dell'attività svolta da Irma s.r.l. allorquando la società ha impugnato l'ordinanza comunale di sospensione dell'attività di produzione del fertilizzante e di smaltimento dei fanghi della lavorazione, in quanto attività inquinante. Con la predetta sentenza è stato accolto l'appello incidentale del Comune sul presupposto che i fanghi derivanti dalla produzione conciaria (e che oggi fanno parte del materiale ammassato di cui si controverte in questa sede) erano da classificarsi a tuti gli effetti come "rifiuti".

Alla luce delle motivazioni che precedono l'appello deve, in conclusione, essere respinto.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e condanna la Irma s.r.l. alla rifusione delle spese del grado in favore del Comune di Comacchio, dell'Ente di gestione per i parchi e la biodiversità - Delta del Po e del Comando Regione Carabinieri Forestali Emilia-Romagna che liquida, in favore di ciascuno, in euro 3.000,00 (per un totale di euro 9.000,00) oltre IVA, CAP e spese generali come per legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Note

La presente decisione ha per oggetto TAR Emilia-Romagna, sez. II, sent. n. 348/2022.