Corte costituzionale
Sentenza 24 luglio 2025, n. 125

Presidente: Amoroso - Redattore: Luciani

[...] nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 29, secondo comma, della legge 16 giugno 1927, n. 1766 (Conversione in legge del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del R. decreto 28 agosto 1924, n. 1484, che modifica l'art. 26 del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, e del R. decreto 16 maggio 1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall'art. 2 del R. decreto-legge 22 maggio 1924, n. 751), promosso dalla Corte d'appello di Roma, sezione speciale per gli usi civici, nel procedimento vertente tra Autostrade per l'Italia spa, Comune di Anagni e Regione Lazio, con ordinanza del 23 settembre 2024, iscritta al n. 241 del registro ordinanze 2024 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 2, prima serie speciale, dell'anno 2025.

Visti l'atto di costituzione di Autostrade per l'Italia spa, nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 20 maggio 2025 il Giudice relatore Massimo Luciani;

uditi gli avvocati Luisa Torchia e Fabrizio Marinelli per Autostrade per l'Italia spa e l'avvocato dello Stato Carmela Quattrone per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 21 maggio 2025.

RITENUTO IN FATTO

1.- Con ordinanza del 23 settembre 2024, iscritta al n. 241 del registro ordinanze 2024, la Corte d'appello di Roma, sezione speciale per gli usi civici, ha sollevato, in riferimento agli artt. 24, 111 e 117 della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e all'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 29, secondo comma, della legge 16 giugno 1927, n. 1766 (Conversione in legge del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del R. decreto 28 agosto 1924, n. 1484, che modifica l'art. 26 del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, e del R. decreto 16 maggio 1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall'art. 2 del R. decreto-legge 22 maggio 1924, n. 751). Ciò in quanto la disposizione censurata, a seguito dell'intervento additivo di questa Corte con la sentenza n. 46 del 1995, consente al commissario agli usi civici di avviare d'ufficio i procedimenti giudiziari ch'egli stesso dovrà successivamente definire.

1.1.- La Corte d'appello di Roma riferisce di essere chiamata a decidere sull'impugnazione da parte di Autostrade per l'Italia spa della sentenza 4 aprile 2022, n. 67, del Commissario per la liquidazione degli usi civici per le Regioni Toscana, Lazio e Umbria, la quale ha dichiarato l'appartenenza alla «proprietà collettiva dei naturali di Anagni» di alcuni fondi, catastalmente individuati, dell'estensione complessiva di ettari 23.69.32, nonché delle opere e dei fabbricati ivi insistenti, in quanto inseriti entro il perimetro originario della cosiddetta Selva Grande, o anche bosco di Anagni. Contestualmente, il Commissario agli usi civici ha altresì dichiarato la nullità dell'atto di compravendita del 30 luglio 1963, con il quale il Comune di Anagni aveva proceduto alla cessione volontaria dei suddetti beni in favore di Autostrade Concessioni e Costruzioni spa, e ne ha disposto la reintegra in favore del medesimo.

1.2.- La Corte rimettente premette che nel corso di un procedimento demaniale pendente innanzi il Commissario per la liquidazione degli usi civici per le Regioni Lazio, Umbria e Toscana tra il Comune di Anagni e la società Autostrade per l'Italia spa il consulente tecnico d'ufficio aveva concluso nel senso che parte del demanio collettivo di Anagni era occupata «da un tratto dell'autostrada A1 Milano-Napoli e dall'area di servizio denominata La Macchia», in quanto tale occupazione era stata realizzata entro il perimetro dell'originario bosco di Anagni, quindi su aree di natura collettiva, senza che fosse stata rilasciata la necessaria autorizzazione ai sensi dell'art. 12 della legge n. 1766 del 1927. Con decreto del 9 dicembre 2020 il Commissario, ritenuto che la questione necessitasse di un proprio pronunciamento «in ordine all'accertamento della qualitas soli» dei terreni interessati, aveva dunque dato avvio d'ufficio a un nuovo procedimento, disponendo la citazione in giudizio davanti a sé del Comune di Anagni, della società Autostrade per l'Italia spa e della Regione Lazio, amministrativamente competente in materia di gestione del territorio.

Nel procedimento così introdotto era stata svolta una nuova consulenza tecnica d'ufficio, affidata al medesimo professionista autore della relazione depositata nel precedente giudizio, sulla cui base il Commissario per la liquidazione degli usi civici per le Regioni Lazio, Umbria e Toscana aveva emesso la sentenza impugnata innanzi la Corte d'appello di Roma.

A sostegno della propria decisione il Commissario osservava, in particolare, che: i) secondo gli accertamenti del consulente tecnico d'ufficio le particelle oggetto di causa avevano natura demaniale civica in quanto site entro l'originario bosco di Anagni e, quindi, in aree di natura collettiva; ii) le richieste di autorizzazione al mutamento di destinazione d'uso - peraltro relative ai soli terreni interessati dall'ampliamento dell'area di servizio «La Macchia Ovest» - non erano rilevanti in quanto mai formalmente accolte; iii) alcune particelle erano state fatte oggetto di espropriazione con provvedimento del 19 febbraio 1991 del Prefetto di Frosinone in vista della realizzazione della terza corsia autostradale, ma i beni, appartenenti alla collettività e quindi in regime di inalienabilità e indisponibilità, non potevano essere espropriati per ragioni di pubblica utilità se non previa espressa sdemanializzazione; iv) né la dichiarazione di pubblica utilità dell'opera né il provvedimento di espropriazione avevano efficacia equipollente all'atto di sdemanializzazione e, dunque, il decreto prefettizio era illegittimo e in quanto tale doveva essere disapplicato; v) era nullo, inoltre, il contratto del 30 luglio 1963 con cui il Comune di Anagni aveva proceduto alla cessione volontaria delle aree, non essendo stato debitamente autorizzato ai sensi dell'art. 12 della legge n. 1766 del 1927, in quanto le proprietà collettive sono inalienabili, indivisibili e inusucapibili.

1.3.- La Corte d'appello rimettente riferisce che Autostrade per l'Italia spa aveva impugnato la sentenza del Commissario per la liquidazione degli usi civici per le Regioni Lazio, Umbria e Toscana affidandosi a cinque motivi, prospettando, in via preliminare, l'illegittimità costituzionale dell'art. 29, primo comma, della legge n. 1766 del 1927, nella parte in cui prevede l'iniziativa d'ufficio del commissario agli usi civici, e deducendo la nullità della sentenza per omessa integrazione del contraddittorio nei confronti della "rappresentanza speciale dei naturali" del Comune di Anagni.

Il giudice a quo precisa, nel merito, che Autostrade per l'Italia spa aveva chiesto dichiararsi insussistente l'uso civico in forza di sdemanializzazione tacita o comunque in virtù degli atti di esproprio adottati per la realizzazione dell'opera pubblica, con conseguente validità dell'atto di cessione volontaria del 30 luglio 1963, con cui venne definito il procedimento espropriativo avviato nel 1959 in vista della realizzazione del tratto autostradale.

La Corte rimettente soggiunge che il Comune di Anagni e la Regione Lazio avevano chiesto il rigetto del reclamo e che, intervenuto il Procuratore generale e accolta l'istanza di sospensione, il 7 maggio 2024 la causa era stata trattenuta in decisione.

1.4.- Tanto premesso, la Corte d'appello di Roma ritiene, in primis, che la questione di legittimità costituzionale debba essere più correttamente riferita al secondo comma dell'art. 29 della legge n. 1766 del 1927, relativo ai poteri giurisdizionali del commissario.

1.5.- Tanto premesso, l'ordinanza di rimessione motiva sui presupposti di promovimento delle questioni di legittimità costituzionale prospettate dalla parte privata.

In punto di rilevanza, l'ordinanza prende anzitutto atto che il procedimento era stato avviato su impulso d'ufficio del Commissario, il quale aveva disposto la comparizione delle parti davanti a se stesso.

Si assume che al fine della decisione sul ricorso sarebbe decisiva la definizione della doglianza concernente la ritenuta illegittimità costituzionale dell'art. 29 della legge n. 1766 del 1927: dall'invocata declaratoria di illegittimità costituzionale della norma che riconosce l'iniziativa d'ufficio del commissario, infatti, deriverebbe la caducazione della sentenza gravata e con essa dell'accertamento della demanialità dei fondi, in quanto verrebbe meno, con efficacia ex tunc, il potere del commissario di esercitare d'ufficio la giurisdizione, così travolgendo tutta l'attività processuale svolta. Si evidenzia che il giudizio, pertanto, non potrebbe essere definito indipendentemente dalla risoluzione delle questioni di legittimità costituzionale, che rivestirebbero carattere pregiudiziale rispetto a quella dell'integrità del contraddittorio e al merito.

1.6.- All'illustrazione della non manifesta infondatezza delle sollevate questioni la Corte rimettente antepone talune premesse ricostruttive del quadro normativo e giurisprudenziale.

La Corte d'appello di Roma rammenta che con le sentenze 28 gennaio 1994, n. 858 e n. 859 le sezioni unite civili della Corte di cassazione avevano affermato il principio che, con il passaggio alle regioni delle funzioni amministrative in tema di usi civici ai sensi del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione della delega di cui all'art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382), funzioni fino a quel momento attribuite al commissario dall'art. 29, primo comma, della legge n. 1766 del 1927, era venuto meno il potere di iniziativa processuale d'ufficio del commissario stesso, che era «incidentale, eventuale ed accessorio perché sorgeva solo in occasione dello svolgimento delle sue funzioni amministrative e da esse era direttamente dipendente».

Il giudice rimettente evidenzia che, tuttavia, con la sentenza n. 46 del 1995, questa Corte aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 29, secondo comma, della legge n. 1766 del 1927, nella parte in cui non consentiva la permanenza in capo al commissario agli usi civici del potere di esercitare d'ufficio la giurisdizione pur dopo il trasferimento alle regioni delle funzioni amministrative previste dal primo comma dell'articolo medesimo, affermando che la confluenza nel commissario regionale di funzioni di impulso processuale e di funzioni giudicanti poteva essere transitoriamente giustificata in vista di una nuova disciplina legislativa improntata a una rigorosa tutela della terzietà del giudice, peraltro preannunciata dall'art. 5 della legge 4 dicembre 1993, n. 491 (Riordinamento delle competenze regionali e statali in materia agricola e forestale e istituzione del Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali), successivamente abrogata dall'art. 1 del decreto legislativo 4 giugno 1997, n. 143, recante «Conferimento alle regioni delle funzioni amministrative in materia di agricoltura e pesca e riorganizzazione dell'Amministrazione centrale».

In quella occasione - segnala la Corte d'appello - questa Corte aveva evidenziato che in mancanza del potere officioso del commissario nessun organo statale sarebbe stato abilitato ad agire in via preventiva per la tutela dell'interesse della collettività generale alla conservazione dell'ambiente, proprio a tutela del quale le zone gravate da usi civici erano state invece sottoposte a vincolo paesaggistico (art. 1, lettera h, della legge 8 agosto 1985, n. 431, recante «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 27 giugno 1985, n. 312, recante disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale. Integrazioni dell'art. 82 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977 n. 616», ora art. 142, comma 1, lettera h, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, recante «Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137»), di modo che sarebbe residuato solo il rimedio, successivo alla consumazione dell'abuso, dell'azione di risarcimento del danno ambientale prevista dall'art. 311 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale). Questa Corte, pertanto, facendo applicazione del criterio di legittimità costituzionale provvisoria e considerando le esigenze di tutela ambientale poste dagli artt. 9 e 32 Cost., aveva ritenuto preferibile fare salvo il potere di iniziativa processuale del commissario, in attesa del riordino generale della materia degli usi civici.

Il giudice a quo evidenzia che ancor prima della sentenza n. 46 del 1995 questa Corte aveva manifestato, con la sentenza n. 133 del 1993, «dubbi non lievi» in merito al conferimento al commissario dei poteri di iniziativa d'ufficio, specialmente pel profilo dell'art. 24, secondo comma, Cost., sollecitando il legislatore a trovare altre soluzioni, e che anche con la sentenza n. 345 del 1997 la stessa Corte aveva ribadito di pronunciarsi «nell'attesa che il legislatore riordini l'intera materia».

La Corte d'appello di Roma espone ancora che con la successiva ordinanza n. 21 del 2014 questa Corte aveva dichiarato inammissibile una nuova questione di legittimità costituzionale dell'art. 29 della legge n. 1766 del 1927 sollevata dalla Corte di cassazione in riferimento agli artt. 111 e 24 Cost., rilevando, tra l'altro, che il novellato art. 111 Cost. non aveva introdotto alcuna sostanziale innovazione quanto ai princìpi della terzietà e dell'imparzialità del giudice, osservando, tuttavia, come la nuova disciplina legislativa non fosse ancora intervenuta, nonostante fossero trascorsi quasi venti anni dalla sentenza n. 46 del 1995.

Il giudice rimettente soggiunge infine che questa Corte era nuovamente intervenuta in materia con la sentenza n. 113 del 2018, nella quale aveva ribadito di aver «scelto di salvaguardare il potere di iniziativa processuale dei Commissari "in attesa del riordino generale della materia", preannunciato dall'art. 5 della legge 4 dicembre 1993, n. 491 [...] sulla base della consapevolezza che "le funzioni di impulso processuale da parte del giudice si possono giustificare eccezionalmente, purché transitoriamente, in vista di una nuova disciplina improntata al principio della terzietà del giudice" (sentenza n. 345 del 1997)».

1.7.- Alla luce di tali premesse ricostruttive, la Corte d'appello rimettente ritiene che siano maturi i tempi per una rimeditazione dei princìpi enunciati nella sentenza di questa Corte n. 46 del 1995, a circa trent'anni da tale pronuncia e decorso quasi un secolo dall'entrata in vigore della legge n. 1766 del 1927, in particolare pel profilo della transitorietà della soluzione all'epoca individuata da questa Corte in ordine al bilanciamento degli interessi alla tutela dell'ambiente e del paesaggio, da un lato, e al diritto di difesa, dall'altro, tenuto conto che all'epoca l'art. 5 della legge n. 491 del 1993 (legge, come detto, successivamente abrogata), preannunciava un «riordino generale» della materia di che trattasi.

Secondo l'ordinanza di rimessione, pertanto, la norma in esame vivrebbe solo in forza di un criterio di legittimità costituzionale provvisoria che sarebbe venuto meno con l'abrogazione dell'art. 5 della legge n. 491 del 1993. Inoltre, si sottolinea che, nonostante il decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell'articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), fosse intervenuto proprio sulla disciplina dei giudizi in materia di usi civici, prevedendo che il giudizio di appello venisse regolato dal rito ordinario di cognizione, non era stato toccato il potere di iniziativa d'ufficio attribuito al commissario agli usi civici.

Nell'ordinanza si evidenzia che né con la successiva legge 20 novembre 2017, n. 168 (Norme in materia di domini collettivi), né con il decreto-legge 31 maggio 2021, n. 77 (Governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure), convertito, con modificazioni, nella legge 29 luglio 2021, n. 108 (che la legge n. 168 del 2017 ha modificato), il legislatore era intervenuto sul potere d'ufficio del commissario agli usi civici, precisando che non risultavano disegni o progetti di legge pendenti volti a introdurre disposizioni sul processo innanzi il medesimo.

La Corte d'appello rimettente giunge così alla conclusione che il bilanciamento di interessi che questa Corte aveva ritenuto accettabile solo in via transitoria e in vista di un generale riordino della materia si sarebbe tramutato in una permanente violazione del diritto di difesa e del diritto a un giudice terzo e imparziale.

1.8.- Alla luce del delineato quadro, il giudice a quo assume che l'iniziativa d'ufficio del commissario agli usi civici contrasterebbe con gli artt. 24, secondo comma, 111, primo comma e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6 CEDU e all'art. 47 CDFUE, che assicurano ai cittadini il diritto a difendersi nel processo e a essere giudicati in condizioni di parità da un giudice terzo e imparziale, che non coltivi pregiudizio circa l'accertamento dei fatti oggetto del processo e non dia modo ad alcuna delle parti di nutrire al riguardo dubbi oggettivamente giustificati.

Osserva il giudice rimettente che il commissario agli usi civici - cui da tempo sono stati sottratti i poteri amministrativi originariamente attribuitigli dalla legge del 1927 - è a tutti gli effetti un organo giurisdizionale facente parte dell'ordinamento giudiziario e che la norma che, sulla base di elementi di prova acquisiti aliunde, gli attribuisce il potere di iniziare d'ufficio il procedimento giudiziario ch'egli stesso dovrà decidere sarebbe in evidente contrasto con i princìpi costituzionali sopra menzionati.

1.9.- La Corte d'appello di Roma evidenzia che in materia di usi civici il potere di agire è conferito dall'art. 29 della legge n. 1766 del 1927 a chiunque vi abbia interesse e che, pertanto, sarebbero legittimati a chiedere l'accertamento della qualitas soli non solo la regione o l'ente locale interessato, ma, più in generale, tutti coloro che sono portatori di un interesse apprezzabile ai sensi dell'art. 100 del codice di procedura civile, quindi, in via esemplificativa, gli enti esponenziali dei cives o dei frazionisti, le associazioni agrarie comunque denominate, i singoli cittadini o gli abitanti della frazione in proprio o come esponenti della collettività, nonché gli enti o le associazioni aventi quale oggetto sociale la tutela dell'ambiente e del paesaggio, in ossequio al principio di sussidiarietà di cui all'art. 118, quarto comma, Cost.

Secondo la Corte d'appello rimettente, quindi, il venir meno del potere d'iniziativa d'ufficio del commissario agli usi civici non arrecherebbe un irreparabile pregiudizio alla tutela dell'ambiente e del paesaggio, anche tenuto conto che il legislatore potrebbe intervenire attribuendo a un organo statale poteri di iniziativa rispettosi dei princìpi costituzionali di terzietà e indipendenza del giudice.

Peraltro, ad avviso della Corte rimettente, il fatto che con la legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1 (Modifiche agli articoli 9 e 41 della Costituzione in materia di tutela dell'ambiente), la tutela dell'ambiente sia stata espressamente inserita nelle previsioni di cui all'art. 9 Cost. non implicherebbe un suo rafforzamento tale da farla necessariamente prevalere sul diritto di difesa e sul diritto a un giudice terzo e imparziale. Tutela dell'ambiente e tutela del paesaggio sarebbero dunque due aspetti di una fattispecie unitaria, in relazione alla quale la novella del 2022 non avrebbe avuto portata realmente innovativa, ma si sarebbe limitata ad affermare in modo esplicito alcuni princìpi già presenti in Costituzione (a sostegno di tale posizione la Corte d'appello di Roma richiama la stessa sentenza n. 46 del 1995 di questa Corte, nella quale già si faceva riferimento a «una tutela del paesaggio improntata a integrità e globalità», intesa quale sinonimo di tutela ambientale).

1.10.- Infine, la Corte rimettente si premura di escludere la praticabilità di un'interpretazione adeguatrice dell'art. 29, secondo comma, della legge n. 1766 del 1927, dal momento che la stessa le appare esclusa dalla citata sentenza n. 46 del 1995.

1.11.- Sulla scorta di tali premesse, la Corte d'appello di Roma, sezione speciale per gli usi civici, solleva, in riferimento agli artt. 24, 111 e 117 Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6 CEDU e all'art. 47 CDFUE, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 29, secondo comma, della legge n. 1766 del 1927, nella parte in cui consente al commissario agli usi civici di iniziare d'ufficio i procedimenti giudiziari che egli stesso dovrà decidere.

2.- Con atto depositato in data 28 gennaio 2025 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le sollevate questioni siano dichiarate inammissibili o, in subordine, non fondate.

2.1.- In via preliminare, l'interveniente ha eccepito l'inammissibilità delle questioni per due differenti profili.

2.1.1.- In primo luogo, l'ordinanza di rimessione sarebbe affetta da carenza di motivazione pel profilo della non manifesta infondatezza.

Il giudice rimettente si sarebbe limitato a desumere la ritenuta illegittimità costituzionale della norma censurata dal mero passaggio del tempo rispetto alla sentenza di questa Corte n. 46 del 1995 e all'espressa previsione della transitorietà della soluzione allora adottata.

Il vizio motivazionale sarebbe evidente con riferimento alla considerazione dei parametri costituzionali evocati, posto che il rimettente si sarebbe limitato a indicarli, omettendo qualsiasi argomentazione in proposito.

Nell'ordinanza vi sarebbe un unico, breve e cumulativo, riferimento «al diritto dei cittadini a difendersi nel processo e ad essere giudicati in condizioni di parità da un giudice terzo e imparziale, che non coltivi un pregiudizio circa l'accertamento dei fatti oggetto del processo», che, ad avviso della difesa erariale, risulterebbe privo di un oggettivo aggancio con la restante parte della motivazione.

L'Avvocatura dello Stato ricorda che, giusta la giurisprudenza di questa Corte, i parametri costituzionali che si ritengono violati devono essere evocati in maniera non apodittica e generica e devono essere specificati i motivi che dimostrerebbero la violazione delle norme costituzionali, a pena di manifesta inammissibilità delle questioni proposte.

La Corte d'appello avrebbe dunque omesso un'autonoma motivazione quanto al requisito della non manifesta infondatezza.

2.1.2.- In secondo luogo, le questioni sarebbero inammissibili poiché postulerebbero una pronuncia additiva per di più in ambito processuale, riservato all'esclusiva discrezionalità del legislatore.

L'Avvocatura dello Stato, peraltro, sostiene che il giudice a quo avrebbe sollecitato questa Corte a adottare in primis una sentenza demolitoria, salvo poi invocare una pronuncia additiva, ciò che non sarebbe consentito dalla giurisprudenza di questa Corte sul petitum incerto e contraddittorio.

La difesa del Presidente del Consiglio evidenzia che condizione per l'ammissibilità di una pronuncia additiva è che per la fattispecie non regolata dal legislatore - e per la quale non è possibile colmare la lacuna in via interpretativa - sia individuabile una sola soluzione conforme a Costituzione. Qualora la lacuna normativa potesse essere invece colmata con un ventaglio di diverse soluzioni, l'intervento additivo sarebbe precluso dall'art. 28 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale).

Ad avviso dell'Avvocatura dello Stato, l'ordinanza di rimessione non avrebbe ricostruito la norma nella sua dimensione costituzionale, in modo da rendere evidenti le ragioni dell'assenza di discrezionalità legislativa e della sussistenza di una sola soluzione costituzionalmente conforme.

L'Avvocatura sostiene in proposito che, ove i dubbi di costituzionalità fossero ritenuti fondati, il legislatore avrebbe discrezionalità nell'individuare l'organo statale cui attribuire poteri di iniziativa in materia di usi civici rispettosi dei princìpi costituzionali di terzietà e indipendenza del giudice.

2.2.- Nel merito, la difesa del Presidente del Consiglio deduce la non fondatezza delle questioni sottoposte allo scrutinio di questa Corte.

2.2.1.- All'illustrazione delle ragioni di non fondatezza la difesa erariale fa precedere un sintetico excursus sull'istituto degli usi civici, teso a evidenziare la significativa evoluzione normativa che nel tempo l'ha riguardato.

2.2.2.- In merito al parametro dell'art. 111 Cost., l'Avvocatura sostiene che il bilanciamento operato da questa Corte con la sentenza n. 46 del 1995, in cui si affermava che il potere del commissario agli usi civici di procedere d'ufficio all'accertamento giurisdizionale dei diritti demaniali collettivi potesse ritenersi conforme alla Costituzione sulla base di un criterio di legittimità transitoria, meriti di essere ribadito e attualizzato innanzitutto alla luce della nuova posizione del bene ambiente determinata, nel quadro costituzionale, dal novellato art. 9 Cost.

La difesa del Presidente del Consiglio dei Ministri afferma che la legge cost. n. 1 del 2022 «aggiunge» alla tutela del paesaggio la tutela dell'ambiente, sussumendola, sul piano letterale e sistematico, come oggetto di una disposizione autonoma e additiva, per l'appunto il terzo comma dell'art. 9 Cost.

Ad avviso dell'interveniente, la scelta del legislatore costituzionale rifletterebbe, sul piano storico e teleologico, una posizione culturale particolarmente avanzata in riferimento al bene ambiente e alla sua tutela: l'ambiente verrebbe infatti declinato non solo, in un'ottica ancora squisitamente antropocentrica, come ambito in cui si svolge l'esistenza umana (e quindi in connessione con il bene-paesaggio e con il bene-salute, secondo la tradizionale elaborazione giurisprudenziale), ma anche nei suoi ulteriori corollari della biodiversità e degli ecosistemi e in una prospettiva intergenerazionale.

Secondo la difesa del Presidente del Consiglio dei ministri, pertanto, la novella legislativa, lungi dall'esaurirsi nella portata meramente ricognitiva supposta dal rimettente, assumerebbe una chiara portata innovativa, che «impone» l'assunzione di un nuovo, duplice, parametro di scrutinio per l'operazione di bilanciamento dei beni costituzionali contrapposti rispetto al bene ambiente: quello della solidarietà fra le specie (biodiversità ed ecosistemi) e quello della solidarietà intergenerazionale (interesse delle future generazioni), ex se rilevanti indipendentemente dalla configurabilità di una situazione di diritto soggettivo concreta e attuale che il bene ambiente venga ad assumere come oggetto.

In tale quadro, ad avviso dell'Avvocatura, sarebbe evidente che, qualora dovesse essere dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 29, secondo comma, della legge n. 1766 del 1927 e, di conseguenza, dovesse venir meno il potere di iniziativa officiosa del commissario agli usi civici, non vi sarebbe alcun altro organo statale legittimato ad agire in via preventiva per la tutela di tale forma di proprietà collettiva, con conseguente inevitabile frustrazione della tutela dei beni del paesaggio e dell'ambiente, ove si eccettui la meramente eventuale attivazione degli enti territoriali e dei terzi interessati.

Nell'atto di intervento si osserva pertanto che la tutela effettiva dell'uso civico e dei beni-interessi che vi sono sottesi - quali il paesaggio e l'ambiente - rimarrebbe così confinata alla responsabilità risarcitoria ex post, una volta che, in ipotesi, il bene sia stato compromesso, e che ciò comporterebbe di fatto, quanto alla materia degli usi civici, la cancellazione della portata innovativa dell'art. 9 Cost., ovvero de «la tutela dell'ambiente anche nell'interesse delle future generazioni», la quale esigerebbe che l'ambiente sia mantenuto integro affinché le nuove generazioni possano fruirne in condizioni di parità rispetto alle generazioni attuali.

Secondo la difesa del Presidente del Consiglio dei ministri, pertanto, sarebbe ragionevole che il giudizio di bilanciamento fra la salvaguardia dell'ambiente sottesa agli usi civici e al sistema di tutela di cui all'art. 29, secondo comma, della legge n. 1766 del 1927, da un lato, e la tutela del contrapposto diritto al giudice terzo e imparziale, dall'altro (sul punto, l'atto di intervento richiama le sentenze di questa Corte n. 46 del 1993 [recte: 1995], n. 133 del 1993 e n. 113 del 2018), deponga per la prevalenza della prima esigenza e per la conservazione della norma censurata, anche nella considerazione che, a fronte di un sacrificio certo e irreparabile di detta esigenza derivante dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 29, secondo comma, e dunque dal «depotenziamento» dell'attuale assetto del sistema di tutela dell'uso civico, la seconda esigenza subirebbe un sacrificio pressoché nullo, ove si considerino: i) la natura e la funzione esclusivamente giurisdizionali del commissario agli usi civici (nell'impianto della legge n. 1766 del 1927 il commissario assommava in sé sia le funzioni amministrative sia le funzioni giurisdizionali in materia di usi civici; con l'art. 66 del d.P.R. n. 616 del 1977 le funzioni amministrative in materia sono state trasferite alle regioni, cosicché il commissario agli usi civici opera ormai come organo giurisdizionale speciale relativamente alle controversie affidategli ai sensi dell'art. 29, secondo comma, della legge n. 1766 del 1927, cioè a quelle aventi a oggetto l'esistenza, la natura e l'estensione dei diritti di uso civico, ivi comprese quelle in cui si contesta la qualità demaniale del bene); ii) la garanzia dell'imparzialità, che può ritenersi assicurata dall'estrazione del titolare dell'organo, scelto fra i magistrati ordinari in forza dell'art. 27 della legge n. 1766 del 1927.

Infine, secondo l'Avvocatura, l'ulteriore profilo di «rilevanza costituzionale» degli usi civici si dedurrebbe dalla legge n. 168 del 2017, ove essi sono considerati parte integrante degli interessi delle formazioni sociali in cui si svolge la personalità umana ai sensi dell'art. 2 Cost., interessi la cui ponderazione sarebbe stata del tutto pretermessa dal giudice rimettente nella delibazione della non manifesta infondatezza e ulteriormente lo sarebbe nel caso della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 29, secondo comma, della legge n. 1766 del 1927.

2.2.3.- Nell'atto di intervento si precisa che le considerazioni svolte con riferimento al parametro di cui all'art. 111 Cost. in tema di bilanciamento escluderebbero l'illegittimità costituzionale dell'art. 29, secondo comma, della legge n. 1766 del 1927 anche con riferimento al diritto di difesa tutelato dall'art. 24 Cost., ove si consideri che nel procedimento che si svolge dinanzi al commissario agli usi civici sono garantiti il contraddittorio fra le parti nonché il secondo grado di giudizio, essendo la sentenza emessa dal commissario impugnabile innanzi la Corte d'appello (art. 32 della legge n. 1766 del 1927 e art. 33 del d.lgs. n. 150 del 2011) ed essendolo con ricorso per cassazione la pronuncia di quest'ultima.

2.2.4.- Quanto al parametro dell'art. 117 Cost., in relazione all'art. 6 CEDU e all'art. 47 CDFUE, la difesa del Presidente del Consiglio dei ministri si limita a osservare che le norme evocate affermano rispettivamente il diritto di difesa del singolo individuo - già tutelato dall'art. 24 Cost. - e il diritto a un giudice terzo e imparziale - già tutelato dall'art. 111 Cost., sicché varrebbero anche per tale parametro le considerazioni svolte con riferimento agli artt. 111 e 24 Cost.

3.- Si è costituita in giudizio Autostrade per l'Italia spa, la quale, dopo una breve premessa in fatto e una ricostruzione della giurisprudenza di questa Corte a suo avviso rilevante per la questione di che trattasi, sottolinea che nella sentenza n. 46 del 1995 i poteri d'ufficio del commissario agli usi civici sono giustificati solo in via transitoria in vista di una nuova disciplina legislativa «improntata a una rigorosa tutela della terzietà del giudice» e sulla base di una opzione valoriale in base alla quale il temporaneo sacrificio della terzietà del giudice è preferibile al difetto di tutela dei beni paesaggistici, cui altrimenti non sarebbe abilitato alcun organo dello Stato (la stessa giustificazione si troverebbe nelle successive pronunce di questa Corte: sentenze n. 131 (recte: n. 113) del 2018, n. 240 del 2003, n. 345 del 1997 e ordinanza n. 21 del 2014).

Autostrade per l'Italia spa afferma che il legislatore non ha tuttavia affrontato la questione neppure con la legge n. 168 del 2017 e conclude sostenendo che, a distanza di trent'anni, i poteri del commissario censurati dal rimettente non potrebbero ancora sopravvivere in ragione del criterio dell'attesa di una riforma legislativa che il Parlamento non sembrerebbe intenzionato a realizzare.

Nell'atto di costituzione, inoltre, si evidenzia che le pronunce di legittimità costituzionale provvisoria trovano giustificazione in situazioni transitorie, di norma eccezionali, mentre nel caso in esame sono decorsi trent'anni e l'attesa potrebbe protrarsi ulteriormente.

Infine, Autostrade per l'Italia spa sottolinea che le preoccupazioni espresse quanto al venir meno dei poteri d'ufficio, in relazione alla paventata impossibilità dello Stato di tutelare efficacemente gli assetti fondiari collettivi, i domini collettivi o gli usi civici, sarebbero inesistenti, perché la legge n. 168 del 2017 avrebbe sostanzialmente privatizzato i domini collettivi, rendendoli più agili e dunque maggiormente capaci di proporre autonomamente azioni giudiziarie a difesa delle relative aree. Inoltre, sarebbe diffusa la legittimazione a proporre un'azione volta a far dichiarare la natura civica di un determinato bene. Infine, a parere di Autostrade spa, l'interesse, dalla stessa legge n. 168 del 2017 riconosciuto come proprio della collettività generale, alla conservazione degli usi civici per contribuire alla salvaguardia dell'ambiente e del paesaggio, legittimerebbe alla tutela degli usi civici anche le associazioni ambientaliste nell'ottica della sussidiarietà orizzontale, come riconosciuto dai giudici amministrativi.

4.- Ha fatto pervenire un'opinione scritta quale amicus curiae la Federazione nazionale dei domini collettivi. Essa è stata depositata solo in data 18 aprile 2025, oltre il termine perentorio di venti giorni dalla data di pubblicazione dell'ordinanza di rimessione nella Gazzetta Ufficiale (8 gennaio 2025), stabilito, a pena di inammissibilità, dall'art. 6, comma 1, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

5.- In data 29 aprile 2025 Autostrade per l'Italia spa ha depositato una memoria con la quale, dopo aver ripercorso brevemente i fatti di causa e oltre a dedurre nel merito, introduce argomenti a sostegno dell'ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte d'appello di Roma sia pel profilo della rilevanza sia pel profilo della motivazione in punto di non manifesta infondatezza.

In particolare, Autostrade per l'Italia spa sostiene che il giudice a quo avrebbe espressamente e correttamente accertato che la soluzione delle questioni di legittimità costituzionale è essenziale per la definizione del giudizio, essendo connessa direttamente alla stessa sussistenza del potere di avviare e definire il giudizio, evidenziando che nell'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri non era stata fornita alcuna indicazione di segno contrario. Prosegue sottolineando che non poteva essere altrimenti, essendo evidente che la caducazione della norma censurata farebbe venire meno ab initio qualsivoglia attribuzione di potere in capo al Commissario, con effetto demolitorio di tutti gli atti precedentemente posti in essere.

Per quanto riguarda l'eccezione di difetto di motivazione in punto di non manifesta infondatezza sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri, Autostrade per l'Italia spa sostiene che la Corte d'appello di Roma avrebbe indicato chiaramente sia i parametri costituzionali violati dall'art. 29, secondo comma, della legge n. 1766 del 1927 sia le ragioni del contrasto fra la norma oggetto del dubbio di costituzionalità e le norme costituzionali di riferimento.

Più nello specifico, il giudice rimettente avrebbe evidenziato la violazione degli artt. 111 e 24 Cost. per il dirimente profilo dell'illegittima attribuzione al commissario di poteri di iniziativa d'ufficio in contrasto con i princìpi di terzietà e imparzialità.

Nella memoria si evidenzia che il giudice a quo avrebbe svolto il proprio iter argomentativo in base alla premessa dell'impossibilità di una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 29, secondo comma, della legge n. 1766 del 1927, che sarebbe stato costantemente "letto" da questa Corte come una norma in contrasto con i parametri costituzionali richiamati nell'ordinanza di rimessione.

Secondo Autostrade per l'Italia spa, pertanto, la Corte d'appello di Roma avrebbe ampiamente motivato il profilo dell'ammissibilità delle questioni quanto al contrasto tra l'art. 29, secondo comma, della legge n. 1766 del 1927 e gli artt. 24, 111 e 117 Cost., non potendo sorgere alcun dubbio sulle questioni di legittimità sottoposte all'esame di questa Corte e, di conseguenza, sul thema decidendum del giudizio costituzionale.

Autostrade per l'Italia spa prosegue affermando che, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa del Presidente del Consiglio dei ministri, la Corte d'appello di Roma avrebbe richiesto una pronuncia puramente demolitoria, limitata alla dichiarazione dell'illegittimità costituzionale dell'art. 29, secondo comma, della legge n. 1766 del 1927, nella parte in cui prevede il potere officioso del commissario.

Il giudice a quo avrebbe pertanto richiesto di accertare l'illegittimità costituzionale del permanere della "temporaneità" della soluzione offerta da questa Corte nel 1995, tenuto conto del contrasto del potere officioso attribuito al commissario col principio del giusto processo.

Autostrade per l'Italia spa segnala, per mero tuziorismo difensivo, che anche ove la pronuncia richiesta fosse di tipo additivo la censura di legittimità costituzionale sarebbe comunque ammissibile, alla luce della giurisprudenza di questa Corte che, nel caso di moniti al legislatore rimasti inascoltati, non ha esitato a adottare sentenze additive, evitando la determinazione di ulteriori pregiudizi (si richiama la sentenza n. 236 del 2016).

Nel merito, per quanto riguarda l'art. 111 Cost., Autostrade per l'Italia spa sostiene che, nel caso di specie, non sussisterebbe la stretta connessione fra usi civici e tutela dell'ambiente prospettata dall'Avvocatura.

La società ricorda che la disciplina degli usi civici è storicamente connessa alla gestione dominicale dei beni collettivi e delle risorse da questi ricavabili, non alla loro tutela e conservazione pel profilo della cura e della salvaguardia ambientale o paesaggistica, evidenziando che la stessa legge del 1927, novellata più volte nel corso degli anni, non contiene alcun richiamo ai termini «ambiente» e «paesaggio».

Sul punto, Autostrade per l'Italia spa evidenzia che la disciplina degli usi civici è stata recentemente ricondotta da questa Corte alla materia «ordinamento civile», di cui all'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. (si richiama la sentenza n. 113 del 2018, resa su una questione relativa al riparto di competenze tra Stato e regioni).

Per altro profilo, l'estraneità degli usi civici alla tutela dell'ambiente e del paesaggio sarebbe confermata dallo sviluppo, nell'ordinamento, di atti normativi - quali ad esempio il codice dell'ambiente e il codice dei beni culturali e del paesaggio - che sarebbero più idonei a tutelare l'ambiente di quanto non sia la normativa concernente gli usi civici. Nella memoria si sottolinea che, infatti, al commissario non sarebbe confidato alcun potere di valutazione dei profili ambientali o del paesaggio e che la corretta prospettiva entro la quale andrebbe inquadrata la disciplina degli usi civici sarebbe quella «dominicale».

Ad avviso di Autostrade per l'Italia spa, il mero richiamo agli usi civici, introdotto con l'art. 1, lettera h), della legge n. 431 del 1985 (ora art. 142, comma 1, lettera h, del d.lgs. n. 42 del 2004), non inciderebbe nella tipologia dei poteri conferiti al commissario dalla legge n. 1766 del 1927.

La società sostiene che la permanenza dell'art. 29 nell'ordinamento produrrebbe effetti irragionevoli, come sarebbe dimostrato proprio dal giudizio a quo, nel quale la decisione adottata dal Commissario avrebbe conseguenze irrimediabili sull'infrastruttura autostradale (cioè sull'autostrada A1, che sarebbe oggetto di demolizione), oggi in concessione ad Autostrade per l'Italia spa.

Inoltre, la società sostiene che le argomentazioni svolte dall'Avvocatura a difesa del potere officioso del commissario si porrebbero in diretto contrasto con il principio del giusto processo.

Nella memoria si richiamano le sentenze di questa Corte n. 179 e n. 93 del 2024, n. 172 del 2023, n. 64, n. 16 e n. 7 del 2022, a tenor delle quali occorre escludere che il giudice possa pronunciarsi quando è condizionato dalla «forza della prevenzione», cioè «dalla tendenza a confermare una decisione o a mantenere un atteggiamento già assunto, derivante da valutazioni che sia stato precedentemente chiamato a svolgere in ordine alla medesima res iudicanda» e ad assicurare «che le funzioni del giudicare siano assegnate a un soggetto "terzo", scevro di interessi propri che possano far velo alla rigorosa applicazione del diritto e anche sgombro da convinzioni precostituite in ordine alla materia su cui pronunciarsi» (in particolare, sentenza n. 172 del 2023).

Nella memoria si sottolinea che il giudice non può quindi essere realmente terzo e imparziale se, come accadrebbe per il Commissario agli usi civici, ha maturato un pre-giudizio in merito alle questioni sulle quali è chiamato a pronunciarsi.

Sussisterebbe poi una palese violazione dell'art. 24 Cost., nei termini ricostruiti da questa Corte nella sentenza n. 133 del 1993, ove si legge che il dubbio di legittimità costituzionale del censurato art. 29 è proponibile «anche con riguardo all'art. 24, secondo comma, della Costituzione coordinato con l'art. 3: nel nostro caso la deroga alla regola di terzietà del giudice tocca il diritto di difesa alterando la normale dialettica processuale, sia perché la domanda introduttiva del giudizio, formulata dallo stesso giudice, prefigura il contenuto della decisione, sia perché il contraddittorio non si instaura in condizioni di parità tra le parti del rapporto sostanziale, bensì tra queste, da un lato, e il giudice dall'altro».

Infine, Autostrade per l'Italia spa evidenzia che, per i profili di terzietà e imparzialità del giudice, l'art. 6 CEDU è stato al centro di un'ampia elaborazione giurisprudenziale da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo, che renderebbe ineludibile l'obbligo di interpretazione conforme alla Convenzione ai sensi dell'art. 117 Cost., come ricostruito dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, precisando che nel caso di specie non rileverebbe la questione, pure affrontata dalla Corte, relativa alla possibilità di escludere una violazione della Convenzione stessa qualora il procedimento innanzi all'organo della cui imparzialità si dubita sia soggetto a un ulteriore controllo da parte di un organo giurisdizionale che abbia full jurisdiction e fornisca le garanzie di cui all'art. 6, paragrafo 1, CEDU (si richiama Corte europea dei diritti dell'uomo, prima sezione, sentenza 4 ottobre 2007, Forum Maritime S.A. contro Romania; grande camera, sentenza 28 maggio 2002, Kingsley contro Regno unito). Nei casi esaminati la Corte EDU avrebbe infatti chiarito che la full jurisdiction presupporrebbe che il giudice del gravame sia competente ad annullare la decisione impugnata per difetto di terzietà e imparzialità e a rinviare la questione, per una nuova decisione, a un organo terzo e imparziale. Detta condizione, ritiene la società, non si verificherebbe nel caso di specie, poiché la Corte d'appello potrebbe al più rimettere la causa dinanzi al medesimo Commissario agli usi civici, venendo così a mancare l'elemento essenziale della piena giurisdizione e confermandosi, quindi, la violazione dell'art. 6 CEDU.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe (reg. ord. n. 241 del 2024) la Corte d'appello di Roma, sezione speciale per gli usi civici, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell'art. 29, secondo comma, della legge n. 1766 del 1927, in riferimento agli artt. 24, 111 e 117 Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6 CEDU e all'art. 47 CDFUE, laddove, a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale da parte di questa Corte con la sentenza n. 46 del 1995, consente al commissario agli usi civici di avviare d'ufficio i procedimenti giudiziari ch'egli stesso dovrà successivamente definire.

1.1.- La Corte d'appello di Roma riferisce di essere chiamata a decidere sull'impugnazione da parte della società Autostrade per l'Italia spa della sentenza 4 aprile 2022, n. 67, del Commissario per la liquidazione degli usi civici per le Regioni Toscana, Lazio e Umbria, che, fra l'altro, ha dichiarato l'appartenenza alla «proprietà collettiva dei naturali di Anagni» di alcuni fondi in ragione del loro inserimento entro il perimetro originario della cosiddetta Selva Grande, o anche bosco di Anagni.

1.2.- La Corte rimettente riferisce che il gravame di Autostrade per l'Italia spa era affidato a cinque motivi e che vi si prospettava l'illegittimità costituzionale del menzionato art. 29, primo comma, della legge n. 1766 del 1927, nella parte in cui prevede l'iniziativa d'ufficio del commissario agli usi civici.

Soggiunge che il Comune di Anagni e la Regione Lazio avevano chiesto il rigetto del reclamo.

1.3.- Tanto premesso, la Corte d'appello di Roma ritiene, in primis, che le questioni di legittimità costituzionale debbano essere più correttamente riferite al secondo comma dell'art. 29, relativo ai poteri giurisdizionali del commissario.

1.4.- Motiva, poi, sui presupposti di promovimento delle questioni di legittimità costituzionale prospettate dalla parte privata.

In punto di rilevanza, assume che al fine della decisione sul gravame sarebbe decisivo lo scioglimento del dubbio sulla legittimità costituzionale della norma censurata, poiché l'accoglimento delle questioni sollevate porrebbe nel nulla tutte le pregresse attività del Commissario.

1.5.- In punto di non manifesta infondatezza, la Corte rimettente formula talune notazioni ricostruttive del quadro normativo e giurisprudenziale, osservando in particolare che con la già menzionata sentenza n. 46 del 1995 questa Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 29, secondo comma, della legge n. 1766 del 1927, nella parte in cui non consentiva la permanenza del potere del commissario agli usi civici di esercitare d'ufficio la sua giurisdizione pur dopo il trasferimento alle regioni delle funzioni amministrative previste dal primo comma dell'articolo medesimo.

In quella occasione - segnala la Corte d'appello di Roma - si era evidenziato che in mancanza del potere officioso di iniziativa processuale del commissario nessun organo statale sarebbe stato abilitato ad agire in via preventiva per la tutela dell'interesse della collettività generale alla conservazione dell'ambiente.

La Corte rimettente, peraltro, osserva che in quella occasione si era affermato che la confluenza nel commissario regionale di funzioni di impulso processuale e di funzioni giudicanti poteva essere solo transitoriamente giustificata in vista di una nuova disciplina legislativa improntata a una rigorosa tutela della terzietà del giudice.

1.6.- Alla luce di tali premesse ricostruttive, la Corte d'appello di Roma ritiene che siano maturi i tempi per una rimeditazione delle statuizioni della citata sentenza n. 46 del 1995, onde evitare una permanente violazione del diritto di difesa e del diritto a un giudice terzo e imparziale.

1.7.- Il giudice a quo assume che l'iniziativa d'ufficio del commissario agli usi civici contrasterebbe con gli artt. 24, 111 e 117 Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6 CEDU e all'art. 47 CDFUE, ed esclude la praticabilità di un'interpretazione adeguatrice della norma censurata.

2.- È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri e si è costituita in giudizio la società Autostrade per l'Italia spa.

3.- La difesa del Presidente del Consiglio oppone all'ammissibilità delle questioni due eccezioni.

3.1.- Per la prima, esse sarebbero inammissibili per carenza di motivazione sulla non manifesta infondatezza, in quanto la Corte rimettente si sarebbe limitata a desumere la ritenuta illegittimità costituzionale della norma censurata dal mero passaggio del tempo rispetto alla sentenza n. 46 del 1995, senza soffermarsi sui parametri costituzionali invocati.

Per la seconda, esse sarebbero inammissibili perché sarebbe stata richiesta (peraltro con itinerario argomentativo incerto e contraddittorio) una pronuncia additiva in difetto dei presupposti che la legittimerebbero.

3.2.- Nessuna delle surriferite eccezioni è fondata.

Non la prima. Vero è che la questione di legittimità costituzionale è posta più nella forma dell'esegesi delle pronunce di questa Corte e dell'identificazione della nozione di «transitorietà» ivi utilizzata che in quella della dimostrazione del contrasto fra la norma censurata e i parametri costituzionali, ma non è meno vero che, per quanto intermediato da questa inusuale forma argomentativa, il confronto fra la norma censurata e i parametri evocati non manca.

Non la seconda. Il petitum dell'ordinanza è infatti sufficientemente chiaro e quella richiesta dal rimettente è - essenzialmente - un'ablazione del frammento di norma che consente al commissario agli usi civici di esercitare un potere di impulso processuale officioso.

Tanto la prima quanto la seconda eccezione devono pertanto essere respinte.

4.- La problematica agitata nell'atto introduttivo del presente giudizio non è ignota a questa Corte, che più volte ha avuto modo di pronunciarsi sul potere di iniziativa processuale in capo al commissario agli usi civici in riferimento ai giudizi che lo stesso è chiamato a definire in qualità di giudice.

Già la sentenza n. 73 del 1970 decise una questione incidentale di legittimità costituzionale avente a oggetto gli artt. 27, primo e ultimo comma, e 29, secondo comma, della legge n. 1766 del 1927, in riferimento agli artt. 108, secondo comma, e 25 Cost. Questa Corte era allora chiamata a «rispondere ai quesiti: se sono garantite l'indipendenza e l'imparzialità del commissario, in quanto titolare e nell'esercizio delle funzioni giurisdizionali, per il fatto che allo stesso organo sono assegnate o dalla stessa persona fisica vengono esercitate funzioni amministrative, ed in particolare perché il commissario giudica dopo che in sede amministrativa abbia ispezionato i luoghi in contesa o nominato un istruttore perito (in sede di verifica demaniale) o delibato, senza modifiche, il progetto di legittimazione, o disposto la pubblicazione del progetto, o respinto le opposizioni al progetto e disposto la legittimazione». A tal proposito, si osservò che «[l]a circostanza che il commissario sia chiamato a giudicare e giudichi dopo che nella materia, in ordine alla quale è insorta la controversia, abbia compiuto atti nello svolgimento delle sue funzioni amministrative, non deve far ritenere che il commissario quale giudice non sia indipendente ovvero manchi o sia messa in pericolo o in forse la sua imparzialità», aggiungendo - ciò che maggiormente rileva al fine della pronuncia sul caso che oggi ci occupa - che «[è] possibile [...] constatare che l'attività giurisdizionale non è condizionata nei suoi contenuti da quella amministrativa svolta in precedenza; e che (a conferma di ciò), in fase giurisdizionale, sul terreno probatorio il commissario può esercitare d'ufficio un potere inquisitorio o d'iniziativa e che comunque le opposizioni lo richiamano in sede giurisdizionale a nuove valutazioni in relazione ai vizi di attività che gli sono stati denunciati e sui quali deve esprimere esclusivamente la volontà della legge riferita al caso concreto». La sovrapposizione della funzione giudicante a quella di iniziativa processuale - dunque - non fu ritenuta fonte di un vizio di legittimità costituzionale delle norme che la prevedevano.

La sentenza n. 398 del 1989 fece adesivo richiamo alla pronuncia ora indicata, osservando che «[p]ur formulata in ordine al primo comma dell'art. 27 della legge n. 1766 del 1927, la ratio decidendi di quella sentenza investiva complessivamente lo statuto istituzionale della figura del Commissario liquidatore, che è quello di un magistrato ordinario, assistito dalle garanzie costituzionali dell'ordine giudiziario [...]».

La sentenza n. 133 del 1993 (intervenuta dopo la sentenza n. 395 del 1992, che fu meramente processuale) si pronunciò su una questione analoga a quella oggetto dell'odierno giudizio, a fronte di un'ordinanza delle sezioni unite civili della Corte di cassazione che aveva «sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 29, primo comma, della legge 16 giugno 1927, n. 1766, "nella parte in cui prevede che i giudizi davanti ai commissari degli usi civici possano essere promossi anche di ufficio", per contrasto con gli artt. 24, primo e secondo comma, 101 e 118, primo e secondo comma, della Costituzione». In quella occasione si mise in luce lo stretto collegamento fra poteri commissariali e tutela dell'ambiente e del paesaggio: «[a]ccanto agli interessi locali, di cui sono diventate esponenti le regioni, emerge l'interesse della collettività generale alla conservazione degli usi civici nella misura in cui essa contribuisce alla salvaguardia dell'ambiente e del paesaggio. Il potere dei commissari di provvedere d'ufficio alla tutela giurisdizionale non è riferibile se non a siffatto interesse - sancito dall'art. 1 della legge 8 agosto 1985, n. 431, che ha assoggettato a vincolo paesaggistico le zone gravate da usi civici - e, con esso, indirettamente, anche all'interesse delle popolazioni titolari dei diritti civici, non sempre coincidente con gli interessi particolari portati dall'amministrazione regionale».

La titolarità di un potere processuale d'impulso, nondimeno, apparve problematica, poiché «la deroga alla regola di terzietà del giudice tocca il diritto di difesa alterando la normale dialettica processuale, sia perché la domanda introduttiva del giudizio, formulata dallo stesso giudice, prefigura il contenuto della decisione, sia perché il contraddittorio non si instaura in condizioni di parità tra le parti del rapporto sostanziale, bensì tra queste, da un lato, e il giudice dall'altro», ma la Corte non ritenne di approdare a «una soluzione meramente caducatoria, che riserverebbe il potere di azione alle popolazioni interessate e alle regioni», poiché il contemperamento dell'interesse alla protezione dell'ambiente (e del paesaggio) e dell'interesse ad assicurare la terzietà del giudice avrebbe implicato «una invasione della sfera delle scelte riservate alla discrezionalità del legislatore», potendo «avvenire secondo una pluralità di varianti». Non solo: «indipendentemente dalle possibili varianti», si sarebbe trattato «di un intervento nell'organizzazione della giustizia manifestamente estraneo ai poteri di questa Corte».

A tale pronuncia fece seguito la sentenza n. 46 del 1995, sulla quale le parti si sono ampiamente soffermate e che riveste importanza particolare per la definizione del presente giudizio. In quella occasione questa Corte mosse dalla presa d'atto della «revisione interpretativa dell'art. 29 della legge sugli usi civici, operata dalla Corte di cassazione con la sentenza [28 gennaio 1994, n. 858] (e altre quattro di pari data, nn. 859, 860, 861, 862) in relazione all'art. 66 del d.P.R. n. 616 del 1977, e confermata dalle Sezioni unite con le sentenze nn. 2131, 3690, 4394, 7913 e 9287 del 1994». Una «revisione interpretativa» in forza della quale la Corte di cassazione era giunta a escludere il potere di impulso processuale in capo al commissario agli usi civici. Si poneva pertanto il problema, allora, della legittimità costituzionale del censurato art. 29 alla luce delle considerazioni che già la precedente giurisprudenza di questa Corte aveva svolto in riferimento all'essenzialità dell'intervento commissariale al fine di un'idonea tutela del bene ambiente. La sentenza n. 46 del 1995 ribadì che «la sovrapposizione fra tutela del paesaggio e tutela dell'ambiente si riflette in uno specifico interesse unitario della comunità nazionale alla conservazione degli usi civici», aggiungendo che si trattava di un interesse «di cui è portatore lo Stato, inconfondibile con gli interessi locali di cui sono esponenti le Regioni». Rilevò, poi, che «dagli artt. 9 e 32 Cost. non discende, come soluzione costituzionalmente obbligata, l'attribuzione al commissario di un potere di impulso processuale» e che, anzi, la stessa sentenza n. 133 del 1993 aveva «manifestato dubbi non lievi in merito alla correttezza di questa soluzione, specialmente sotto il profilo dell'art. 24, secondo comma, Cost.», sollecitando il legislatore a intervenire adottando soluzioni diverse dal conferimento al commissario agli usi civici del potere di impulso processuale. Nondimeno, aggiunse, «tra la situazione ordinamentale attuale che, violando il principio della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi, non abilita alcun organo dello Stato ad agire davanti ai commissari agli usi civici per la salvaguardia dell'interesse della comunità nazionale alla conservazione dell'ambiente naturale nelle terre civiche soggette a vincolo paesaggistico, e la situazione anteriore, nella quale - con incerta legittimità dal punto di vista dell'art. 24, secondo comma, Cost., ma in aderenza alle esigenze di tutela ambientale poste dagli artt. 9 e 32 Cost. - il potere di iniziativa processuale era attribuito agli stessi commissari, è preferibile allo stato la seconda, giusta un criterio di legittimità costituzionale provvisoria più volte applicato da questa Corte, "in attesa del riordino generale della materia degli usi civici" preannunciato dall'art. 5 della legge 4 dicembre 1993, n. 491». Con la conseguenza che «la confluenza nel giudice anche di funzioni di impulso processuale può essere transitoriamente giustificata in vista di una nuova disciplina legislativa improntata a una "rigorosa tutela della terzietà del giudice" (cfr. in un contesto analogo, sentenze nn. 268 del 1986 e 172 del 1987)» e che doveva essere «dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 29, secondo comma, della legge n. 1766 del 1927, nella parte in cui non consente la permanenza del potere del commissario agli usi civici di esercitare d'ufficio la propria giurisdizione pur dopo il trasferimento alle Regioni delle funzioni amministrative previste dal primo comma dell'articolo medesimo».

Di tale importante pronuncia questa Corte confermò ripetutamente le statuizioni.

Con l'ordinanza n. 117 del 1995, che si limitò a ricordare la precedente declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 29, secondo comma, della legge n. 1766 del 1927.

Con la sentenza n. 345 del 1997, ove, premesso che «[g]ià con la sentenza n. 133 del 1993 questa Corte aveva avvertito che la giurisdizione ufficiosa in via principale (da tempo divenuta prevalente a causa del rallentamento del programma liquidatorio degli usi civici) riceve nuova autonoma giustificazione dall'interesse della collettività nazionale alla conservazione dell'ambiente, per la cui tutela le zone gravate da usi civici sono sottoposte al vincolo paesaggistico [...]», si ribadì che «[f]ra la situazione, allora vigente, che non abilitava alcun organo dello Stato ad agire davanti ai commissari agli usi civici per la salvaguardia del menzionato interesse costituzionalmente garantito e il potere di iniziativa processuale ad essi attribuito, la Corte ha infatti scelto questa seconda strada "in attesa del riordino generale della materia", preannunciato dall'art. 5 della legge 4 dicembre 1993, n. 491, dimostrandosi consapevole che le funzioni di impulso processuale da parte del giudice si possono giustificare eccezionalmente, perché transitoriamente, in vista di una nuova disciplina improntata al principio della terzietà del giudice», e si concluse nel senso che «[q]uesta Corte non può quindi non ribadire tali argomentazioni, nell'attesa che il legislatore riordini l'intera materia, pure con riguardo ai profili ordinamentali testé menzionati».

Con l'ordinanza n. 21 del 2014, in cui: i) si diede atto che il giudice allora rimettente aveva nuovamente contestato il potere di impulso processuale officioso in capo al commissario, lamentando la violazione dell'art. 111 Cost. e chiedendo «una rivalutazione della compatibilità costituzionale della norma dell'art. 29 della legge n. 1766 del 1927, in considerazione del mutamento del contesto normativo e ordinamentale in cui è inserita la norma censurata»; ii) si riferì che il rimettente aveva individuato le novità normative rilevanti «nell'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e nella nuova formulazione dell'articolo 111 Cost. - introdotta dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 [...]»; iii) si affermò che, invece, «non è ravvisabile la sopravvenienza di alcun mutamento del quadro normativo che sia riconducibile ai due atti richiamati dal giudice rimettente», sia perché la Convenzione europea dei diritti dell'uomo era di gran lunga anteriore alla sentenza n. 46 del 1995 sia perché «il novellato art. 111 Cost. non introduce alcuna sostanziale innovazione o accentuazione dei valori della terzietà e della imparzialità del giudice [...]»; iv) si ricordarono dunque le statuizioni della sentenza n. 46 del 1995 quanto alla transitoria giustificazione del contestato potere commissariale in vista di «una nuova disciplina legislativa improntata a una "rigorosa tutela della terzietà del giudice"»; v) si osservò essere «vero che - nonostante siano passati quasi venti anni dalla sentenza n. 45 del 1995 - tale nuova disciplina legislativa non è ancora intervenuta, mentre si è rafforzato il convincimento dell'inderogabilità del principio di terzietà»; vi) si dichiarò comunque inammissibile la questione perché «il giudizio da cui trae origine la questione di legittimità costituzionale rimessa a questa Corte è stato avviato nel 1993, prima che la norma, avente indubbia natura processuale, fosse messa in discussione dinanzi a questa Corte».

Con la sentenza n. 113 del 2018, infine, nella quale, richiamati i precedenti: i) si osservò come la Corte avesse «evidenziato che la giurisdizione ufficiosa in via principale riceve nuova autonoma giustificazione dall'interesse della collettività nazionale alla conservazione dell'ambiente, per la cui tutela le zone gravate da usi civici sono sottoposte al vincolo paesaggistico (sentenza n. 133 del 1993)»; ii) si precisò che la Corte aveva «scelto di salvaguardare il potere di iniziativa processuale dei Commissari "in attesa del riordino generale della materia", preannunciato dall'art. 5 della legge 4 dicembre 1993, n. 491 (Conferimento alle regioni delle funzioni amministrative in materia di agricoltura e pesca e riorganizzazione dell'Amministrazione centrale), sulla base della consapevolezza che "le funzioni di impulso processuale da parte del giudice si possono giustificare eccezionalmente, purché transitoriamente, in vista di una nuova disciplina improntata al principio della terzietà del giudice" (sentenza n. 345 del 1997)»; iii) si constatò che «[i]l menzionato art. 5 della legge n. 491 del 1993 è stato, tuttavia, abrogato dall'art. 1 del decreto legislativo 4 giugno 1997, n. 143 (Conferimento alle regioni delle funzioni amministrative in materia di agricoltura e pesca e riorganizzazione dell'Amministrazione centrale)»; iv) si ribadì come «il novellato art. 111 Cost. non costituisse un nuovo parametro costituzionale idoneo al superamento del criterio di "legittimità provvisoria" della norma in esame, adottato dalla sentenza n. 46 del 1995»; v) si rilevò che nel caso di specie vi era stato un impulso degli interessati, ma «[f]erma restando la richiamata giurisprudenza di questa Corte in tema di poteri d'ufficio del Commissario».

5.- Questo esame della precedente giurisprudenza di questa Corte sul potere processuale officioso del commissario agli usi civici chiarisce la sostanza della questione ora riproposta. Si tratta di stabilire, infatti, se non si siano esaurite le ragioni che presiedevano alla temporaneità secondo la sentenza n. 46 del 1995 e se il fluire del tempo possa o debba indurre questa Corte a mutare indirizzo. In particolare, se il tempo trascorso sia segnato da eventi normativamente rilevanti, che abbiano determinato un significativo mutamento ordinamentale rispetto alla condizione in cui fu resa la sentenza n. 46 del 1995.

5.1.- Occorre preliminarmente precisare che l'assunzione della pronuncia ora ricordata a esclusivo punto di riferimento al quale commisurare le valutazioni concernenti il fluire del tempo costituisce un errore prospettico. Risulta infatti da tutta la ricordata giurisprudenza costituzionale l'essenzialità del riconoscimento al commissario agli usi civici di un potere officioso di impulso processuale al fine di un'adeguata tutela dell'ambiente. Per essere più precisi: la giurisprudenza di questa Corte non ha mai affermato che quella che lo prevedeva fosse qualificabile come una sorta di norma a contenuto costituzionalmente vincolato, ma ha detto che non si poteva prescindere dal conferimento di poteri anche officiosi di impulso processuale a un organo dello Stato, poiché la natura nazionale dell'interesse protetto non permetteva di accontentarsi dell'iniziativa di soggetti privati e di organi regionali o locali, che degli interessi di respiro nazionale non sono - giuridicamente e logicamente - portatori. Con la conseguenza che, in difetto di una previsione legislativa statale che conferisse ad altro organo dello Stato il potere in questione, quello del commissario agli usi civici doveva essere comunque salvaguardato.

Non è controvertibile che nella giurisprudenza costituzionale si sia costantemente richiamata l'attenzione del legislatore statale sulla dubbia compatibilità della disciplina in questione con il principio costituzionale della terzietà del giudice, ma altrettanto costantemente la - pur insoddisfacente - condizione normativa che ne risultava è stata ritenuta preferibile a quella che sarebbe scaturita da una declaratoria di illegittimità costituzionale. Tanto, anche perché - specie in ambito processuale (si veda, da ultimo, la sentenza n. 96 del 2025) - questa Corte non avrebbe potuto identificare essa stessa, per ovviare al vulnus, una soluzione ispirata a un dato normativo già esistente, tali e tante essendo le alternative astrattamente disponibili che solo il legislatore avrebbe potuto sceglierne una, nell'esercizio della sua discrezionalità politica. Ancorché in via transitoria, dunque, e sino al sopravvenire di una riforma legislativa di sistema, il regime che anche oggi è oggetto di contestazione è stato sempre giustificato in ragione dell'importanza dei beni costituzionali cui doveva considerarsi servente.

5.2.- Tanto precisato, va rilevato che la Corte rimettente lamenta la violazione degli «artt. 24, 111 e 117 Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6 CEDU e all'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea», ma nel suo percorso argomentativo hanno rilievo anche gli artt. 9 e 32 Cost., sebbene per un profilo diverso da quello della loro assunzione a parametri delle prospettate censure. Il giudice a quo, infatti, opera ampi riferimenti alla sentenza n. 46 del 1995 di questa Corte, rilevando che in quella occasione erano state messe in evidenza le «esigenze di tutela ambientale poste dagli artt. 9 e 32 Costituzione», esigenze che avevano sollecitato la declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 29, secondo comma, della legge n. 1766 del 1927, «nella parte in cui non consente la permanenza del potere del commissario agli usi civici di esercitare d'ufficio la propria giurisdizione pur dopo il trasferimento alle Regioni delle funzioni amministrative previste dal primo comma dell'articolo medesimo». Nel pervenire a questo risultato additivo, tuttavia, si era osservato che il conferimento del potere di iniziativa processuale al commissario agli usi civici determinava una «confluenza nel giudice anche di funzioni di impulso processuale», tale da generare una dubbia compatibilità con l'art. 24 Cost., che però poteva essere «transitoriamente giustificata in vista di una nuova disciplina legislativa», in forza di un «criterio di legittimità costituzionale provvisoria».

Nella sentenza n. 46 del 1995 non si faceva menzione anche dell'art. 111 Cost., ma esso ha uno stretto legame con l'art. 24 Cost. e non a caso entrambi gli articoli sono adesso evocati dall'ordinanza di rimessione.

Orbene, due dei parametri che presidiano i beni costituzionali posti a raffronto dalla ricordata sentenza - cioè quelli di cui agli artt. 9 e 111 Cost. - sono stati successivamente oggetto di revisione: il primo in forza della legge cost. n. 1 del 2022; il secondo in forza della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei princìpi del giusto processo nell'articolo 111 della Costituzione). Occorre pertanto verificare in quale misura tali operazioni di revisione costituzionale abbiano modificato il quadro normativo che questa Corte deve considerare pel profilo dei parametri rilevanti. Del resto, nel corso del giudizio le stesse parti si sono confrontate sul punto, ossia sulla eventuale sopravvenienza di consistenti novità ordinamentali, tali da imporre, oggi, una soluzione diversa da quella seguita in passato. Così, mentre la difesa del Presidente del Consiglio dei ministri ha insistito sulla novellazione dell'art. 9 Cost. a opera della legge cost. n. 1 del 2022 e sulla peculiare centralità ora acquisita dall'ambiente, la parte privata ha insistito sulla novellazione dell'art. 111 Cost. a opera della legge cost. n. 2 del 1999 e sulla riconosciuta importanza del principio di terzietà del giudice.

Entrambe le parti hanno prospettato una modificazione dell'insieme dei princìpi costituzionali fondamentali (ad esempio, a pag. 15 dell'atto di intervento, il Presidente del Consiglio dei ministri, rammemorando la sentenza di questa Corte n. 105 del 2024, ha fatto espresso riferimento al riconoscimento della «portata innovativa della legge 11.2.2022 n. 1 nella parte in cui "costituzionalizza" direttamente, ponendolo fra i principi primari dell'ordinamento giuridico, il mandato di tutela dell'ambiente», e a pag. 4 della memoria di costituzione, Autostrade per l'Italia spa, ha fatto espresso riferimento all'«introduzione del principio del giusto processo»).

Queste diverse prospettazioni meritano una distesa considerazione.

5.2.1.- Occorre sgombrare il campo da un possibile equivoco, che talora gli stessi scritti difensivi delle parti tendono ad alimentare: né la revisione costituzionale del 1999 né quella del 2022 hanno determinato un'alterazione della consistenza essenziale dei princìpi fondamentali della nostra Costituzione, nonostante il principio di terzietà sia intimamente connesso al diritto di difesa, che sin dalla sentenza n. 46 del 1957 questa Corte ha dichiarato «fondamentale in ogni ordinamento basato sulle esigenze indefettibili della giustizia e sui cardini dello Stato di diritto», e nonostante la sedes del novellato art. 9 Cost. sia proprio la parte della Carta che è dedicata ai «Princìpi fondamentali».

Il complesso delle previsioni normative che scolpiscono l'identità della nostra Costituzione definisce quelli che la giurisprudenza di questa Corte chiama princìpi «fondamentali» o «supremi», identificabili, nel corpo della Costituzione, sulla base di saldi criterî interpretativi d'ordine testuale e storico. Tali princìpi «non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali» (sentenza n. 1146 del 1988), sicché costituiscono un limite assoluto per le fonti - pur di rango costituzionale - previste dall'art. 138 Cost. L'identità della Costituzione è pertanto definita, nel suo «contenuto essenziale», una volta per tutte dalla Costituzione stessa, senza che le leggi costituzionali o di revisione costituzionale, ancorché libere di innovare anche significativamente le previsioni costituzionali, possano in alcun modo legittimamente scalfirla o alterarla, tant'è vero che, qualora fossero in contrasto con l'insieme delimitato dei princìpi fondamentali (supremi), sarebbero costituzionalmente illegittime (sull'immodificabilità di tali princìpi, fra le altre, oltre alla citata sentenza n. 1146 del 1988, le sentenze n. 159 del 2023, n. 115 del 2018, n. 118 del 2015, n. 238 del 2014, n. 134 del 2002, n. 203 del 1989 e l'ordinanza n. 24 del 2017). Se a una legge costituzionale o di revisione costituzionale fosse consentito farlo, infatti, essa introdurrebbe un nuovo limite alle successive leggi di revisione costituzionale, ponendosi come condizione della loro legittimità pur essendo pariordinata. Sennonché, il regime delle condizioni di legittimità delle fonti di rango costituzionale è definito direttamente dalla Costituzione e non è nella loro libera disponibilità: eccezion fatta per la Costituzione, nessuna fonte può essere ministra del proprio regime normativo (della propria "forza" e del proprio "valore"), che dipende sempre dalla fonte di rango superiore.

5.2.2.- Né la novella del 1999 né quella del 2022, dunque, hanno potuto alterare la consistenza dell'insieme dei princìpi fondamentali (supremi), che deve essere pertanto considerato esattamente il medesimo ch'ebbe di fronte la precedente giurisprudenza di questa Corte. La modificazione delle disposizioni che definiscono quei princìpi e la loro evoluzione nella dinamicità del divenire storico sono sempre possibili, ma a condizione ch'essi, come si è detto, non siano «sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale» (sentenza n. 1146 del 1988). Contenuto essenziale che - ovviamente - muterebbe ove l'insieme delimitato dei princìpi fosse a disposizione delle leggi costituzionali o di revisione costituzionale.

5.2.3.- Non solo: in concreto e nello specifico, ferme le considerazioni d'ordine generale che precedono, entrambe le novelle costituzionali non hanno fatto altro che confermare e ulteriormente precisare quanto la Costituzione già prevedeva.

Per quanto riguarda la terzietà del giudice, questa Corte ha più volte evidenziato che il novellato art. 111 Cost. non ha introdotto un'innovazione del contenuto essenziale del principio supremo che gli è sotteso (sentenza n. 240 del 2003, ordinanze n. 21 del 2014, n. 168 del 2002 e n. 75 del 2002), pur esplicitando con nettezza l'importanza delle sue singole specificazioni, con non trascurabili effetti normativi (sia perché, in generale, il giusto processo è ormai desumibile direttamente dal testo costituzionale e non solo in via d'interpretazione sistematica, sia perché lo sono gli altri princìpi che ne costituiscono specificazione). Né un'innovazione di detto contenuto essenziale è derivata dalla novellazione dell'art. 117, primo comma, Cost.

Per quanto riguarda il principio della tutela dell'ambiente, già prima della legge cost. n. 1 del 2022, si è chiarito (sentenza n. 126 del 2016) che, sebbene il testo originario della Costituzione non contenesse il lemma "ambiente" né disposizioni direttamente finalizzate a proteggere l'ecosistema, la giurisprudenza costituzionale aveva già riconosciuto (sentenza n. 247 del 1974) la «preminente rilevanza accordata nella Costituzione alla salvaguardia della salute dell'uomo (art. 32 citato) e alla protezione dell'ambiente in cui questi vive (art. 9, secondo comma)», quali beni costituzionali primari (sentenza n. 210 del 1987). La sentenza n. 105 del 2024, poi, ha affermato con chiarezza che «[l]a riforma del 2022 consacra direttamente nel testo della Costituzione il mandato di tutela dell'ambiente, inteso come bene unitario, comprensivo delle sue specifiche declinazioni rappresentate dalla tutela della biodiversità e degli ecosistemi, ma riconosciuto in via autonoma rispetto al paesaggio e alla salute umana, per quanto ad essi naturalmente connesso; e vincola così, esplicitamente, tutte le pubbliche autorità ad attivarsi in vista della sua efficace difesa». In questo modo si è ulteriormente messo in evidenza che la revisione del 2022 ha solo inserito "direttamente" nel testo della Costituzione un mandato di tutela ambientale che le preesisteva. Tanto, anche qui, con effetti normativi tutt'altro che trascurabili (sia perché l'obbligazione di tutela ambientale è ormai desumibile direttamente dal testo costituzionale e non solo in via d'interpretazione sistematica, sia perché si fa ora esplicito riferimento alla tutela della biodiversità, degli ecosistemi, e degli animali), ma senza alcuna incidenza su numero ed essenza dei princìpi costituzionali fondamentali (supremi).

Alla luce di quanto sin qui rilevato, deve escludersi che nel corso del tempo si siano prodotte modifiche normative così essenziali da imporre un ripensamento delle conclusioni raggiunte, quanto alla problematica qui esaminata, dalla precedente giurisprudenza di questa Corte, ora come allora fronteggiandosi i medesimi princìpi costituzionali.

6.- Ci si deve nondimeno domandare se proprio il decorso del tempo abbia in sé determinato una condizione diversa da quella del passato, suggerendo un corrispondentemente diverso esito. Per rispondere a questo interrogativo occorre rapidamente soffermarsi sulla genesi della norma oggetto di censura.

Il contenuto normativo dell'art. 29, secondo comma, della legge n. 1766 del 1927, oggi sottoposto allo scrutinio di questa Corte, risulta dalla combinazione dell'originario testo della norma di legge e dell'addizione operata dalla più volte ricordata sentenza n. 46 del 1995, che ha dichiarato costituzionalmente illegittima tale norma «nella parte in cui non consente la permanenza del potere del commissario agli usi civici di esercitare d'ufficio la propria giurisdizione pur dopo il trasferimento alle Regioni delle funzioni amministrative previste dal primo comma dell'articolo medesimo».

Tale essendo la vicenda normativa rilevante e ancorché la sentenza n. 46 del 1995 facesse esplicito riferimento alla "provvisorietà" delle soluzioni adottate, ci si deve chiedere, d'ufficio, se la questione proposta dal giudice rimettente sia ammissibile alla luce dell'art. 137, terzo comma, Cost., a tenor del quale «[c]ontro le decisioni della Corte costituzionale non è ammessa alcuna impugnazione»: poiché la norma che ne è oggetto risulta dall'addizione operata da una pronuncia di questa Corte, occorre domandarsi se la quaestio de legitimitate oggi sollevata costituisca, in realtà, un non consentito mezzo di impugnazione di una pronuncia costituzionale. A tal proposito si deve tuttavia osservare che questa Corte, pur ribadendo sia che il «tendenziale rispetto dei propri precedenti» è funzionale ad assicurare autorevolezza alla giurisdizione costituzionale (sentenza n. 203 del 2024; analogamente sentenza n. 24 del 2025) sia che le pronunce costituzionali non sono soggette ad alcun gravame (sentenza n. 29 del 1998), già in passato ha precisato che (sia pure «in presenza di una pronuncia di rigetto») l'effetto preclusivo alla riproposizione di questioni nel corso dello stesso giudizio, desumibile dall'art. 137, terzo comma, Cost., opera soltanto allorché risultino identici tutti e tre gli elementi che compongono la questione: «ossia norme censurate, profili di incostituzionalità dedotti e argomentazioni svolte a sostegno della ritenuta incostituzionalità» (sentenza n. 66 del 2019; si veda altresì la sentenza n. 270 del 2022). Più di recente, si è chiarito che sono giustificabili mutamenti rispetto a precedenti statuizioni allorché sussistano «ragioni di particolare cogenza che rendano non più sostenibili le soluzioni precedentemente adottate» rinvenibili, ad esempio, nel caso di «inconciliabilità dei precedenti con il successivo sviluppo della stessa giurisprudenza di questa Corte o di quella delle Corti europee», di «mutato contesto sociale o ordinamentale nel quale si colloca la nuova decisione o - comunque - il sopravvenire di circostanze, di natura fattuale o normativa, non considerate in precedenza» o, ancora, nel caso di «maturata consapevolezza sulle conseguenze indesiderabili prodotte dalla giurisprudenza pregressa» (sentenze n. 24 del 2025 e n. 203 del 2024).

Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve dunque ritenere che le questioni oggetto del presente giudizio siano per questo profilo ammissibili, poiché esse sono state sollevate proprio nella prospettiva della necessità di un ripensamento giurisprudenziale in ragione del ritenuto mutamento del contesto normativo e del fluire del tempo.

7.- S'è già detto che deve escludersi qualunque alterazione dell'originario ordine costituzionale dei princìpi fondamentali (supremi) nonostante la sopravvenienza delle leggi cost. n. 2 del 1999 e n. 1 del 2022, sicché occorre ora chiedersi solo se lo stesso fluire del tempo abbia determinato in sé una condizione tale da suggerire un ripensamento delle conclusioni raggiunte da questa Corte con le pronunce ricordate al punto 4. L'interrogativo è stato oggetto del confronto fra le parti e si radica nelle statuizioni di alcune di tali decisioni.

Rilevano, a tal proposito, la sentenza n. 133 del 1993, nella quale si è evidenziato che «la deroga alla regola di terzietà del giudice tocca il diritto di difesa alterando la normale dialettica processuale, sia perché la domanda introduttiva del giudizio, formulata dallo stesso giudice, prefigura il contenuto della decisione, sia perché il contraddittorio non si instaura in condizioni di parità tra le parti del rapporto sostanziale, bensì tra queste, da un lato, e il giudice dall'altro»; la sentenza n. 46 del 1995, nella quale si è parlato di «legittimità costituzionale provvisoria», di «attesa del riordino generale della materia degli usi civici» e di una sovrapposizione di funzioni giudicanti e di impulso processuale che poteva essere «transitoriamente giustificata»; la sentenza n. 345 del 1997, nella quale si è parlato nuovamente di «attesa che il legislatore riordini l'intera materia»; l'ordinanza n. 21 del 2014, nella quale si sono ricordate le statuizioni della sentenza n. 46 del 1995 quanto alla transitoria giustificazione del contestato potere commissariale in vista di «una nuova disciplina legislativa improntata a una "rigorosa tutela della terzietà del giudice"» e si è osservato che «nonostante siano passati quasi venti anni dalla sentenza n. 45 [recte: 46] del 1995 - tale nuova disciplina legislativa non è ancora intervenuta, mentre si è rafforzato il convincimento dell'inderogabilità del principio di terzietà»; la sentenza n. 113 del 2018, nella quale si è precisato che la Corte aveva «scelto di salvaguardare il potere di iniziativa processuale dei Commissari "in attesa del riordino generale della materia", preannunciato dall'art. 5 della legge 4 dicembre 1993, n. 491 [...], sulla base della consapevolezza che "le funzioni di impulso processuale da parte del giudice si possono giustificare eccezionalmente, purché transitoriamente, in vista di una nuova disciplina improntata al principio della terzietà del giudice"».

È sulla base di tali affermazioni che la rimettente prospetta una sorta di illegittimità costituzionale legata al tempo, in quanto «[q]uel bilanciamento di interessi, che la Corte costituzionale ha ritenuto accettabile solo in via transitoria e in vista di un generale riordino della materia, si è quindi tramutato in una permanente violazione del diritto di difesa e del diritto ad un giudice terzo e imparziale; la disciplina che poteva essere ritenuta conforme a Costituzione solo "eccezionalmente, purché transitoriamente" è ormai divenuta definitivamente stabile».

Quel che occorre rilevare è, però, che le esigenze che avevano indotto questa Corte alla declaratoria di illegittimità costituzionale additiva pronunciata con la sentenza n. 46 del 1995 non sono mutate. Ora come allora, infatti, l'interesse alla tutela del bene ambiente è nazionale e non solo regionale o locale; ora come allora si avverte la necessità che nazionale e non solo regionale o locale sia il soggetto istituzionale chiamato ad attivarsi per assicurare detta tutela; ora come allora, in difetto di soluzioni diverse apprestate dal legislatore, tale necessità può essere soddisfatta, allo stato, dal conferimento di un potere di impulso processuale al commissario agli usi civici (ferma restando la legittimazione degli enti esponenziali dei domini collettivi riconosciuta dalla legge n. 168 del 2017). È evidente che la sovrapposizione di funzioni giudicanti e di funzioni di impulso processuale genera significative linee di tensione con il diritto di difesa e il principio della terzietà del giudice, che suggerirebbero ben altre opzioni legislative, ma il punto resta oggi il medesimo del passato: trattasi di opzioni che vanno ascritte al legislatore, non ravvisandosi una soluzione costituzionalmente compatibile che assicuri, allo stesso tempo, l'adeguata tutela del bene-ambiente e la corretta articolazione delle funzioni giurisdizionali. L'ostacolo a un intervento di questa Corte non è costituito dall'esistenza di un ambito discrezionale riservato al legislatore, bensì dall'impossibilità di costruire per via di pronuncia costituzionale e senza esercitare scelte politiche un "sistema" protettivo dei domini collettivi in quanto beni ambientali che assicuri anche una piena armonia con gli artt. 24, 111 e 117, primo comma, Cost.

Né varrebbe obiettare che la pregressa giurisprudenza avrebbe "tollerato" la sovrapposizione di funzioni giudicanti e di funzioni di impulso processuale solo sino all'avvento di una riforma generale della materia e che tale riforma generale sarebbe sopravvenuta con la legge n. 168 del 2017. Anzitutto, questa interpretazione della pregressa giurisprudenza non è confortata da saldi dati testuali, ben potendosi sostenere che non già l'avvento di una riforma generale fosse inteso come il dies ad quem della transitoria giustificabilità della sovrapposizione qui oggetto di contestazione, bensì l'avvento di una riforma generale recante una specifica previsione normativa dedicata all'iniziativa processuale a tutela dei beni d'uso civico da parte di un organo statale. In secondo luogo, il dubbio ora prospettato è rafforzato dal fatto che la legge n. 168 del 2017 è anteriore alla sentenza n. 113 del 2018, che ha potuto e dovuto tenerne conto, ma non per questo ha mutato indirizzo. Infine, che detta legge costituisca l'attesa riforma generale è discusso, non foss'altro perché essa non ha disposto l'abrogazione della legge n. 1766 del 1927 e - anzi - non ha operato un compiuto coordinamento con le sue previsioni normative.

Le questioni incidentali di legittimità costituzionale di cui in epigrafe devono pertanto dichiararsi inammissibili.

8.- Tale declaratoria di inammissibilità non deve ovviamente indurre a sottovalutare la serietà della disarmonia determinata dalla più volte segnalata sovrapposizione di funzioni giudicanti e di funzioni di impulso processuale. Questa Corte ha ripetutamente sollecitato il legislatore a intervenire, anche prospettando alcune delle possibili soluzioni normative. In particolare, si è messo in evidenza che avrebbero potuto costituire possibili soluzioni l'istituzione dell'ufficio del pubblico ministero presso il commissario agli usi civici, lasciando a quest'ultimo il solo compito di giudicare, oppure l'abolizione della giurisdizione speciale del commissario, lasciandogli soltanto il potere di iniziativa processuale, cioè «trasformandolo in un organo specializzato del pubblico ministero presso il tribunale ordinario» (sentenza n. 133 del 1993).

Nonostante il fermo invito formulato da questa Corte, il legislatore ha continuato a rimanere inerte. Tale inerzia non risulta in armonia con il dovere di leale collaborazione, la cui osservanza deve ispirare le relazioni fra tutti i poteri dello Stato (sentenze n. 410 e n. 110 del 1998 - che parlano di principio di lealtà e correttezza -, n. 139 del 1990, n. 35 del 1972, n. 168 del 1963) e in particolare quelle fra legislatore e giudice costituzionale (sentenza n. 242 del 2019, ordinanze n. 132 del 2020 e n. 207 del 2018). Essa costituisce anche una scelta problematica per lo stesso legislatore, poiché nelle complesse società contemporanee la capacità di rispondere ai bisogni dei cittadini costituisce una parte essenziale della sua legittimazione.

L'intervento del legislatore è particolarmente necessario perché l'innesto di un istituto premoderno come l'uso civico o il dominio collettivo sul tronco del diritto moderno è fatalmente problematico e, per attecchire correttamente, abbisognerebbe di una sapiente opera di coordinamento legislativo. Inoltre, la disciplina introdotta dalla legge n. 1766 del 1927 ha subìto una evidente torsione (così già le sentenze n. 152 del 2024 e n. 119 del 2023): concepita essenzialmente allo scopo della liquidazione degli usi civici, essa ha finito per rovesciarsi in normativa soprattutto protettiva della loro esistenza e del loro mantenimento (ora, in ispecie, nella forma del dominio collettivo), senza che - però - se ne aggiornassero adeguatamente i contenuti. Si sono così posti all'amministrazione e alla giurisdizione notevoli problemi, che la legge n. 168 del 2017, priva - come accennato - del respiro della riforma di carattere generale, non ha consentito di risolvere appieno. È pertanto stringente l'esigenza che sia adempiuto il dovere del legislatore di intervenire organicamente in materia, ponendo ordine in un settore normativo nel quale si sovrappongono e confliggono, in una con l'esigenza della corretta amministrazione della giustizia, l'interesse delle comunità locali, il fondamentale interesse nazionale alla tutela del bene-ambiente, l'interesse privato e pubblico alla protezione della proprietà, l'interesse privato e pubblico all'esercizio dell'attività economica e alla realizzazione delle opere pubbliche e delle infrastrutture delle quali nessuna comunità politica può fare a meno.

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 29, secondo comma, della legge 16 giugno 1927, n. 1766 (Conversione in legge del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del R. decreto 28 agosto 1924, n. 1484, che modifica l'art. 26 del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, e del R. decreto 16 maggio 1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall'art. 2 del R. decreto-legge 22 maggio 1924, n. 751), sollevate, in riferimento agli artt. 24, 111 e 117 della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e all'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, dalla Corte d'appello di Roma, sezione speciale per gli usi civici, con l'ordinanza in epigrafe indicata.

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