Corte costituzionale
Sentenza 24 luglio 2025, n. 127

Presidente: Amoroso - Redattore: Luciani

[...] nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 227 del codice penale militare di pace, promosso dal Giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale militare di Napoli, nel procedimento penale a carico di A. N., con ordinanza del 18 settembre 2024, iscritta al n. 200 del registro ordinanze 2024 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell'anno 2024.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 23 giugno 2025 il Giudice relatore Massimo Luciani;

deliberato nella camera di consiglio del 23 giugno 2025.

RITENUTO IN FATTO

1.- Con ordinanza del 18 settembre 2024, iscritta al n. 200 del registro ordinanze 2024, il Giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale militare di Napoli, chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di rinvio a giudizio di A. N., appuntato scelto dei carabinieri, in relazione alla condotta, svolta nell'esercizio dell'attività sindacale, di diffamazione militare (art. 227 del codice penale militare di pace), ha sollevato d'ufficio, in riferimento all'art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all'art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, questione di legittimità costituzionale del citato art. 227, nella parte in cui punisce la diffamazione militare esclusivamente con la pena della reclusione.

1.1.- In punto di rilevanza della questione, il giudice a quo premette che A. N. è chiamato a rispondere del reato di diffamazione militare per avere affermato, comunicando con più persone attraverso un messaggio trasmesso mediante posta elettronica a una redazione giornalistica online e una missiva inviata al Ministero della difesa, al Comando legione carabinieri e ad altri indirizzi istituzionali militari, che nella caserma dei carabinieri del Comando legione Calabria un vasto terreno agricolo sarebbe stato coltivato da un carabiniere verosimilmente durante l'orario di servizio, distogliendo il militare dall'attività di istituto e impiegando risorse idriche della caserma; con ciò interrogandosi anche sull'esistenza, posta in dubbio, di un'autorizzazione all'espletamento di mansioni "agricole" estranee ai compiti di istituto.

Poiché la diffamazione militare è punita soltanto con la pena detentiva, la mancata previsione di una pena pecuniaria alternativa determinerebbe il contrasto con l'art. 10 CEDU, nell'interpretazione consolidata della Corte europea dei diritti dell'uomo.

Tanto premesso, il rimettente, chiarito che non viene prospettata l'adozione di una sentenza additiva o manipolativa della norma censurata, bensì quella di una sentenza di mero annullamento, con conseguente espansione della disciplina della diffamazione comune di cui all'art. 595 del codice penale, afferma la rilevanza della questione, in quanto il suo accoglimento gli imporrebbe l'adozione di una sentenza dichiarativa del difetto di giurisdizione, con trasmissione degli atti all'autorità giudiziaria ordinaria.

1.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente ritiene che la norma incriminatrice della diffamazione militare contrasti con gli artt. 117, primo comma, Cost., e 10 CEDU.

Il rimettente, premesso che la libertà di espressione è tutelata sia dall'art. 21 Cost. sia dall'art. 10 CEDU, che, secondo la giurisprudenza europea, «non si ferma davanti al cancello della caserma» e si applica anche ai militari, osserva che, giusta il consolidato orientamento della Corte di Strasburgo, la norma censurata risulterebbe contraria all'art. 10 CEDU in quanto la previsione, anche solo in astratto, della pena detentiva per i reati di diffamazione sarebbe eccessiva e sproporzionata, salvo nella circostanza eccezionale della grave lesione di altri diritti fondamentali, come accade, per esempio, nel caso dei discorsi di odio o dell'istigazione alla violenza (si richiamano Corte EDU, grande camera, 17 dicembre 2004, Cumpănă e Mazăre contro Romania; prima sezione, 6 dicembre 2007, Katrami contro Grecia; prima sezione, 7 marzo 2019, Sallusti contro Italia; seconda sezione, 24 settembre 2013, Belpietro contro Italia).

Nel medesimo senso il rimettente rammenta, di questa Corte, l'ordinanza n. 132 del 2020 e la successiva sentenza n. 150 del 2021, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa), affermando che «[p]roprio l'indefettibilità dell'applicazione della pena detentiva [...] rende la disposizione censurata incompatibile con il diritto a manifestare il proprio pensiero, riconosciuto tanto dall'art. 21 Cost., quanto dall'art. 10 CEDU», atteso che «una simile necessaria irrogazione della sanzione detentiva (indipendentemente poi dalla possibilità di una sua sospensione condizionale, o di una sua sostituzione con misure alternative alla detenzione rispetto al singolo condannato) è divenuta ormai incompatibile con l'esigenza di "non dissuadere, per effetto del timore della sanzione privativa della libertà personale, la generalità dei giornalisti dall'esercitare la propria cruciale funzione di controllo sull'operato dei pubblici poteri"».

Tali princìpi, riconosciuti dalla giurisprudenza costituzionale ed europea, dovrebbero essere applicati anche con riferimento alla fattispecie della diffamazione militare, che, come affermato dalla sentenza n. 273 del 2009 di questa Corte, si distingue dalla diffamazione comune di cui all'art. 595 cod. pen., con la quale si pone in rapporto di specialità, esclusivamente per la qualità del soggetto attivo e della persona offesa, che nella prima devono essere entrambi militari.

Secondo il rimettente, peraltro, non osterebbe all'accoglimento della questione la sentenza di questa Corte n. 215 del 2017, ove si è ritenuta non irragionevole la mancata ricomprensione dell'ingiuria militare (art. 226 cod. pen. mil. pace) nell'ambito della decriminalizzazione, disposta dal decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell'articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67), con riferimento, tra l'altro, all'ingiuria "comune", in considerazione della «peculiare posizione del cittadino che entra [...] nell'ordinamento militare», che non rende «affatto irragionevole imporre al militare una più rigorosa osservanza di regole di comportamento». Il giudizio di non irragionevolezza del diverso trattamento sanzionatorio, infatti, non avrebbe attinto la diversa questione della necessità di una sanzione detentiva per l'ingiuria militare.

La questione sollevata, si aggiunge, non riguarda l'illegittimità costituzionale per diversità del trattamento sanzionatorio tra diffamazione militare e diffamazione comune, in violazione dell'art. 3 Cost., bensì la necessità, in una società democratica, di non prevedere la sola pena detentiva per sanzionare tutte le condotte di diffamazione militare, senza prevedere una pena pecuniaria alternativa.

L'applicabilità dell'art. 10 CEDU anche alla diffamazione militare andrebbe affermata pure qualora il reato non fosse commesso a mezzo della stampa o comunque nell'esercizio dell'attività giornalistica; del resto, la diffamazione contestata nel giudizio a quo risulta commessa nell'ambito di attività sindacale, che ormai, a seguito della sentenza n. 120 del 2018 di questa Corte, rinviene compiuta previsione normativa nella legge 28 aprile 2022, n. 46 (Norme sull'esercizio della libertà sindacale del personale delle Forze armate e delle Forze di polizia a ordinamento militare, nonché delega al Governo per il coordinamento normativo), nonché nel decreto legislativo 24 novembre 2023, n. 192, recante «Disposizioni per il riassetto della legge 28 aprile 2022, n. 46, nel codice di cui al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, e per il coordinamento normativo delle ulteriori disposizioni legislative che disciplinano gli istituti della rappresentanza militare, ai sensi dell'articolo 16, comma 1, lettere a), b) e c), della medesima legge n. 46 del 2022».

Anche la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che «escludere la pena detentiva - riservandola soltanto ai c.d. discorsi d'odio - alle sole ipotesi di diffamazione commessa nell'esercizio dell'attività giornalistica, rischia, da un lato, di compromettere il principio di uguaglianza (art. 3, comma 1, Cost.) nei confronti di tutti i cittadini (in particolare, coloro che commettano il fatto non nell'esercizio dell'attività giornalistica), e, dall'altro, il principio di ragionevolezza (art. 3, comma 2, Cost.), prevedendo un trattamento sanzionatorio sfavorevole (la pena detentiva) per fatti di solito connotati da minore gravità e/o diffusività, e dunque complessiva offensività, rispetto a quelli commessi nell'esercizio dell'attività giornalistica» (Corte di cassazione, quinta sezione penale, sentenza 17 febbraio-14 aprile 2021, n. 13993).

2.- È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sollevata dal GUP del Tribunale militare di Napoli sia dichiarata inammissibile o non fondata.

2.1.- La questione sarebbe inammissibile in ragione della palese carenza di rilevanza. Nel caso di specie il giudice dell'udienza preliminare non è chiamato a irrogare la sanzione detentiva prevista dalla norma censurata, ma soltanto a decidere sull'accoglimento o meno della richiesta di rinvio a giudizio dell'imputato. Né la rilevanza potrebbe essere individuata nel difetto di giurisdizione che discenderebbe dalla declaratoria di illegittimità costituzionale della norma censurata, poiché il vaglio di ammissibilità è propedeutico all'eventuale accoglimento nel merito della questione.

Del resto, anche nella successiva fase del giudizio la rilevanza della questione potrebbe essere affermata solo in seguito all'accertamento della responsabilità dell'imputato e alla valutazione della gravità della condotta contestata.

2.2.- L'Avvocatura dello Stato afferma poi che la questione sarebbe comunque non fondata: premesso che l'ordinanza di rimessione non ha considerato la previsione di carattere generale di cui all'art. 22 cod. pen. mil. pace, che non contempla la possibilità di applicare pene pecuniarie, la diversità di disciplina e dunque l'utilizzazione della sola pena detentiva sarebbe giustificata dalla diversità dei beni giuridici tutelati dalla diffamazione militare (l'effettività della disciplina militare e la necessaria coesione delle Forze armate, quali beni strumentali all'adempimento del dovere di difesa della Patria, qualificato come «sacro» dall'art. 52 Cost.) e dalla diffamazione comune (la libertà di informazione e di critica nell'esercizio dell'attività giornalistica, a salvaguardia delle quali si è sviluppata la giurisprudenza europea sulla illegittimità convenzionale della sola pena detentiva).

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe (reg. ord. n. 200 del 2024) il Giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale militare di Napoli ha sollevato d'ufficio questione di legittimità costituzionale dell'art. 227 cod. pen. mil. pace, nella parte in cui punisce la diffamazione militare esclusivamente con la pena della reclusione.

1.1.- Il rimettente espone di essere chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di rinvio a giudizio di A. N., appuntato scelto dei carabinieri, in relazione alla condotta (tenuta nell'esercizio di attività sindacale) di diffamazione militare, per avere questi affermato, comunicando con più persone, attraverso un messaggio trasmesso mediante posta elettronica a una redazione giornalistica online e una missiva inviata al Ministero della difesa, al Comando legione carabinieri e ad altri indirizzi istituzionali militari, che nella caserma dei carabinieri del Comando legione Calabria un vasto terreno agricolo sarebbe stato coltivato da un carabiniere verosimilmente durante l'orario di servizio, distogliendo il militare dall'attività di istituto e impiegando risorse idriche della caserma; con ciò interrogandosi anche sulla esistenza, posta in dubbio, di un'autorizzazione all'espletamento di mansioni "agricole" estranee ai compiti di istituto.

1.2.- Il giudice a quo denuncia la norma incriminatrice per contrarietà all'art. 117, primo comma, Cost. in relazione all'art. 10 CEDU, poiché, essendo la diffamazione militare punita soltanto con la pena detentiva, la mancata previsione di una pena pecuniaria alternativa determinerebbe il contrasto con l'art. 10 CEDU, nell'interpretazione consolidata della Corte di Strasburgo.

Tanto premesso, il rimettente, chiarito che non viene prospettata l'adozione di una sentenza additiva o manipolativa della norma censurata, bensì quella di una sentenza di mero annullamento, con conseguente espansione della disciplina della diffamazione comune di cui all'art. 595 cod. pen., afferma che la questione sarebbe rilevante, in quanto il suo accoglimento gli imporrebbe l'adozione di una sentenza dichiarativa del difetto di giurisdizione, con trasmissione degli atti all'autorità giudiziaria ordinaria.

2.- L'eccezione di inammissibilità per difetto di rilevanza proposta dalla difesa del Presidente del Consiglio dei ministri è fondata nei termini che seguono.

La giurisprudenza di questa Corte ritiene manifestamente inammissibili per difetto di rilevanza, in quanto premature e ipotetiche (ex plurimis, sentenza n. 217 del 2019; ordinanze n. 210 del 2020 e n. 259 del 2016), le questioni vertenti su disposizioni delle quali il rimettente non è chiamato a fare applicazione. Tanto, ai sensi dell'art. 23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale).

In particolare, quanto alla questione della mancata previsione di una circostanza attenuante, sollevata nel corso dell'udienza preliminare allorquando il giudice rimettente non era chiamato a decidere sulla responsabilità degli imputati, si è affermato: «[i]nnanzitutto, il rimettente ha sollevato tale questione nel corso dell'udienza preliminare, omettendo di indicare se gli imputati avessero formulato la richiesta di definizione del giudizio con il rito abbreviato di cui all'art. 438 del codice di procedura penale o con il cosiddetto patteggiamento, ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen. [...]. Pertanto il giudice rimettente non è chiamato a decidere sulla responsabilità degli imputati e quindi neppure, in ipotesi, a riconoscere la circostanza attenuante, la cui mancata previsione è oggetto di censura. Ciò rende meramente eventuale e ipotetica - nonché comunque prematura - l'odierna questione. Per costante orientamento di questa Corte, infatti, la questione incidentale è irrilevante e, dunque, inammissibile se l'applicazione della norma censurata è solo eventuale e successiva (ex plurimis, sentenze n. 139 del 2020 e n. 217 del 2019; ordinanze n. 210 e n. 42 del 2020)» (sentenza n. 114 del 2021).

Nella fattispecie qui in esame la questione di legittimità costituzionale è rimessa a questa Corte dal giudice dell'udienza preliminare, investito della decisione sulla richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pubblico ministero, epperciò non chiamato a deliberare sulla responsabilità penale dell'imputato e, di conseguenza, sull'applicazione della sanzione penale astrattamente comminata dal legislatore. Profili decisori - questi - che, in assenza di una richiesta di riti alternativi, competono al giudice del dibattimento.

In altri termini, poiché la censura proposta concerne esclusivamente il trattamento sanzionatorio della diffamazione militare, è da escludere che in questa fase processuale il giudice debba fare applicazione del frammento di norma censurato (ordinanza n. 56 del 2023).

La rilevanza prospettata dal giudice rimettente, ad avviso del quale l'accoglimento della questione, con la conseguente espansione applicativa della norma comune di cui all'art. 595 cod. pen., imporrebbe una declaratoria di difetto di giurisdizione, con trasmissione degli atti alla competente autorità giudiziaria ordinaria, appare sovrapporre indebitamente il profilo, logicamente propedeutico, dell'ammissibilità a quello del merito, dilatando indebitamente il perimetro della rilevanza: nella fase processuale dell'udienza preliminare, in assenza di richiesta di riti alternativi, infatti, il tema della pena (detentiva) non viene in considerazione, sicché il giudice di tale fase non è legittimato a sollevare questione di legittimità costituzionale della norma che la prevede.

3.- La questione è altresì inammissibile per un ulteriore profilo rilevabile d'ufficio.

Il giudice rimettente, nel motivare sulla non manifesta infondatezza della questione, sostiene che l'applicabilità dell'art. 10 CEDU pure alla diffamazione militare va affermata anche se il reato non è commesso con il mezzo della stampa o comunque nell'esercizio dell'attività giornalistica e di quella sindacale. Nonostante questo, tuttavia, il rimettente non considera in concreto che la specifica condotta diffamatoria rilevante nel giudizio a quo risulta tenuta nell'ambito di un'attività sindacale in campo militare. Attività che, come lo stesso giudice a quo rileva, a seguito della sentenza di questa Corte n. 120 del 2018, ha trovato compiuta previsione normativa prima nella legge n. 46 del 2022 e poi nel d.lgs. n. 192 del 2023.

Ebbene, pur sottolineando la «forte [...] similitudine tra attività sindacale e giornalistica» ai fini del riconoscimento dell'art. 10 CEDU, il giudice a quo ha omesso qualsivoglia motivazione in ordine all'applicabilità o meno - per il profilo dell'esercizio di un diritto - della relativa causa di giustificazione, ancorché richiamata al fine di argomentare la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale.

Nella fattispecie, il giudice rimettente, sebbene abbia evidenziato il contesto - l'attività sindacale, posta in essere nell'esercizio di un diritto riconosciuto anche al personale militare - nel quale la ritenuta diffamazione risulta commessa, non si è in alcun modo confrontato, foss'anche in termini di mera plausibilità, con la problematica dell'eventuale rilevanza della causa di giustificazione.

Per quanto non sia chiamato a pronunciarsi sulla responsabilità dell'imputato, il giudice dell'udienza preliminare è nondimeno tenuto a formulare una prognosi sulla «ragionevole previsione di condanna» (art. 425, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 23, comma 1, lettera l, del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, recante «Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l'efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari»), che, ove positiva, comporta il rinvio a giudizio, mentre, ove negativa, comporta una sentenza di non luogo a procedere. E l'eventuale sussistenza di cause di giustificazione o di cause di non punibilità rientra nel perimetro entro il quale il giudice dell'udienza preliminare è tenuto a formulare tale giudizio (ordinanza n. 56 del 2023).

Nella specie, pur non essendo il giudice rimettente tenuto a una decisione anticipata sull'applicabilità della causa di giustificazione dell'esercizio del diritto sindacale - peraltro richiamato per invocare l'applicabilità dell'art. 10 CEDU -, avrebbe dovuto quantomeno argomentare, in termini di non implausibilità, l'insussistenza dei presupposti per il riconoscimento della scriminante (sentenza n. 94 del 2023) e, di conseguenza, la rilevanza penale del fatto, sia pure nella limitata prospettiva della «ragionevole previsione di condanna» quale regola di giudizio dell'udienza preliminare prevista dall'art. 425, comma 3, cod. proc. pen.

Alla luce delle considerazioni che precedono la questione di legittimità costituzionale sollevata con l'ordinanza indicata in epigrafe e descritta in narrativa deve essere dichiarata inammissibile.

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 227 del codice penale militare di pace, sollevata, in riferimento all'art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all'art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, dal Giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale militare di Napoli, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

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