Corte costituzionale
Sentenza 29 luglio 2025, n. 139

Presidente: Amoroso - Redattore: Viganò

[...] nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 59 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), come sostituito dall'art. 71, comma 1, lettera g), del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l'efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), promossi dalla Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario di Firenze con ordinanza del 18 aprile 2024 e dalla Corte d'appello di Firenze, seconda sezione penale, con ordinanza del 14 febbraio 2025, iscritte rispettivamente al n. 130 del registro ordinanze 2024 e al n. 46 del registro ordinanze 2025 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, prima serie speciale, n. 27 dell'anno 2024 e n. 12 dell'anno 2025.

Visti gli atti di costituzione di A. L. e di P. T., l'atto di intervento di G. R., depositato fuori termine, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 9 luglio 2025 il Giudice relatore Francesco Viganò;

uditi gli avvocati Gianpaolo Di Pietto per G. R., Alessandro Sforza per A. L., Michele Giacomo Carlo Passione per P. T., nonché gli avvocati dello Stato Salvatore Faraci ed Erica Farinelli per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 9 luglio 2025.

RITENUTO IN FATTO

1.- Con ordinanza del 18 aprile 2024, iscritta al n. 130 reg. ord. del 2024, la Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario di Firenze ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell'art. 59 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, «laddove la norma prevede, in via assoluta, che la pena detentiva non possa essere sostituita nei confronti di imputati infraventunenni di reati di cui all'art. 609 bis c.p. anche quando il giudice ritenga che il rischio di recidiva possa essere salvaguardato dall'applicazione d[i] una sanzione sostitutiva».

1.1.- Dall'ordinanza risulta che la rimettente ha proceduto nelle forme del giudizio abbreviato nei confronti di A. L., condannandolo alla pena di quattro anni di reclusione, oltre alle pene accessorie, per il delitto di violenza sessuale aggravata di cui agli artt. 609-bis e 609-ter, comma 1, numeri 2) e 5), cod. pen., per avere costretto mediante minaccia, posta in essere con un'arma, la minore M. D. a compiere atti sessuali.

A seguito della condanna, l'imputato ha chiesto l'applicazione di una pena sostitutiva. Il processo, quindi, è stato sospeso, ai sensi dell'art. 545-bis del codice di procedura penale, per consentire la predisposizione di un programma di trattamento da parte dell'Ufficio di esecuzione penale esterna (UEPE).

Secondo la rimettente, tale programma (che prevede la detenzione domiciliare, lo svolgimento di attività lavorativa e il mantenimento di contatti con lo stesso UEPE), integrato con la prescrizione della partecipazione a un percorso di recupero presso uno degli enti indicati nell'art. 165, quinto comma, cod. pen., sarebbe «idoneo a fornire una risposta sanzionatoria adeguata alla gravità del reato commesso e [...], rispetto alla esecuzione della pena detentiva carceraria, più idoneo alla rieducazione dell'imputato consentendo l'applicazione di misure e prescrizioni prive di effetti desocializzanti». In tal senso avrebbe concluso anche il pubblico ministero, «pur richiamando il dato normativo che non consente la sostituzione della pena».

Sottolinea, in particolare, la giudice a quo che «l'imputato è giovanissimo, ha commesso il reato [...] quando ancora non aveva compiuto 20 anni, non ha precedenti penali o giudiziari»; il fatto non sarebbe stato commesso in un contesto caratterizzato da «dinamiche di criminalità organizzata, ma in contesto di dinamiche che caratterizzano i reati sessuali commessi da giovanissimi»; l'imputato non sarebbe mai stato sottoposto a misura cautelare per il reato per cui si procede. Giunto in Italia come minore non accompagnato, lo stesso sarebbe stato accolto da una Onlus, avrebbe imparato la lingua italiana e intrapreso un percorso di avviamento professionale che gli avrebbe consentito l'inserimento lavorativo quale apprendista elettricista: attività che l'esecuzione della pena sostitutiva gli consentirebbe di proseguire, insieme alla possibilità di «rivalutare in senso critico le modalità di relazione sessuale». Escluso il pericolo di recidiva, la rimettente evidenzia che «[l]'esecuzione della pena detentiva in regime penitenziario comporterebbe, invece, effetti desocializzanti gravi separando l'imputato da un contesto di relazioni instaurate con gli operatori della Onlus e comportando la perdita del lavoro».

1.2.- In punto di rilevanza della questione sollevata, la rimettente espone che l'art. 59 della legge n. 689 del 1981, come sostituito dall'art. 71, comma 1, lettera g), del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l'efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), prevede che la pena detentiva non possa essere sostituita «nei confronti dell'imputato di uno dei reati di cui all'art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354» (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), fra i quali il delitto per cui A. L. è stato condannato. La questione, quindi, sarebbe rilevante «atteso che, ove fosse esclusa la preclusione assoluta all'applicazione della misura sostitutiva, questa potrebbe in concreto essere applicata all'imputato».

1.3.- Quanto alla non manifesta infondatezza, la preclusione «assoluta» prevista dalla norma censurata presenterebbe «caratteri di irrazionalità» e si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.

1.3.1.- In premessa, la rimettente evidenzia che «[d]al sistema complessivo della disciplina relativa alle misure sostitutive» risulterebbe il «favor» del legislatore per le pene sostitutive, tanto che le stesse sarebbero applicabili «anche nei confronti di soggetti per i quali sussiste pericolo di recidiva e [...] di soggetti nei cui confronti tale rischio sia stato valutato concreto ed attuale tanto da comportare l'applicazione ed il mantenimento di una misura cautelare». Conferma di ciò si trarrebbe, oltre che dal tenore letterale della norma censurata, anche dall'art. 300, comma 4-bis, cod. proc. pen. e dall'art. 58 della legge n. 689 del 1981.

La preclusione «più importante» all'accesso alle pene sostitutive riguarderebbe esclusivamente il titolo di reato per cui si procede, risultando «le altre preclusioni [...] del tutto razionali e riconnesse alla pericolosità sociale dell'imputato o a suoi comportamenti».

1.3.2.- La disposizione censurata, mediante un «richiamo generalizzato a tutti i reati previsti dall'art. 4 bis L. 26 luglio 1975 n. 354 che, come noto, prevede un regime penitenziario molto diverso a seconda delle diverse categorie di reati ricomprese nell'elenco», comporterebbe che, ai fini dell'applicazione delle pene sostitutive, tali diverse categorie di reato ricevano invece un trattamento «unitario».

Sarebbe, peraltro, irragionevole che «pur al momento dell'applicazione di una sanzione di natura penale che deve avere carattere retributivo, specialpreventivo e rieducativo non si consenta al giudice di valutare le condizioni soggettive dell'autore del reato soprattutto ove queste, unite alle circostanze concrete in cui è stato commesso il fatto, consentano di escludere un rischio attuale di recidiva ovvero la possibilità di contenerlo con una efficace misura diversa dalla detenzione».

Altrettanto irragionevole sarebbe la conseguenza discriminatoria che la preclusione «per titolo astratto di reato» comporterebbe tra «persone che hanno riportato condanna alla stessa pena, cosicché una persona condannata alla pena di 4 anni di reclusione per un reato non ostativo [...] potrà vedersi applicata una misura sostitutiva anche se vi sia un rischio di recidiva e sia sottoposta a misura cautelare, mentre una persona condannata per un reato ostativo non potrà vedersi applicata una sanzione sostitutiva anche se condannata a pena inferiore e anche ove non sussista nessun pericolo di recidiva ovvero se il rischio possa essere contenuto con una misura non carceraria».

La rimettente evidenzia, infine, che «l'imputato, minore di anni 21, avrebbe lo stesso trattamento riservato a soggetti pienamente adulti» e «per effetto della doppia ostatività prevista per i reati di cui all'art. 4-bis ordinamento penitenziario non potrebbe che essere inserito, per almeno un anno, in un sistema carcerario con gravi effetti desocializzanti pur se potrebbero essere applicate misure sanzionatorie valutate dal giudice della cognizione sicure ed efficaci, e ciò sulla base di una opzione normativa del tutto astratta».

2.- È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate inammissibili o comunque infondate.

2.1.- L'inammissibilità deriverebbe dalla indeterminatezza e irrilevanza delle questioni.

Sotto un primo profilo, l'Avvocatura lamenta che le «scarse indicazioni contenute nell'ordinanza non chiariscono [...] come il giudice sia giunto a determinare la pena nella misura indicata di anni quattro, ovvero se abbia o meno riconosciuto le circostanze attenuanti generiche e la loro prevalenza sulle due aggravanti contestate». Il che renderebbe carente la motivazione sulla rilevanza perché, se la pena fosse stata determinata «in maniera incongrua», la sentenza potrebbe essere impugnata dal pubblico ministero e la pena aumentata fino a superare il limite (quattro anni di reclusione) entro il quale è possibile la sostituzione della pena, ai sensi dell'art. 53 della legge n. 689 del 1981.

Per altro aspetto, le questioni sarebbero «manifestamente inammissibili, atteso che [vengono sollevate] con riferimento all'art. 609-bis c.p., quando, invece, la condotta ha integrato anche le aggravanti previste dai numeri 2 e 5 dell'art. 609-ter, in quanto consumata in danno di persona offesa minorenne e con uso di arma».

2.2.- Nel merito, le questioni sarebbero infondate.

L'art. 59 della legge n. 689 del 1981 sarebbe stato sostituito in attuazione dello specifico criterio di cui all'art. 1, comma 17, lettera d), della legge 27 settembre 2021, n. 134 (Delega al Governo per l'efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), che delegava il Governo a «ridisciplinare opportunamente le condizioni soggettive per la sostituzione della pena detentiva, assicurando il coordinamento con le preclusioni previste dall'ordinamento penitenziario per l'accesso alla semilibertà e alla detenzione domiciliare».

Il legislatore delegato avrebbe introdotto una nuova disciplina delle condizioni soggettive per la sostituzione della pena detentiva: per un verso, avrebbe modificato le prime tre condizioni previste dal testo previgente, per lo più imperniate su rigidi automatismi, per adeguarle «agli orientamenti della giurisprudenza costituzionale che in più occasioni ha dichiarato l'illegittimità di analoghi automatismi e presunzioni»; per altro verso, avrebbe introdotto l'ulteriore condizione dettata dalla lettera d), assicurando il coordinamento con le preclusioni previste dall'ordinamento penitenziario.

Il risultato, quindi, sarebbe quello di precludere la sostituzione, «indipendentemente dalla valutazione di pericolosità sociale e adeguatezza del caso concreto, sulla base di una presunzione operata dal legislatore in sede di esecuzione, che viene desunta dalla regola dell'art. 4-bis 1. 354/75 (per non renderla ineffettiva, come chiaramente indicato nella relazione introduttiva alla 1. 134/2021 [rectius: al d.lgs. n. 150 del 2022])».

La norma sospettata di illegittimità costituzionale non si porrebbe in contrasto con i principi affermati da questa Corte in ordine allo spazio di discrezionalità rimesso al legislatore nella commisurazione delle sanzioni, sindacabile solo quando trasmodi nella manifesta irragionevolezza o nell'arbitrio; letta, infatti, «in combinato disposto con la norma "gemella" di cui all'art. 4-bis, comma 1-quater, dell'ord. pen.», essa non impedirebbe, in concreto, l'accesso alle misure alternative alla detenzione, possibile dopo un anno di osservazione scientifica della personalità.

Tale circostanza controbilancerebbe «la rigidità del divieto, in un ambito - quale quello dei delitti di violenza sessuale aggravati ai sensi dell'art. 609-ter c.p. - nel quale pare non irragionevole ricollegare la valutazione di una elevata pericolosità soggettiva alla condotta stessa, ai ricordati fini di recidività della condotta».

Quanto, poi, alla condizione di infraventunenne dell'imputato, il legislatore avrebbe differenziato «il regime penale nei confronti del giovane adulto autore di reati consentendo la sospensione della pena determinata in misura superiore [a] quella ordinaria», non già disegnando un sistema sanzionatorio intermedio tra quello riservato ai minorenni e agli adulti, «anche in ragione del fatto che le condizioni personali dell'imputato rilevano ai fini dell'art. 133 c.p.» (e sarebbero state tenute in considerazione, come risulta dall'ordinanza di rimessione, nel caso di specie).

Il sistema nel suo complesso, quindi, non sarebbe irragionevole e le questioni sollevate, «anche sotto l'aspetto della mancata previsione di un regime differenziato di sostituibilità della pena», sarebbero infondate.

3.- Si è costituito in giudizio A. L., imputato nel giudizio principale. Ripercorrendo adesivamente gli argomenti spesi dalla giudice rimettente, la parte chiede a questa Corte «di dichiarare incostituzionale l'art. 59, 1° comma, lett. d) della l. 689/1981, nella parte in cui non consente di sostituire la pena detentiva con una pena sostitutiva così come introdott[a] dalla riforma Cartabia nell'articolo 20-bis del codice penale e nel riformulato testo della legge n. 689 del 1981 in favore dell'imputato infra-ventunenne».

4.- Con memoria depositata in prossimità dell'udienza, la difesa dell'imputato ribadisce le considerazioni e le conclusioni già svolte nell'atto di costituzione e, in replica alle deduzioni dell'Avvocatura generale dello Stato, sottolinea la rilevanza delle questioni, il cui accoglimento «avrebbe un effetto dirompente e di novità nel caso che ci occupa, consentendo all'odierno prevenuto di scontare la pena irrogata in regime di detenzione domiciliare sostitutiva». La difesa dello Stato, inoltre, avrebbe trascurato di considerare che il d.lgs. n. 150 del 2022 sarebbe «incorso in un eccesso di delega», perché avrebbe tradito il disegno complessivo perseguito dal legislatore delegante, volto a rivitalizzare l'istituto delle pene sostitutive; in particolare, avrebbe violato il criterio espresso dall'art. 1, comma 17, lettera c), della legge n. 134 del 2021, inteso ad assegnare al giudicante un apprezzamento discrezionale in relazione alle circostanze del caso concreto, sì da consentire l'applicazione della pena sostitutiva quando questa sia «più idonea di quella detentiva breve a rieducare il condannato e a prevenire la commissione di ulteriori reati».

5.- Con ordinanza depositata il 14 febbraio 2025, iscritta al n. 46 reg. ord. del 2025, la Corte d'appello di Firenze, seconda sezione penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 76 Cost., dell'art. 59, primo comma, lettera d), della legge n. 689 del 1981, come sostituito dall'art. 71, comma 1, lettera g), del d.lgs. n. 150 del 2022, nella parte in cui «non consente la sostituzione della pena detentiva nei confronti dell'imputato di uno dei reati di cui all'art. 4 bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, salvo che sia stata riconosciuta la circostanza attenuante di cui all'art. 323 bis, secondo comma, c.p.».

5.1.- Il giudice rimettente è investito dell'appello proposto dall'imputato P. T. contro la sentenza con la quale il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Firenze lo ha condannato, all'esito del giudizio abbreviato, alla pena di tre anni e due mesi di reclusione, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e di quella di cui all'art. 62, numero 6), cod. pen., per i reati di pornografia minorile (art. 600-ter cod. pen.) e violenza sessuale di gruppo aggravata (artt. 609-octies e 609-ter, numero 5, cod. pen.), in concorso con altro imputato, ai danni della minore A. A.

5.2.- In punto di rilevanza, il giudice a quo riferisce che, non avendo accolto la richiesta principale di concordato con rinuncia ai motivi di appello, né le altre richieste di merito di «assoluzione, riduzione della pena e sospensione condizionale della stessa, accesso a percorso di giustizia riparativa», dovrà confermare la responsabilità penale dell'imputato, per la quale ritiene non congrua una pena pari o inferiore a quella di due anni e sei mesi di reclusione. Sarà quindi chiamato a decidere «sulla quantificazione della pena che, per la sua entità, non potrà essere condizionalmente sospesa, e [sul]la valutazione della richiesta di applicazione di pene sostitutive ai sensi dell'art. 58, comma 1, legge n. 689/1981»: pene che apparirebbero «idonee alla rieducazione dell'imputato, incensurato e di giovane età, in tal modo assicurando la prevenzione del pericolo di reiterazione di condotte criminose».

Considerato, inoltre, che non vi sarebbero elementi ostativi alla formulazione di una prognosi positiva circa l'adempimento delle prescrizioni connesse alla pena sostitutiva («avendo [costui] già positivamente intrapreso un percorso di responsabilizzazione per uomini maltrattanti»), sussisterebbero tutti i presupposti normativamente previsti ai fini dell'applicazione delle pene sostitutive, se non fosse per il «chiaro dettato normativo» di cui all'art. 59, primo comma, lettera d), della legge n. 689 del 1981, nella parte in cui non consente di sostituire la pena detentiva breve nei confronti di un condannato (quale quello del giudizio a quo) per uno dei reati di cui all'art. 4-bis ordin. penit.

La rilevanza delle questioni, quindi, deriverebbe dal fatto che solo «previa declaratoria di illegittimità costituzionale della norma anzidetta» il giudice rimettente, «nell'irrogare una pena superiore ad anni due e mesi sei di reclusione», potrebbe applicare una pena sostitutiva alla detenzione.

5.3.- In punto di non manifesta infondatezza, esclusa la possibilità di una interpretazione costituzionalmente conforme della disposizione censurata, stante il carattere chiaro e univoco del dato normativo, il giudice a quo dubita della sua compatibilità con gli artt. 3, 27, terzo comma, e 76 Cost.

5.3.1.- In riferimento all'art. 76 Cost., il legislatore delegato avrebbe tradito le rationes sottese alla legge n. 134 del 2021; in particolare, avrebbe disatteso il principio e criterio direttivo rinvenibile nell'art. 1, comma 17, lettera c), della legge delega, che richiedeva al Governo di «prevedere che le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi possano essere applicate solo quando il giudice ritenga che contribuiscano alla rieducazione del condannato e assicurino, anche attraverso opportune prescrizioni, la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati; disciplinare conseguentemente il potere discrezionale del giudice nella scelta tra le pene sostitutive».

Le finalità della riforma delle pene sostitutive perseguite dal legislatore delegante emergerebbero «dalla relazione finale della Commissione di studio istituita con d.m. 16 marzo 2021 per elaborare proposte di riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale, nonché in materia di prescrizione del reato»; sulla base dei lavori di tale Commissione, infatti, sarebbe stato formulato l'emendamento 1.502 del 14 luglio 2021, di iniziativa governativa, al disegno di legge A.C. 2435, all'origine della delega conferita dall'art. 1, comma 17, della legge n. 134 del 2021.

Rivitalizzando l'istituto delle pene sostitutive, scarsamente utilizzato nella prassi, il legislatore delegante da un lato avrebbe inteso mettere a disposizione del giudice di cognizione, già nella fase di commisurazione della pena, risposte sanzionatorie alternative alle pene detentive brevi o comunque di durata contenuta, «in coerenza sia con il principio del minimo sacrificio necessario della libertà personale, sia con la necessaria finalità rieducativa della pena di cui all'art. 27, terzo comma, Cost.»; dall'altro lato, avrebbe perseguito lo scopo di incentivare definizioni alternative del processo, con conseguente alleggerimento complessivo dei carichi del sistema penale.

La ratio sottesa alla legge delega sarebbe espressa dall'art. 58 della legge n. 689 del 1981, secondo cui «le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi posso[no] essere applicate dal giudice solo allorché egli ritenga le stesse funzionali alla rieducazione del condannato e idonee a prevenire il pericolo di recidiva». Al giudice della cognizione, quindi, sarebbe rimesso, di regola, un apprezzamento discrezionale in relazione alle circostanze del caso concreto, sì da consentirgli di individuare la pena sostitutiva più adatta a perseguire tale duplice finalità. La modifica apportata dal legislatore delegato all'art. 59 della stessa legge, tuttavia, avrebbe sottratto al giudice della cognizione il predetto apprezzamento, introducendo una presunzione legale di inidoneità della sanzione sostitutiva «a perseguire i fini cui è preposta», destinata a venire meno solo quando sia stata riconosciuta l'attenuante di cui all'art. 323-bis, secondo comma, cod. pen.

5.3.2.- La preclusione di cui all'art. 59 della legge n. 689 del 1981 si porrebbe, inoltre, in contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost.

Per un verso, infatti, sarebbe «del tutto irragionevole ancorare una presunzione legale di inidoneità della pena sostitutiva a perseguire i fini di legge al mero titolo di reato addebitato all'imputato, a prescindere da una valutazione delle peculiarità del caso concreto», così da «aprire al rischio di trattare in maniera diversa situazioni differenziate dal titolo di reato ma connotate, in concreto, da eguale gravità».

Sarebbe parimenti irragionevole che, «al momento dell'applicazione di una sanzione di natura penale che deve avere carattere retributivo, specialpreventivo e rieducativo, non si consenta al giudice della cognizione di valutare le condizioni soggettive dell'autore del reato soprattutto ove queste, unite alle circostanze concrete in cui è stato commesso il fatto, consentano di escludere un rischio attuale di recidiva ovvero la possibilità di contenerlo con una misura efficace diversa dalla detenzione».

Infine, la preclusione impedirebbe al giudice della cognizione di «individualizzare il trattamento sanzionatorio attraverso l'applicazione di una pena sostitutiva a quella detentiva che, alla luce delle specificità del caso concreto», appaia idonea a «perseguire la funzione rieducativa del condannato più e meglio dell'esperienza detentiva in carcere, che, come noto, produce sovente un effetto desocializzante e di involuzione della persona, anche alla luce della situazione critica in cui versano le carceri italiane».

6.- È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque, non fondate.

6.1.- L'inammissibilità deriverebbe, innanzi tutto, dalla omessa motivazione sulla rilevanza delle questioni, poiché il giudice rimettente non avrebbe «affatto chiarito quale sarebbe nel caso di specie la pena sostitutiva concretamente applicabile, essendosi limitato soltanto a riferirsi ad una eventuale e futura pena superiore ad anni due e mesi sei di reclusione e rendendo così la questione anche meramente ipotetica».

In secondo luogo, le questioni sarebbero inammissibili per erronea ricostruzione del quadro normativo di riferimento sulla cui base viene dedotta la violazione dell'art. 76 Cost. Il giudice a quo, infatti, avrebbe denunciato il tradimento dei principi e criteri direttivi ricavabili dall'art. 1, comma 17, lettera c), della legge n. 134 del 2021, omettendo tuttavia di richiamare i principi direttivi posti dalla successiva lettera d), con i quali si demandava espressamente di «ridisciplinare opportunamente le condizioni soggettive per la sostituzione della pena detentiva, assicurando il coordinamento con le preclusioni previste dall'ordinamento penitenziario per l'accesso alla semilibertà e alla detenzione domiciliare».

Sarebbe la stessa relazione illustrativa al d.lgs. n. 150 del 2022 a spiegare la ragionevolezza e l'opportunità di operare un coordinamento con le preclusioni all'accesso alle misure alternative, previste dalla legge n. 354 del 1975, «escludendo la sostituzione della pena detentiva in caso di condanna per uno dei reati di cui all'art. 4 bis ord. penit.», atteso che, in caso contrario, «la disciplina dell'art. 4 bis ord. penit. (e dell'art. 656, co. 9 c.p.p.) risulterebbe sostanzialmente elusa: sarebbe irragionevole limitare la concessione della semilibertà e della detenzione domiciliare, quali misure alternative alla detenzione, subordinandole alla collaborazione e alle ulteriori stringenti condizioni sostanziali e procedurali previste dall'art. 4 bis e, per altro verso, consentire al giudice all'esito del giudizio di cognizione di applicare la semilibertà sostitutiva o la detenzione domiciliare sostitutiva o, addirittura, il lavoro di pubblica utilità sostitutivo».

6.2.- Nel merito, le questioni sarebbero manifestamente infondate in riferimento a tutti i parametri evocati.

6.2.1.- Sotto un primo profilo, l'Avvocatura ricorda la giurisprudenza costituzionale sul sindacato al metro dell'art. 76 Cost. e sul margine di discrezionalità che compete al legislatore delegato nel dare attuazione alla legge di delega, da esercitarsi in modo coerente nel complessivo quadro normativo, rispettando la ratio della norma delegante.

Particolare rilievo, tra le altre, avrebbe la sentenza di questa Corte n. 84 del 2024, che, nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale di altra disposizione del d.lgs. n. 150 del 2022 (l'art. 71), sollevata sulla base di un dedotto eccesso di delega, avrebbe evidenziato il «fisiologico margine di discrezionalità connaturato all'istituto stesso della delegazione legislativa: margine che è specialmente ampio - fatte salve eventuali puntuali indicazioni su singoli profili che la legge delega abbia comunque fornito - nel caso in cui il Governo sia chiamato a riforme normative di ampio respiro, come quella oggetto della legge n. 134 del 2021 e poi attuata con il d.lgs. n. 150 del 2022».

Anche la Corte di cassazione, nel motivare la ritenuta manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 59 della legge n. 689 del 1981, prospettata in riferimento all'art. 3 Cost., nella parte in cui esclude la sostituibilità della pena detentiva nei confronti dell'imputato di uno dei reati di cui all'art. 4-bis ordin. penit., avrebbe ritenuto la scelta legislativa espressione legittima della discrezionalità politica (è richiamata Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 16 febbraio-2 aprile 2024, n. 13225).

Alla stregua dei richiamati principi, il legislatore delegato non sarebbe incorso in alcun eccesso di delega, atteso che l'intervento sulle condizioni soggettive per la sostituzione della pena detentiva sarebbe «pienamente conforme all'art. 76 Cost., non travalicando affatto i principi e i criteri dell'art. 1, comma 17, letter[e] c) e d) della legge n. 134/2021, tenuto conto del complessivo contesto normativo nel quale essi si inseriscono».

6.2.2.- Né sarebbe ravvisabile la dedotta violazione degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., stante l'espressa previsione legislativa del necessario coordinamento con le preclusioni previste dall'ordinamento penitenziario per l'accesso alla semilibertà e alla detenzione domiciliare, le quali si farebbero «esse stesse carico di realizzare la necessaria individualizzazione del quantum sanzionatorio, tenuto conto proprio delle peculiarità delle singole situazioni concrete in ragione del differenziato disvalore insito nella condanna per date fattispecie delittuose (quali quelle di cui all'art. 4-bis ord. pen.), fatte salve le ipotesi - proprio nell'ottica della evocata personalizzazione trattamentale - in cui sia stata ritenuta applicabile la circostanza attenuante della collaborazione di cui all'art. 323-bis, co. 2 c.p.».

7.- Si è costituito in giudizio P. T., imputato nel giudizio principale, chiedendo l'accoglimento delle questioni.

7.1.- Nel riproporre gli argomenti spesi dal giudice rimettente, la parte pone in rilievo i principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 84 del 2024. La pronuncia avrebbe valorizzato le finalità sottese alla riforma, volte - come indicato nella relazione finale della Commissione di studio istituita con d.m. 16 marzo 2021 - non solo ad evitare gli effetti desocializzanti del carcere, ma anche a realizzare risultati di deflazione processuale, «in coerenza sia con il principio del minimo sacrificio necessario della libertà personale [...], sia con la necessaria finalità rieducativa della pena di cui all'art. 27, terzo comma, Cost., che deve accompagnare la pena "da quando nasce, nell'astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue" (sentenza n. 313 del 1990, punto 8 del Considerato in diritto), e dunque anche nella fase di determinazione del trattamento sanzionatorio appropriato da parte del giudice della cognizione».

L'esclusione della sostituzione della pena detentiva nei confronti dell'imputato di uno dei reati di cui all'art. 4-bis ordin. penit., a parere della parte, avrebbe tradito le rationes sottese alla stessa delega, producendo «l'esaltazione del tipo di autore, costruito attorno al delitto commesso e non al percorso svolto e da poter svolgere extra moenia».

Anche a leggere tale preclusione quale riflesso di una presunzione di pericolosità sociale, ne sarebbero irragionevoli i tratti di assolutezza, a fronte della relatività della corrispondente presunzione di pericolosità sociale, in base all'astratto titolo di reato, inserita nell'ordinamento penitenziario, che prevede i presupposti per il suo superamento.

L'«eccessività della fattispecie preclusiva» risulterebbe anche dal raffronto con il diverso regime riservato alla sospensione condizionale della pena, che, sebbene sia misura «tendenzialmente priva di contenuti sanzionatori», sarebbe applicabile anche ai condannati per reato ostativo.

7.2.- La norma censurata tradirebbe anche la funzione rieducativa della pena, «scopo principale della pena nella fase della sua esecuzione (se non addirittura esclusivo)», che avrebbe «un indiscusso diritto di cittadinanza anche nella fase edittale e commisurativa». Per assicurare che la pena risponda a tale funzione, il giudice non dovrebbe limitarsi «a quantificare aritmeticamente la pena corrispondente alla gravità del reato commesso, alla mera stregua della teoria retributiva», ma dovrebbe «ponderare anche (e soprattutto) le ricadute di altro tipo (nel caso di specie, l'arresto obbligatorio per mancata sospensione dell'ordine di carcerazione)», nonché «valutare la razionalità, sotto il profilo del rispetto del principio di proporzione e ragionevolezza, della scelta legislativa che commisuri la risposta punitiva (complessivamente intesa) ad un determinato atteggiamento antisociale».

A riscontro della centralità della valutazione del giudice sulla effettiva capacità rieducativa e risocializzante della pena, per «la necessità costituzionale [...] che la pena debba tendere ad educare», la difesa richiama «la (storica) sentenza n. 313 del 1990 con la quale la Corte ha dichiarato la illegittimità dell'art. 444, comma 2, c.p.p., nella parte in cui tale disposizione processuale non prevedeva la possibilità per il giudice di valutare la congruità della pena "patteggiata" dalle parti e quindi la connessa possibilità, da parte del primo, di rigettare tale schema negoziale».

Una conferma dell'importanza del finalismo rieducativo e della «relazione stretta tra finalità rieducativa e giudizio di proporzione della pena, non solo nella sua accezione quantitativa, ma anche qualitativa», si trarrebbe altresì dalle pronunce di questa Corte, quali la sentenza n. 341 del 1994, nelle quali viene ribadito che il principio rieducativo «comporta, oltre al ridimensionamento delle concezioni assolute della pena, la valutazione del soggetto, reo o condannato, in ogni momento della dinamica penal sanzionatoria (previsione astratta, commisurazione ed esecuzione)», fino alla più recente sentenza n. 46 del 2024, ove si pone in evidenza come la Corte sia chiamata ad esercitare il suo controllo «con tanta maggiore attenzione, quanto più la legge incida sui diritti fondamentali della persona».

7.3.- Sarebbe irragionevole, poi, che per coloro i quali si trovino detenuti al momento in cui la condanna riportata diviene definitiva valga la regola di cui all'art. 656, comma 9, lettera b), cod. proc. pen. (per cui la sospensione dell'esecuzione della pena detentiva non può essere disposta) e non possa valere la regola contraria, consentendo anche in caso di condanna per «delitti a vario titolo ostativi» l'applicazione di una pena sostitutiva sin dalla fase della cognizione nei confronti di imputati non sottoposti ad alcuna misura coercitiva (e per i quali, quindi, il giudicante abbia ritenuto insussistenti sia il pericolo di fuga che il pericolo di reiterazione del reato).

Né giustificherebbe la preclusione la disciplina concernente il periodo annuale di osservazione scientifica della personalità, ex art. 4-bis, comma 1-quater, ordin. penit., in materia di reati «a natura sessuale». Rileverebbe, al riguardo, la divergenza nel quomodo tra misure alternative e pene sostitutive (già ritenuta nelle sentenze di questa Corte) e la possibilità che (come sarebbe accaduto nel caso di specie) «il soggetto svolga extra moenia un percorso terapeutico efficace [...], sì da rendere inutile (e anzi, tardivo e nocivo) anche un percorso detentivo con l'anno di osservazione scientifica della personalità in istituto».

Tenere conto, nella determinazione dell'anno di osservazione, di programmi terapeutici eventualmente già svolti dopo la commissione del reato e antecedentemente all'inizio dell'esecuzione della pena, secondo un modello conforme alla «proposta licenziata dalla "Commissione Giostra" per la riforma dell'ordinamento penitenziario», consentirebbe di superare «il paradosso di una disciplina penitenziaria (successiva alla c.d. "riforma Cartabia") che supera le ostatività, laddove in materia di pene sostitutive il mero titolo di reato priverebbe il giudice del giudizio da operarsi in concreto».

7.4.- A segnare l'irragionevolezza della disciplina di cui all'art. 59 della legge n. 689 del 1981 sarebbero anche gli effetti discriminatori già denunciati dal GUP di Firenze (con l'ordinanza iscritta al n. 130 reg. ord. del 2024), ai cui rilievi la parte aggiunge il richiamo a un precedente della giurisprudenza di merito in cui la detenzione domiciliare sostitutiva sarebbe stata applicata anche per il reato di tortura, a fronte di «vicende sicuramente drammatiche» e tuttavia non riconducibili a delitti compresi nel catalogo di cui all'art. 4-bis ordin. penit.

8.- Ai sensi dell'art. 6 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, l'Unione camere penali italiane (UCPI), a titolo di amicus curiae, ha depositato un'opinione scritta, ammessa con decreto presidenziale del 16 maggio 2025, con la quale chiede che questa Corte accolga le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte d'appello di Firenze.

Gli argomenti svolti a sostegno della richiesta sono analoghi a quelli proposti dal giudice e dalla difesa della parte e fanno leva sul contrasto della norma censurata con gli artt. 3, 27, terzo comma, e 76 Cost. In particolare, secondo l'amicus curiae:

- la presunzione di inidoneità delle pene sostitutive a conseguire le finalità rieducative, nei confronti del soggetto che sia imputato di uno dei reati di cui all'art. 4-bis ordin. penit. tradirebbe l'intento del legislatore delegante di rivitalizzare l'istituto delle pene sostitutive e disciplinare il potere discrezionale del giudice nella scelta tra tali pene, tanto più che la nuova disciplina si porrebbe «su un piano contraddittoriamente peggiorativo rispetto alla precedente formulazione dell'art. 59 L. 689/81, che [...] non prevedeva alcuna preclusione per l'applicazione delle sanzioni sostitutive con riferimento ai reati inclusi nel catalogo dell'art. 4 bis O.P.»;

- sarebbe del tutto irragionevole ancorare una presunzione legale di inidoneità della pena sostitutiva a perseguire i fini di legge al mero titolo di reato addebitato all'imputato, a prescindere da una valutazione delle peculiarità del caso concreto e senza neppure alcun riferimento alle ipotesi di superamento delle ostatività previste dall'ordinamento penitenziario.

9.- In prossimità dell'udienza pubblica, la difesa dell'imputato ha depositato una memoria nella quale replica alle eccezioni della difesa dello Stato, ribadisce gli argomenti già svolti nell'atto di costituzione in giudizio e richiama anche quelli spesi dall'amicus curiae, sottolineando come «l'esigenza di compatibilità della disciplina introdotta dal legislatore delegato rispetto alla normativa penitenziaria non esprimesse affatto l'obbligo di intervenire allo stesso modo delle misure alternative alla detenzione».

La parte ribadisce, inoltre, il carattere distonico della lettura dei criteri di delega fatta propria dal legislatore della riforma, nonché gli argomenti di carattere logico e sistematico che militerebbero a favore della prospettata illegittimità costituzionale della norma censurata, ritenendo che ben più efficace dell'anno di osservazione intra moenia sarebbe la possibilità di ricorrere alla «Intesa, ai sensi dell'art. 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, tra il Governo, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, sui requisiti minimi dei centri per uomini autori di violenza domestica e di genere, del 14 settembre 2022» (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, serie generale, n. 276 del 2022).

10.- Anche l'Avvocatura generale dello Stato ha depositato una memoria in prossimità dell'udienza pubblica, con la quale aggiunge ulteriori argomenti alle ragioni di inammissibilità e infondatezza delle questioni già prospettate con l'atto di intervento.

10.1.- Sotto un primo profilo, denuncia l'inammissibilità «derivante dall'ambiguità e dal petitum aberrante formulato dal giudice rimettente».

Evidenzia, a tale riguardo, che l'imputato è sottoposto a giudizio, in concorso con altro autore, per il reato di pornografia minorile e violenza sessuale di gruppo aggravata dalla minore età della vittima. A fronte di tale imputazione, il giudice rimettente richiederebbe a questa Corte un petitum demolitorio il cui difetto di rilevanza nel giudizio a quo apparirebbe «già palmare», in quanto «non [...] limitato al solo scrutinio di preclusione dell'acceso alle sanzioni sostitutive derivante dai due reati in questione, ma [...] esteso a tutto il catalogo dei reati indicati dall'art. 4-bis dell'ordinamento penitenziario, tra cui l'associazione a delinquere di stampo mafioso e il sequestro di persona a scopo di estorsione». Né il giudice a quo avrebbe perimetrato la preclusione censurata (nel caso dei reati per cui si procede) in relazione a specifiche pene sostitutive, proponendo invece «un'ambigua formulazione del petitum in relazione a tutte le possibili tipologie di sanzioni sostitutive previste dalla legge».

10.2.- Quanto al merito delle questioni, la difesa dello Stato ribadisce i motivi di infondatezza della censura di eccesso di delega, ripercorrendo nuovamente ratio e portata della cosiddetta riforma Cartabia.

Una «argomentazione generica, dai contenuti impalpabili», sorreggerebbe poi la censura di violazione dell'art. 3 Cost., incentrata sulla pretesa impossibilità, per il giudice della cognizione, di individuare la sanzione più adeguata al caso concreto, ma in realtà riconducibile a «una critica di politica giudiziaria e criminale, nel merito della scelta effettuata dal legislatore». Tale scelta, peraltro, esprimerebbe «un razionale bilanciamento di cause soggettive ed oggettive ostative», inteso a limitare ragionevolmente la discrezionalità del giudicante a fronte di «un enorme allargamento dell'area di punibilità» entro la quale le pene sostitutive sono divenute applicabili.

In ordine alle censure al metro dell'art. 27 Cost., infine, l'interveniente aggiunge alcune considerazioni in ordine alla «natura polifuzionale» della pena, riconosciuta nella giurisprudenza costituzionale (sono richiamate le sentenze n. 12 del 1966, n. 264 del 1974, n. 313 del 1990 e n. 282 del 1998) e critica la prospettazione del giudice, «secondo cui prevedere un catalogo di gravissimi reati per cui non risulta possibile accedere alle misure sostitutive - per reati puniti con pene edittale assai elevate - [violerebbe] l'art. 27 Cost.», per «il suo radicale sbilanciamento sulla stessa natura costituzionale della pena di cui [verrebbe] obliterata ogni funzione che non sia esclusivamente rieducativa».

11.- Il 6 giugno 2025, nel giudizio originato dall'ordinanza iscritta al n. 130 reg. ord. del 2024, è stato depositato atto di intervento ad adiuvandum da parte di G. R., imputato in un procedimento penale diverso da quelli a quibus.

L'interveniente sostiene di essere titolare di un interesse diretto, concreto e qualificato all'esito del giudizio, poiché la sua posizione processuale sarebbe direttamente e inscindibilmente legata alla statuizione di questa Corte in merito alla legittimità costituzionale della norma impugnata. Espone, a tal fine, di essere stato condannato per il delitto di rapina aggravata (art. 628, terzo comma, cod. pen.), rientrante nel catalogo dei reati cosiddetti ostativi, ai sensi dell'art. 4-bis ordin. penit., e di avere proposto ricorso per cassazione contro la sentenza di secondo grado, lamentando, tra l'altro, l'errata applicazione del divieto di sostituzione della pena detentiva di cui all'art. 59 della legge n. 689 del 1981 e chiedendo di sollevare al riguardo questione di legittimità costituzionale. La Corte di cassazione avrebbe rinviato il giudizio all'udienza del 1° ottobre 2025, «ritenuta l'opportunità di attendere la decisione della Corte costituzionale su questione potenzialmente suscettibile di incidere sulla decisione» (ordinanza del 6 giugno 2025, depositata dall'interveniente il successivo 10 giugno).

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.- Con l'ordinanza iscritta al n. 130 reg. ord. del 2024, il GUP del Tribunale di Firenze ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell'art. 59 della legge n. 689 del 1981, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., «laddove la norma prevede, in via assoluta, che la pena detentiva non possa essere sostituita nei confronti di imputati infraventunenni di reati di cui all'art. 609 bis c.p. anche quando il giudice ritenga che il rischio di recidiva possa essere salvaguardato dall'applicazione [di] una sanzione sostitutiva».

2.- Con l'ordinanza iscritta al n. 46 reg. ord. del 2025, la Corte d'appello di Firenze, sezione seconda penale, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale della medesima disposizione, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 76 Cost., nella parte in cui «non consente la sostituzione della pena detentiva nei confronti dell'imputato di uno dei reati di cui all'art. 4 bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, salvo che sia stata riconosciuta la circostanza attenuante di cui all'art. 323 bis, secondo comma, c.p.».

3.- Le ordinanze prospettano questioni in larga parte analoghe afferenti alla stessa disposizione, sicché i relativi giudizi meritano di essere riuniti per essere definiti con unica decisione.

In effetti, entrambi i rimettenti si dolgono - in sostanza - della preclusione assoluta alla concessione di pene sostitutive delle pene detentive brevi per gli imputati di uno dei reati di cui all'art. 4-bis ordin. penit. stabilita dalla disposizione censurata.

Secondo la lettera di tale disposizione, la preclusione in parola viene meno soltanto nell'ipotesi in cui si tratti di imputato nei cui confronti sia stata riconosciuta la circostanza attenuante di cui all'art. 323-bis, secondo comma, cod. pen., integrata in caso di collaborazione processuale rispetto a una serie di delitti contro la pubblica amministrazione. Tuttavia, in seguito all'estromissione dei delitti contro la pubblica amministrazione dal catalogo dei reati cosiddetti "ostativi" di cui all'art. 4-bis ordin. penit. - estromissione operata dal decreto-legge 31 ottobre 2022, n. 162 (Misure urgenti in materia di divieto di concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia, nonché in materia di termini di applicazione delle disposizioni del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, e di disposizioni relative a controversie della giustizia sportiva, nonché di obblighi di vaccinazione anti SARS-CoV-2, di attuazione del Piano nazionale contro una pandemia influenzale e di prevenzione e contrasto dei raduni illegali), convertito, con modificazioni, nella legge 30 dicembre 2022, n. 199 -, tale eccezione ha perso ogni significato pratico. Conseguentemente, l'accesso alle pene sostitutive è oggi precluso, senza eccezioni, agli imputati di tutti i reati menzionati dall'art. 4-bis ordin. penit.

Proprio di tale preclusione si dolgono le ordinanze di rimessione, le quali assumono che la sua assolutezza si ponga in contrasto con i principi di eguaglianza (art. 3 Cost.) e della funzione rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.).

Secondo la Corte d'appello di Firenze, inoltre, il legislatore delegato, nell'introdurre la disposizione censurata, si sarebbe discostato dal criterio direttivo di cui all'art. 1, comma 17, lettera c), della legge delega n. 134 del 2021, con conseguente violazione dell'art. 76 Cost.

4.- Deve essere, anzitutto, ribadita l'inammissibilità dell'intervento di G. R., imputato di rapina aggravata (e dunque anch'egli soggetto alla preclusione contestata) in un procedimento penale distinto da quelli a quibus, per le ragioni già indicate nell'ordinanza in calce alla presente sentenza.

5.- Ancora in via preliminare, conviene precisare l'oggetto delle questioni di legittimità costituzionale ora all'esame di questa Corte.

Il GUP del Tribunale di Firenze limita espressamente le proprie questioni all'ipotesi in cui il reato ostativo sia la violenza sessuale e l'imputato sia, come nel giudizio a quo, infraventunenne al momento della commissione del fatto.

La Corte d'appello di Firenze formula, invece, le questioni in modo più ampio, dubitando della legittimità costituzionale della preclusione in relazione all'intero novero (invero, assai eterogeneo) dei reati di cui all'art. 4-bis ordin. penit. e a prescindere dall'età del loro autore.

Le questioni complessivamente sottoposte a questa Corte concernono, dunque, la preclusione alle pene sostitutive stabilita dalla disposizione censurata, con riferimento a tutti i reati di cui all'art. 4-bis ordin. penit.

6.- Quanto all'ammissibilità delle questioni, occorre osservare quanto segue.

6.1.- Rispetto all'ordinanza del GUP di Firenze, l'Avvocatura generale dello Stato eccepisce l'«indeterminatezza e irrilevanza» delle questioni ivi prospettate.

In primo luogo, la giudice rimettente non avrebbe chiarito come sia giunta a determinare in quattro anni di reclusione la pena irrogata; sicché, laddove tale determinazione fosse incongrua, essa potrebbe essere aumentata in sede di appello, con conseguente superamento del limite massimo (appunto, di quattro anni) entro il quale è possibile la sostituzione.

In secondo luogo, la giudice formulerebbe la questione con riferimento alla fattispecie base di violenza sessuale di cui all'art. 609-bis cod. pen., quando invece il reato del quale l'imputato è stato riconosciuto colpevole risulterebbe aggravato ai sensi dell'art. 609-ter cod. pen.

6.1.1.- La prima eccezione è ictu oculi infondata: avendo già inflitto, con la pronuncia di condanna, la pena di quattro anni di reclusione, la rimettente si trova ora - nell'ambito dell'udienza di cui all'art. 545-bis cod. proc. pen. - a valutare la richiesta dell'imputato di applicazione di una pena sostitutiva, il cui accoglimento è però precluso dalla disposizione censurata. La sua parziale ablazione, auspicata dalla rimettente, le consentirebbe di valutare l'applicazione di una pena sostitutiva. Tanto basta ad assicurare la rilevanza delle questioni prospettate nel processo a quo: e ciò a prescindere dall'esito che potrebbe avere un ipotetico ed eventuale giudizio di appello avente a oggetto la misura della pena detentiva irrogata.

6.1.2.- La seconda eccezione è parimenti infondata, posto che - anche laddove la rimettente non avesse riconosciuto, in sentenza, le aggravanti contestate - il delitto di violenza sessuale nella sua forma base sarebbe già sufficiente a fare operare la preclusione censurata, salvo che ricorra la circostanza attenuante di cui all'art. 609-bis, terzo comma, cod. pen. (la quale, ove applicata, renderebbe inoperante il regime ostativo, ai sensi dell'art. 4-bis, comma 1-quater, ordin. penit.): circostanza che tuttavia non risulta essere stata applicata nel giudizio a quo.

6.2.- Rispetto poi all'ordinanza della Corte d'appello di Firenze, l'Avvocatura generale dello Stato ha eccepito:

- l'omessa motivazione della rilevanza delle questioni, non essendosi chiarito quale sarebbe nel caso concreto la pena sostitutiva concretamente applicabile;

- l'erronea ricostruzione del quadro normativo di riferimento, avendo la Corte rimettente omesso di richiamare i principi direttivi dettati dalla lettera d) dell'art. 1, comma 17, della legge delega n. 134 del 2021;

- l'ambiguità e il carattere «aberrante» del petitum, che mirerebbe a una pronuncia ablativa della preclusione non già con esclusivo riferimento ai reati di cui trattasi nel procedimento a quo, ma in relazione all'intero catalogo dei reati di cui all'art. 4-bis ordin. penit.

6.2.1.- La prima eccezione è infondata. Nel processo a quo, a differenza di quanto accaduto nel giudizio pendente avanti al GUP di Firenze, la Corte d'appello rimettente - che pure ha chiarito, nell'ordinanza di rimessione, la propria intenzione di confermare la responsabilità dell'imputato - non si è ancora pronunciata sulla misura della pena, essendosi semplicemente limitata a giudicare non congrua la sua riduzione nella misura indicata nella richiesta di concordato in appello (due anni e sei mesi di reclusione). Tuttavia, in mancanza di impugnazione da parte della pubblica accusa, in esito al giudizio di appello non potrà essere superata, stante il divieto di reformatio in peius, la pena già inflitta in primo grado di tre anni e due mesi di reclusione: una pena, dunque, che sarebbe suscettibile di sostituzione, quanto meno, con la semilibertà o la detenzione domiciliare, laddove venisse meno la preclusione denunciata. Con conseguente sicura rilevanza delle questioni prospettate.

6.2.2.- La seconda eccezione, concernente l'omessa considerazione di un criterio di delega distinto da quello evocato dalla Corte rimettente, attiene con tutta evidenza al merito della questione, e deve pertanto essere rigettata.

6.2.3.- La terza eccezione è, parimenti, infondata. La questione, lungi dal risultare ambigua, è del tutto chiara nei suoi contorni; né potrebbe essere ritenuta «aberrante» per il solo fatto di investire in toto la preclusione posta dalla lettera d) dell'art. 59, primo comma, della legge n. 689 del 1981, relativa all'intera gamma dei reati ostativi di cui all'art. 4-bis ordin. penit., anziché alle sole fattispecie criminose oggetto del procedimento a quo (violenza sessuale di gruppo e pornografia minorile).

La Corte rimettente ha, infatti, correttamente sottoposto all'esame di questa Corte la disposizione in parola, che si riferisce indistintamente ai reati di cui all'art. 4-bis ordin. penit. Nel farlo, essa avrebbe potuto - come ha fatto il GUP di Firenze - circoscrivere il petitum alle sole fattispecie criminose oggetto del processo a quo. Tuttavia, va ribadito che questa Corte «rimane libera di individuare la pronuncia più idonea alla reductio ad legitimitatem della disposizione censurata» (sentenza n. 221 del 2023, punto 4 del Considerato in diritto, con estesa motivazione, e poi - tra le altre - sentenze n. 103 del 2025, punto 5.1. del Considerato in diritto; n. 53 del 2025, punto 2 del Considerato in diritto; n. 176 del 2024, punto 2 del Considerato in diritto; n. 138 del 2024, punto 4.2. del Considerato in diritto; n. 90 del 2024, punto 3.1. del Considerato in diritto; n. 46 del 2024, punto 4.2. del Considerato in diritto; n. 12 del 2024, punto 8 del Considerato in diritto), spettando in ogni caso a questa Corte la precisa delimitazione della questione di legittimità costituzionale all'interno dei confini del devolutum, segnati dalla disposizione censurata e dai parametri costituzionali evocati (art. 23, primo comma, della legge n. 87 del 1953), oltre che dal "verso" della questione (ancora, sentenza n. 221 del 2023, punto 4 del Considerato in diritto).

7.- Nel merito, ha priorità logica l'esame della questione sollevata dalla Corte d'appello di Firenze in riferimento all'art. 76 Cost., che attiene al procedimento di formazione dell'atto avente forza di legge censurato.

Assume la Corte rimettente che il legislatore delegato, nello stabilire una preclusione assoluta di accesso alle pene sostitutive per tutti gli imputati dei reati di cui all'art. 4-bis ordin. penit. (eccezion fatta per quelli soli ai quali sia stata riconosciuta l'attenuante di cui all'art. 323-bis cod. pen.) avrebbe violato il criterio di delega di cui all'art. 1, comma 17, lettera c), della legge n. 134 del 2021, che delegava il Governo a «prevedere che le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi possano essere applicate solo quando il giudice ritenga che contribuiscano alla rieducazione del condannato e assicurino, anche attraverso opportune prescrizioni, la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati; disciplinare conseguentemente il potere discrezionale del giudice nella scelta tra le pene sostitutive».

In sintesi, secondo la rimettente, il senso della delega sarebbe stato quello di conferire al giudice della cognizione - in omaggio ai principi costituzionali del minimo sacrificio necessario della libertà personale e della finalità rieducativa della pena, nonché nell'ottica di incentivare definizioni alternative del processo - il potere discrezionale di individuare, in ciascun caso concreto, la pena più adatta ad assicurare la rieducazione del condannato e, assieme, la prevenzione del pericolo di recidiva. La preclusione censurata avrebbe, invece, ingiustificatamente eliminato tale potere discrezionale per tutti gli imputati dei reati di cui all'art. 4-bis ordin. penit., tradendo così la ratio stessa della legge delega.

La censura non è fondata.

7.1.- Come giustamente rileva l'Avvocatura generale dello Stato, la Corte rimettente omette di considerare il criterio, immediatamente successivo a quello da essa invocato, di cui alla lettera d) dell'art. 1, comma 17, della legge delega, che impegnava il Governo a «ridisciplinare opportunamente le condizioni soggettive per la sostituzione della pena detentiva, assicurando il coordinamento con le preclusioni previste dall'ordinamento penitenziario per l'accesso alla semilibertà e alla detenzione domiciliare» [corsivo aggiunto].

L'obiettivo del legislatore delegante era, dunque, quello di assicurare un coordinamento, quanto alle possibilità di accesso, tra le pene sostitutive della semilibertà e della detenzione domiciliare e le corrispondenti misure alternative alla detenzione della semilibertà e della detenzione domiciliare, previste dall'ordinamento penitenziario: misure, queste ultime, che condividono il medesimo nomen iuris delle prime, pur senza mutuarne necessariamente i contenuti (sentenze n. 176 del 2024, punto 3 del Considerato in diritto, e n. 84 del 2024, punti 3 e 3.3.1. del Considerato in diritto). Ciò all'evidente fine di evitare che, in sede di giudizio di cognizione, fossero garantite più ampie possibilità di accesso a tali pene sostitutive rispetto alle possibilità del condannato di beneficiare, in sede di esecuzione, delle corrispondenti misure alternative.

7.2.- Come evidenziato nella relazione illustrativa al d.lgs. n. 150 del 2022, la previsione dell'art. 59, primo comma, lettera d), della legge n. 689 del 1981, in questa sede censurata, è stata introdotta dal legislatore delegato in specifica attuazione del criterio di cui alla lettera d) dell'art. 1, comma 17, della legge delega n. 134 del 2021.

Nella relazione si osserva infatti, quanto alla riscrittura dell'art. 59 della legge n. 689 del 1981 operata dal decreto legislativo, che «[l]e prime tre condizioni soggettive (lett. a-c) si sostituiscono alle quattro previste oggi dal primo e dal secondo comma dell'art. 59. La quarta condizione (lett. d) assicura il coordinamento con le preclusioni previste dall'ordinamento penitenziario, conformemente alla legge delega».

La relazione prosegue sottolineando che «pene detentive di breve durata, non superiori a quattro anni, possono essere inflitte anche agli autori di reati inclusi nel catalogo dell'art. 4 bis ord. penit.», come del resto dimostra «la previsione dell'art. 656, co. 9 c.p.p., che esclude la sospensione dell'ordine di esecuzione ex art. 656, co. 5 c.p.p. nei confronti dei condannati per reati di cui all'art. 4 bis ord. penit.». Nella necessità di dare attuazione al criterio di delega, il Governo ha dunque ritenuto che «un ragionevole e opportuno coordinamento con le preclusioni all'accesso alle misure alternative, previste dalla l. n. 354/1975, debba essere realizzato escludendo la sostituzione della pena detentiva in caso di condanna per uno dei reati di cui all'art. 4 bis ord. penit.». Infatti, «[s]e non si prevedesse una simile preclusione, [...] la disciplina dell'art. 4 bis ord. penit. (e dell'art. 656, co. 9 c.p.p.) risulterebbe sostanzialmente elusa: sarebbe irragionevole limitare la concessione della semilibertà e della detenzione domiciliare, quali misure alternative alla detenzione, subordinandole alla collaborazione e alle ulteriori stringenti condizioni sostanziali e procedurali previste dall'art. 4 bis e, per altro verso, consentire al giudice all'esito del giudizio di cognizione di applicare la semilibertà sostitutiva o la detenzione domiciliare sostitutiva o, addirittura, il lavoro di pubblica utilità sostitutivo».

La relazione precisa, ulteriormente, che «[c]onsentire tout court l'applicazione delle pene sostitutive in ordine ai reati di cui all'art. 4 bis ord. penit. non realizzerebbe alcun coordinamento con l'ordinamento penitenziario e contrasterebbe con l'indicazione della legge delega. Detto ciò, si ritiene che l'unica ipotesi in cui sia possibile e ragionevole sostituire la pena detentiva in caso di condanna per uno dei reati di cui all'articolo 4 bis sia quella in cui il giudice di cognizione ritiene applicabile la circostanza attenuante della collaborazione di cui all'art. 323 bis, co. 2 c.p., richiamata dall'art. 4 bis per individuare la condotta collaborativa che funge da presupposto per la concessione delle misure alternative alla detenzione nei confronti dei condannati per alcuni delitti contro la pubblica amministrazione. Se il giudice di cognizione ha già accertato la collaborazione rilevante ai fini dell'art. 4 bis, non vi è ragione per precludere l'applicazione delle pene sostitutive, anticipando la concessione delle misure alternative da parte del tribunale di sorveglianza».

7.3.- I difensori degli imputati e l'amicus curiae sostengono, tuttavia, che l'esigenza - imposta dal criterio di delega di cui alla lettera d) dell'art. 1, comma 17, della legge n. 134 del 2021 - di assicurare la compatibilità della disciplina rispetto alla normativa penitenziaria non comportasse affatto la necessità, per il legislatore delegato, di dettare per le pene sostitutive una disciplina pressoché identica a quella prevista per le misure alternative alla detenzione; e aggiungono che, comunque, tale esigenza sarebbe stata perseguita «su un piano contraddittoriamente peggiorativo» rispetto alla precedente formulazione dell'art. 59 della legge n. 689 del 1981, che non prevedeva alcuna preclusione per l'applicazione delle sanzioni sostitutive con riferimento ai reati inclusi nel catalogo dell'art. 4-bis ordin. penit.

Inoltre, essi ritengono che, anche ove si volesse giustificare la preclusione introdotta per i reati di cui all'art. 4-bis ordin. penit. quale riflesso di una presunzione di pericolosità sociale, ne sarebbero irragionevoli i tratti di assolutezza, a fronte della relatività della corrispondente presunzione di pericolosità sociale stabilita nell'ordinamento penitenziario per le varie categorie di reati ostativi, che oggi prevede precise condizioni per il suo superamento in ciascun caso concreto.

7.4.- Al riguardo, occorre però rammentare che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte in materia di delegazione legislativa, il Governo gode in via generale di ampi poteri di «"riempimento" normativo» dei criteri indicati dalla legge delega, entro i limiti fissati dal suo oggetto e dalla sua ratio, e all'interno comunque delle scelte di fondo da essa fissati (sentenza n. 22 del 2024, punti 7 e 8 del Considerato in diritto, e ivi ampi riferimenti alla giurisprudenza precedente). Recentemente, proprio a proposito dell'incisiva riforma compiuta mediante il d.lgs. n. 150 del 2022, in attuazione della legge delega n. 134 del 2021, si è altresì precisato che il «fisiologico margine di discrezionalità connaturato all'istituto stesso della delegazione» è «specialmente ampio - fatte salve eventuali puntuali indicazioni su singoli profili che la legge delega abbia comunque fornito - nel caso in cui il Governo sia chiamato a riforme normative di ampio respiro [...], le quali richiedono interventi su distinti corpora normativi e complesse operazioni di coordinamento sistematico tra le molteplici discipline su cui la riforma deve necessariamente incidere» (sentenza n. 84 del 2024, punto 3.5. del Considerato in diritto).

Alla luce di tali indicazioni, deve escludersi che il legislatore delegato abbia, mediante la censurata riformulazione dell'art. 59 della legge n. 689 del 1981, ecceduto i margini di discrezionalità conferitigli dalla legge delega nel prevedere una preclusione generale alla sostituzione della pena per gli imputati dei reati di cui all'art. 4-bis ordin. penit., per i quali l'accesso alle misure alternative è previsto solo in seguito a complessi accertamenti, da compiersi in fase esecutiva. Il legislatore delegato ha, evidentemente, ritenuto che l'anticipazione di tali accertamenti nel giudizio di cognizione fosse incompatibile con l'obiettivo - coerente con la finalità generale della riforma di assicurare la «semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo penale» (art. 1, comma, 1, della legge delega) - di consentire già al giudice della cognizione, nel quadro di un procedimento il più possibile celere, la valutazione sull'ammissione del condannato a una pena da scontarsi del tutto al di fuori del carcere; optando poi per sottrarre a tale preclusione soltanto l'ipotesi (oggi divenuta priva di rilievo pratico, come evidenziato supra, 3) dell'imputato di reati contro la pubblica amministrazione cui sia (già) stata riconosciuta, in esito al processo di cognizione, la circostanza attenuante della collaborazione di cui all'art. 323-bis cod. pen., proprio perché in tale ipotesi l'interessato, una volta passata in giudicato la sentenza di condanna, non sarebbe più incorso in alcuna preclusione alla concessione delle corrispondenti misure alternative, senza necessità di ulteriori accertamenti.

Tali scelte appaiono del tutto compatibili con la (invero generica) indicazione della legge delega di assicurare il «coordinamento» della disciplina delle riformate pene sostitutive con le preclusioni stabilite dall'ordinamento penitenziario, e in particolare dal suo art. 4-bis, che è all'evidenza la disposizione centrale a questo proposito.

Né la violazione della legge delega potrebbe dedursi, come sostenuto dai difensori delle parti e dall'amicus curiae, dalla scelta del legislatore delegato di introdurre ex novo nel testo dell'art. 59 della legge n. 689 del 1981 una preclusione assoluta per gli imputati dei reati di cui all'art. 4-bis ordin. penit., dal momento che l'esigenza di coordinamento tra le due discipline (pene sostitutive e ordinamento penitenziario) nasceva proprio dalla decisione - prefigurata dalla legge delega, e attuata dal legislatore delegato - di allargare incisivamente la platea dei possibili destinatari della sostituzione: platea che oggi comprende i condannati a pene detentive non superiori a quattro anni, mentre in precedenza era applicabile ai condannati a pene detentive non superiori, secondo i casi, a sei mesi, un anno e due anni (art. 53 della legge n. 689 del 1981, nella formulazione anteriore alla riforma del 2022). Una tale estensione della sostituzione della pena detentiva a condannati per reati anche notevolmente più gravi (e le cui pene eccedessero il limite di ammissibilità della sospensione condizionale) poneva necessariamente il problema del suo coordinamento con le preclusioni stabilite dall'ordinamento penitenziario: problema, come si è detto, che la legge delega ha puntualmente sottoposto all'attenzione del Governo, conferendogli ampio margine discrezionale con riguardo alla sua soluzione, sia pure entro i limiti segnati dalla ratio complessiva della delega, ispirata anche - come si è poc'anzi osservato - a criteri di semplificazione e speditezza della disciplina processuale.

Né, infine, può ritenersi eccedente i margini di discrezionalità conferiti dalla delega la decisione del Governo di configurare tale preclusione come assoluta, a fronte della relatività della presunzione di pericolosità stabilita nell'ordinamento penitenziario, ove la presunzione può - peraltro - essere superata solo all'esito di accertamenti di regola compiuti una volta che l'esecuzione della pena abbia avuto inizio. Se poi l'assolutezza della previsione sia anche conforme ai principi di eguaglianza e finalità rieducativa della pena evocati dai rimettenti è questione diversa, che non attiene al rispetto dei criteri della legge delega ai sensi dell'art. 76 Cost. bensì - appunto - al piano della verifica della compatibilità della nuova disciplina con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., di cui si dirà subito nel prosieguo.

8.- Entrambi i rimettenti dubitano poi della compatibilità della disciplina censurata con l'art. 3 Cost., sotto una pluralità di profili.

Anzitutto, secondo il GUP di Firenze sarebbe irragionevole stabilire un'unica indifferenziata preclusione a carico degli imputati di tutti i reati di cui all'art. 4-bis ordin. penit., dal momento che il regime penitenziario previsto per i condannati per tali reati sarebbe del tutto eterogeneo (infra, 8.2.).

In secondo luogo, ambedue i rimettenti ritengono irragionevole non consentire al giudice di valutare la concreta sussistenza di un rischio di recidiva in capo all'imputato, ovvero la possibilità di contenerlo con una misura diversa dalla detenzione (infra, 8.3.).

In terzo luogo, entrambe le ordinanze di rimessione assumono che la disciplina censurata creerebbe una irragionevole discriminazione tra persone condannate alla stessa pena, in ragione soltanto del diverso titolo di reato. Il GUP di Firenze osserva, in proposito, che gli imputati di reato non ostativo potrebbero essere ammessi alla sostituzione della pena anche ove presentino un rischio di recidiva e siano attualmente sottoposti a misura cautelare, mentre agli imputati di uno dei reati di cui all'art. 4-bis ordin. penit. la sostituzione resterebbe preclusa anche laddove non sussistesse alcun rischio di recidiva (infra, 8.4.).

Infine, il GUP di Firenze ritiene irragionevole aver precluso la sostituzione anche agli imputati che abbiano commesso il fatto essendo minori di ventun anni (infra, 8.5.).

Nessuna di tali censure è, a giudizio di questa Corte, meritevole di accoglimento.

8.1.- Conviene premettere all'esame dei singoli profili di censura formulati dai rimettenti, anche alla luce delle ulteriori argomentazioni sviluppate dalle parti e dall'amicus curiae, una considerazione di carattere generale.

La riforma del 2022 ha, con nettezza, inteso configurare le pene sostitutive come autentiche pene, destinate come tali ad arricchire gli strumenti sanzionatori a disposizione del giudice della cognizione per realizzare le funzioni proprie della sanzione penale. Ciò si desume anzitutto dall'introduzione, nel Libro I del codice penale, del nuovo art. 20-bis, che espressamente le elenca, così completando il novero delle pene principali e accessorie già indicate negli articoli precedenti del Capo I del Titolo II (dedicato, appunto, alle pene) del Libro I del codice penale.

Una simile scelta è del resto esplicitata dalla relazione illustrativa del d.lgs. n. 150 del 2022, in cui si chiarisce che le pene sostitutive riformate debbono intendersi, appunto, come «vere e proprie pene [...] diverse da quelle edittali (detentive e pecuniarie), irrogabili dal giudice penale in sostituzione di pene detentive, funzionali alla rieducazione del condannato, così come a obiettivi di prevenzione generale e speciale».

Tutto ciò in coerenza con la preziosa indicazione dello stesso art. 27, terzo comma, Cost., che ragiona di «pene» al plurale: stimolando così il legislatore a sperimentare forme di reazione sanzionatoria diverse - e in ipotesi più conformi tanto al senso di umanità, quanto alla funzione rieducativa - rispetto alla tradizionale pena carceraria.

Se, però, le pene sostitutive sono a tutti gli effetti delle pene, non pare potersi negare che, in linea di principio, il legislatore debba poter decidere a quali tipologie di reato esse debbano o possano trovare applicazione, esattamente come accade rispetto alle pene detentive, a quelle pecuniarie, a quelle accessorie, alla confisca, e così via. Più in particolare, non può disconoscersi al legislatore un'ampia discrezionalità nella determinazione dei limiti oggettivi entro i quali l'applicazione di tali pene sia possibile per il giudice; limiti oggettivi che, a loro volta, ben possono essere individuati tramite la fissazione di una soglia massima di pena detentiva entro la quale la sua sostituzione è ammissibile, così come mediante l'indicazione di reati per i quali la sostituzione può essere o, viceversa, non può essere operata - e sempre che, rispetto alle esclusioni obiettive previste per taluni reati, la scelta del legislatore non risulti manifestamente irragionevole, creando insostenibili disparità di trattamento, né conduca, comunque, a risultati manifestamente sproporzionati.

Il riferimento tanto a limiti di pena (fissati rispetto al minimo o al massimo edittale ovvero, come nel caso ora all'esame, alla concreta determinazione della pena da parte del giudice), quanto a specifici titoli di reato (individuati nominativamente o, come in questo caso, attraverso il richiamo a una categoria definita da altra disposizione), costituisce del resto una tecnica comune nell'ordito del codice penale, a disposizione del legislatore ogniqualvolta intenda definire l'ambito applicativo di misure che prefigurino un esito sanzionatorio alternativo a quello carcerario, ovvero di non punibilità tout court (le cosiddette misure di "diversion"). Della tecnica dell'individuazione (nominativa, o tramite richiamo ad altre disposizioni) di reati inclusi nella, ovvero sottratti alla, misura il legislatore fa, ad esempio, ampio uso nello stabilire i presupposti della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis cod. pen., così come quelli della sospensione del procedimento con messa alla prova di cui all'art. 168-bis cod. pen. (in quest'ultimo caso sia mediante il riferimento a un limite di pena, sia mediante il rinvio mobile a tutti i reati indicati dal comma 2 dell'art. 550 cod. proc. pen.).

8.2.- Come si è appena rammentato, il GUP di Firenze assume tuttavia che il richiamo "in blocco" di tutti reati di cui all'art. 4-bis ordin. penit. operato dalla disposizione censurata sia irragionevole, dal momento che la disposizione richiamata assoggetterebbe le persone condannate per tali reati a discipline eterogenee.

Il rilievo - non ulteriormente sviluppato nell'ordinanza di rimessione - è, in sé, corretto: l'art. 4-bis ordin. penit. prevede, come è noto, distinti regimi applicabili ai condannati per tre grandi "fasce" di reati, identificati rispettivamente dal comma 1 (prima fascia), dal comma 1-ter (seconda fascia) e dal comma 1-quater (terza fascia), per taluni reati (come nel caso della pornografia minorile e della violenza sessuale di gruppo, di cui si controverte in uno dei giudizi a quibus) applicandosi peraltro un regime "misto", che comprende elementi della prima e della terza fascia.

Se è vero, però, che diversi sono i requisiti che l'ordinamento penitenziario pone oggi per il superamento dell'ostatività rispetto a benefici e misure alternative, il dato comune a tutte queste ipotesi è rappresentato dalla necessità di specifici accertamenti, compiuti di regola durante l'esecuzione della pena, che riguardano la persistente pericolosità del condannato, presunta in via generale dall'ordinamento in relazione allo specifico titolo di reato posto a base della sentenza di condanna.

Nell'ottica del legislatore del 2022, è - dunque - proprio tale caratteristica comune a costituire la ratio dell'esclusione degli imputati per i reati di cui all'art. 4-bis ordin. penit. dal novero dei possibili beneficiari delle pene sostitutive. Il superamento della presunzione di pericolosità degli autori di questi reati - presunzione che non è, in questa sede, in discussione, e che coinvolge comunque reati di significativa gravità e produttivi di particolare allarme sociale - esigerebbe accertamenti che il giudice della cognizione non è ordinariamente in grado di compiere, e che anzi il legislatore dell'ordinamento penitenziario riserva normalmente a una fase di osservazione intramuraria del condannato.

Pertanto, la scelta del legislatore non appare, in via generale, manifestamente irragionevole o arbitraria, salva la verifica di una sua eventuale irragionevolezza o sproporzionalità rispetto a singole ipotesi criminose, tra quelle richiamate negli ormai foltissimi elenchi di cui ai vari commi dell'art. 4-bis ordin. penit.

Con riferimento, però, ai tre reati che vengono in considerazione nei giudizi a quibus (violenza sessuale, violenza sessuale di gruppo e pornografia minorile) - rispetto ai quali peraltro, secondo quanto esposto dai rimettenti, non viene nemmeno in considerazione la circostanza attenuante applicabile nei casi di minore gravità di violenza sessuale e (in forza della sentenza n. 91 del 2024 di questa Corte) di pornografia minorile -, non può ritenersi manifestamente irragionevole una disciplina che preclude in radice la sostituzione della pena. Infatti, salvo che nel caso in cui sia stata riconosciuta l'attenuante del fatto di minore entità nella violenza sessuale, i condannati per questi stessi reati possono essere ammessi ai benefici penitenziari e alle misure alternative solo sulla base dei risultati dell'osservazione scientifica della loro personalità, condotta collegialmente in carcere per almeno un anno (art. 4-bis, comma 1-quater, ordin. penit.): condizione che, all'evidenza, non può sussistere allorché sia il giudice della cognizione a dover decidere sulla sostituzione della pena detentiva.

Ciò a prescindere, naturalmente, dalla sperimentabilità di soluzioni diverse da parte del legislatore, come quelle su cui ha posto l'accento il difensore dell'imputato nel giudizio instaurato dalla Corte d'appello di Firenze, nei propri scritti e nella discussione orale; soluzioni volte in sostanza a consentire un percorso di recupero efficace all'imputato che volontariamente vi si sottoponga prima della condanna, i cui risultati potrebbero essere vagliati già dal giudice della cognizione ai fini della sostituzione della pena detentiva.

In ogni caso, non può essere considerata intrinsecamente contraddittoria o addirittura «paradossale» - come invece sostenuto dalla medesima difesa - una disciplina che preveda una preclusione assoluta in relazione a questi titoli di reato per l'accesso alle pene sostitutive, a fronte di una disciplina penitenziaria in cui le preclusioni assolute per titolo di reato sono, ormai, scomparse o sono comunque in via di superamento, per l'assorbente ragione che i due termini posti a raffronto non sono omogenei. Le alternative alle pene detentive previste dall'ordinamento penitenziario per i condannati per reati "ostativi" presuppongono infatti di regola, giusta il disposto dell'art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., l'avvio dell'esecuzione della pena con modalità intramuraria, mentre la sostituzione della pena opera evitando al condannato, sin dall'inizio, il contatto con il carcere.

8.3.- Né coglie nel segno l'argomento, speso da entrambe le ordinanze di rimessione, secondo cui sarebbe irragionevole non consentire al giudice di valutare la concreta sussistenza di un rischio di recidiva in capo all'imputato, o comunque la possibilità di contenerlo con una misura diversa dalla detenzione.

La valutazione da parte del giudice dell'assenza di pericolo di recidiva ai fini della sostituzione della pena detentiva non è, nell'ottica del legislatore, il contenuto di un diritto di cui sia titolare qualsiasi condannato. Un tale diritto spetta, invece, ai soli condannati per i reati per i quali il legislatore - in base a una valutazione discrezionale non manifestamente irragionevole - ha previsto la possibilità per il giudice di irrogare, in luogo della pena detentiva già commisurata, una pena sostitutiva. Quest'ultima, dunque, può essere legittimamente prevista e applicata per taluni reati e non per altri, così come accade per ogni altra pena prevista dall'ordinamento penale, in base a valutazioni politico-criminali che possono essere censurate da questa Corte soltanto ove producano irragionevoli disparità di trattamento, o risultati comunque contrari ai principi di ragionevolezza e proporzionalità.

8.4.- Sostanzialmente per le medesime ragioni non è condivisibile l'argomento, svolto da entrambi i rimettenti, secondo cui la disposizione censurata creerebbe irragionevoli disparità di trattamento tra imputati condannati alla medesima pena detentiva soltanto in base al diverso titolo di reato. Come poc'anzi osservato, il titolo di reato costituisce, in realtà, un idoneo criterio discretivo - del resto, ampiamente utilizzato dal legislatore - per stabilire quale sia il campo di applicazione di una pena anziché di un'altra.

Quanto poi all'osservazione secondo cui la disposizione censurata impedirebbe di sostituire la pena nei confronti di condannati non pericolosi, mentre altri condannati che presentino un rischio di recidiva potrebbero accedervi, essa da un lato trascura di considerare - ancora una volta - che il diverso titolo di reato ben potrebbe giustificare un diverso trattamento in ordine alla pena applicabile; e, dall'altro, assume erroneamente che un condannato non recidivo che presenti un rischio di recidiva possa essere ammesso a una pena sostitutiva, laddove invece l'art. 58, primo comma, della legge n. 689 del 1981 autorizza il giudice ad applicarla (soltanto) quando egli ritenga che la pena sostitutiva, «anche attraverso opportune prescrizioni, assicur[i] la prevenzione del pericolo di commissione di altri reati»; chiarendo anzi che «[l]a pena detentiva non può essere sostituita quando sussistono fondati motivi per ritenere che le prescrizioni non saranno adempiute dal condannato».

8.5.- Infine, non persuade l'argomento - svolto dal solo GUP di Firenze - secondo cui la disposizione censurata produrrebbe una irragionevole equiparazione di trattamento tra imputati che abbiano commesso il fatto essendo minori di ventun anni e imputati che l'abbiano commesso a un'età superiore.

Invero, regole speciali applicabili ai cosiddetti "giovani adulti" sono previste tanto dal codice penale (in particolare in relazione al diverso limite di pena suscettibile di sospensione condizionale per gli infraventunenni: art. 163, terzo comma, cod. pen.), quanto in materia di esecuzione penale (ex aliis, l'art. 11 del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, recante «Disciplina dell'esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all'art. 1, commi 82, 83 e 85, lettera p, della legge 23 giugno 2017, n. 103»), in conformità alle fonti internazionali di soft law che raccomandano l'adozione di regole differenziate per questa categoria di rei (ad esempio, la rule 3.3. delle Regole minime delle Nazioni Unite sull'amministrazione della giustizia minorile, adottate dall'Assemblea generale con la risoluzione 40/33 del 29 novembre 1985 - le cosiddette "Regole di Pechino" -). Tuttavia, questa Corte ritiene che questi dati normativi, pur significativi, non possano essere considerati allo stato sufficienti a configurare, all'interno del sistema penale, un vero e proprio statuto differenziato per i "giovani adulti", che vincoli in via generale il legislatore a prevedere per gli stessi regole differenti, e più favorevoli, quanto alla scelta della tipologia di sanzione e alla sua quantificazione. E ciò fatta salva, come correttamente rilevato dall'Avvocatura generale dello Stato, la necessità per il giudice di tenere conto anche della giovane età del condannato, nel quadro della valutazione delle sue condizioni personali ai sensi dell'art. 133, secondo comma, cod. pen.

Dal che l'infondatezza anche di questo profilo di censura.

9.- Entrambi i rimettenti assumono infine - in chiave sostanzialmente ancillare rispetto alla censura ex art. 3 Cost. per ciò che concerne il GUP di Firenze; con autonoma ancorché sintetica motivazione nel caso della Corte d'appello fiorentina - che la disposizione censurata violerebbe altresì l'art. 27, terzo comma, Cost., non consentendo al giudice di individualizzare il trattamento sanzionatorio, scegliendo quello più idoneo a conseguire la funzione rieducativa della pena ed evitando al condannato un ingresso non necessario in carcere, specie alla luce della situazione critica in cui notoriamente versano le carceri italiane.

Nemmeno questa censura è fondata.

9.1.- Questa Corte ha, ormai trentacinque anni fa, affermato che «la necessità costituzionale che la pena debba "tendere" a rieducare, lungi dal rappresentare una mera generica tendenza riferita al solo trattamento, indica invece proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l'accompagnano da quando nasce, nell'astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue» (sentenza n. 313 del 1990, punto 8 del Considerato in diritto).

La finalità rieducativa è, dunque, coessenziale al volto costituzionale della pena, nell'ordinamento italiano; tanto da non poter essere sacrificata «sull'altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena (sentenze n. 78 del 2007, n. 257 del 2006, n. 68 del 1995, n. 306 del 1993 e n. 313 del 1990)», qualunque sia la gravità del reato commesso dal condannato (sentenza n. 149 del 2018, punto 7 del Considerato in diritto).

Conseguentemente, non solo le autorità preposte all'esecuzione della pena, ma - ancor prima - il legislatore nella fase di comminatoria edittale, e poi il giudice in sede di irrogazione della pena, sono costituzionalmente vincolati a orientare la propria discrezionalità in maniera tale da favorire - e certamente da non ostacolare - quel «cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale», nel quale si declina la funzione rieducativa della pena (sentenza n. 179 del 2017, punto 4.4. del Considerato in diritto).

Il principio della finalità rieducativa della pena si integra, inoltre, con il principio del "minimo sacrificio necessario" della libertà personale, che la costante giurisprudenza di questa Corte deduce dal particolare rilievo costituzionale della libertà personale, solennemente definita «inviolabile» dall'art. 13 Cost. (sentenza n. 95 del 2025, punto 5.2.3. del Considerato in diritto ed ivi ulteriori riferimenti): con conseguente dovere di puntuale verifica - da parte del legislatore, del giudice di cognizione e poi della magistratura di sorveglianza - dell'effettiva necessità, rispettivamente, della comminatoria, dell'imposizione e della perdurante esecuzione di pene restrittive della libertà personale, e in particolare della detenzione in carcere.

Verifica puntuale che vieppiù si impone, in via generale, in una situazione in cui - come non a torto sottolinea la Corte d'appello di Firenze - il sovraffollamento delle carceri italiane rende particolarmente arduo il perseguimento della finalità rieducativa, oltre che lo stesso mantenimento di standard minimi di umanità della pena, parimenti imposti dall'art. 27, terzo comma, Cost.

Di talché questa Corte non può non comprendere le preoccupazioni dei rimettenti (cui fanno eco quelle dell'Unione camere penali italiane, intervenuta in qualità di amicus curiae) con riguardo alla sorte di giovani imputati di condotte pur gravemente offensive dei diritti delle vittime, ma che si trovano attualmente in stato di libertà proprio perché ritenuti non (più) pericolosi.

9.2.- Tuttavia, non può non evidenziarsi che la giurisprudenza di questa Corte non si è mai spinta ad affermare che la rieducazione debba essere considerata, per vincolo costituzionale, come l'unica finalità legittima della pena. Il legislatore ben può, dunque, assegnare anche altre finalità alla pena - come il contenimento della pericolosità sociale del condannato e la deterrenza nei confronti della generalità dei consociati -, a condizione appunto di non sacrificare, in nome di queste pur legittime finalità, la sola funzione della pena espressamente indicata quale costituzionalmente necessaria, la rieducazione del reo; e a condizione di assicurare - assieme - il rispetto di tutti gli altri principi costituzionali che limitano la potestà punitiva statale.

Lo stesso principio costituzionale del minimo sacrificio necessario della libertà personale non può che essere letto nel senso che il ricorso alla pena detentiva è legittimo solo in quanto sia, appunto, "necessario" (e dunque, non sostituibile mediante pene meno afflittive) e proporzionato rispetto al conseguimento delle legittime finalità della pena: tra le quali anche, e in primis, la funzione di tutela della collettività contro la residua pericolosità sociale del condannato.

Quest'ultima finalità non può, d'altra parte, essere considerata come l'unica a doversi contemperare con la funzione rieducativa della pena e il principio del minimo sacrificio necessario della libertà personale. Se così fosse, al giudice della cognizione dovrebbe essere sempre consentito - per vincolo costituzionale - sostituire qualsiasi pena detentiva, ancorché inflitta per reati gravissimi, con una pena meno afflittiva, ogniqualvolta il condannato non risulti (più) socialmente pericoloso al momento della condanna: conseguenza, questa, che la giurisprudenza di questa Corte non ha mai tratto, sinora, né dall'art. 27, terzo comma, Cost., né dall'art. 13 Cost.

All'opposto, il diritto penale oggi vigente stabilisce - evidentemente in ottica anche generalpreventiva - che chi è stato condannato per un grave reato deve in ogni caso iniziare a scontare la propria pena in carcere, senza che sia richiesto al giudice di accertarne, caso per caso, la persistente pericolosità sociale. In quella sede dovrà dunque essere avviato il percorso del suo graduale reinserimento nella società, nel quadro di un trattamento orientato a quei principi di progressività e flessibilità che la risalente giurisprudenza di questa Corte ha tratto dall'art. 27, terzo comma, Cost. (ancora, sentenza n. 149 del 2018, punto 5 del Considerato in diritto, e ivi ulteriori riferimenti).

9.3.- Tutto ciò non esclude che l'ampliamento del novero delle pene sostitutive e il deciso allargamento delle possibilità di accedervi realizzato con la riforma del 2022 costituisca un passo significativo nella direzione dell'inveramento, da parte dello stesso legislatore, dell'insieme dei principi costituzionali in materia di pena. Principi che da sempre sono stati intesi non solo come canoni di legittimità costituzionale delle scelte legislative, ma anche - e ancor prima - come criteri orientativi della politica criminale destinati a essere attuati mediante la dialettica democratica e la costruzione graduale di un consenso nella società, senza il quale essi finirebbero per restare lettera morta.

Ciò in quanto le pene sostitutive, applicabili di regola solo previo consenso del condannato, appaiono tendenzialmente più funzionali ad assicurare l'obiettivo della sua rieducazione: evitando gli effetti desocializzanti del carcere e, assieme, accompagnandolo in un percorso che valorizza lavoro, educazione, rafforzamento dei legami familiari e sociali, occasioni di ripensamento critico del proprio passato, ed eventualmente di riconciliazione con la vittima del reato.

Questa evoluzione non può, però, che procedere gradualmente, anche attraverso sperimentazioni progressive (un analogo rilievo, sentenza n. 52 del 2025, punti 5.2.2., 5.2.3. e 5.2.4. del Considerato in diritto; parimenti sottolineano la prospettiva di un graduale inveramento dei principi costituzionali la sentenza n. 10 del 2024, punto 9 del Considerato in diritto, nonché - in materia tributaria - le sentenze n. 75 del 2025 e n. 162 del 2020, rispettivamente ai punti 5 e 4 del Considerato in diritto). E allora, è inevitabile che la sperimentazione coinvolga anzitutto i reati meno gravi, lasciando al margine quelli che il legislatore - con valutazione non arbitraria né discriminatoria - reputi maggiormente offensivi, come indubbiamente sono quelli contestati agli imputati nei processi a quibus.

Ciò che resta essenziale, in questi ultimi casi, è - semmai - che la pena detentiva sia eseguita in condizioni e con modalità tali da incentivare o rendere comunque praticabile il percorso rieducativo, in condizioni rispettose della dignità della persona e del principio di umanità della pena. Condizioni, queste, che è preciso dovere del legislatore e dell'amministrazione penitenziaria assicurare, con riguardo a tutti coloro che si trovano, oggi, nelle carceri italiane.

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 59 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), come sostituito dall'art. 71, comma 1, lettera g), del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l'efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), sollevate, complessivamente in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 76 della Costituzione, dalla Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario di Firenze e dalla Corte d'appello di Firenze, seconda sezione penale, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Feltrinelli Feltrinelli Feltrinelli Feltrinelli