Corte costituzionale
Sentenza 31 luglio 2025, n. 141
Presidente: Amoroso - Redattrice: San Giorgio
[...] nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 14, comma 2, del decreto-legge 14 agosto 2020, n. 104 (Misure urgenti per il sostegno e il rilancio dell'economia), convertito, con modificazioni, nella legge 13 ottobre 2020, n. 126; dell'art. 46 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 (Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 24 aprile 2020, n. 27 e dell'art. 12, comma 10, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137 (Ulteriori misure urgenti in materia di tutela della salute, sostegno ai lavoratori e alle imprese, giustizia e sicurezza, connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 18 dicembre 2020, n. 176, promossi, i primi due, dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, con due ordinanze del 29 maggio 2024 e, il terzo, dalla Corte d'appello di Catania, sezione lavoro, con ordinanza del 27 gennaio 2025, iscritte rispettivamente, le prime due, ai numeri 150 e 151 del registro ordinanze 2024 e, la terza, al n. 38 del registro ordinanze 2025, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, prima serie speciale, numeri 35 dell'anno 2024 e 11 dell'anno 2025.
Visti gli atti di costituzione di Angelini Pharma spa, di M. P., del Gruppo PSC spa e di G. D.G., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udita nell'udienza pubblica del 10 giugno 2025 la Giudice relatrice Maria Rosaria San Giorgio;
uditi gli avvocati Mario Paone per M. P., Cesare Andrea Pozzoli per Angelini Pharma spa, nonché l'avvocata dello Stato Laura Paolucci per il Presidente del Consiglio dei ministri;
deliberato nella camera di consiglio del 10 giugno 2025.
RITENUTO IN FATTO
1.- Con ordinanza del 29 maggio 2024, iscritta al n. 150 del registro ordinanze 2024, la Corte di cassazione, sezione lavoro, ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 14, comma 2, del decreto-legge 14 agosto 2020, n. 104 (Misure urgenti per il sostegno e il rilancio dell'economia), convertito, con modificazioni, nella legge 13 ottobre 2020, n. 126.
La disposizione censurata, dettata in materia di licenziamenti individuali e collettivi durante il periodo di emergenza epidemiologica da COVID-19, stabilisce che, a determinate condizioni, resta preclusa «al datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, la facoltà di recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e restano altresì sospese le procedure in corso di cui all'articolo 7 della medesima legge».
In fatto, il Collegio rimettente riferisce che M. P., dirigente della società ricorrente, Angelini Pharma spa, licenziato in data 31 agosto 2020 «nell'ambito di un complessivo disegno di ridimensionamento del personale», si era rivolto al Tribunale ordinario di Roma, sezione lavoro, per ottenere la declaratoria di nullità del licenziamento. Il giudice adito, all'esito della fase sommaria di cui al rito previsto dalla legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), aveva ordinato la reintegrazione dell'interessato nel posto di lavoro. Quindi, accolta l'opposizione della datrice di lavoro, il Tribunale, al termine della fase a cognizione piena, aveva respinto la domanda di impugnazione del licenziamento. La Corte d'appello capitolina aveva poi accolto il reclamo proposto dal M. P. e, per l'effetto, dichiarato la nullità del licenziamento individuale per contrasto con il divieto imperativo prescritto dall'art. 14, comma 2, del d.l. n. 104 del 2020, come convertito, previa «interpretazione costituzionalmente orientata» dello stesso, nel senso che il divieto di licenziamento dovrebbe intendersi esteso anche ai dirigenti.
La società datrice di lavoro ha quindi proposto ricorso per cassazione, lamentando violazione e falsa applicazione del richiamato art. 14 e degli artt. 12 e 14 delle disposizioni preliminari al codice civile, e in particolare addebitando alla Corte d'appello di Roma, sezione lavoro, il mancato rispetto del criterio ermeneutico letterale e l'applicazione, in via analogica, di una norma eccezionale, quale quella che impone il cosiddetto "blocco" dei licenziamenti, che non riguarderebbe i dirigenti.
In diritto, il giudice a quo osserva che non sono controverse, tra le parti, né la sussistenza, nella specie, delle condizioni prescritte dalla norma per l'applicazione del divieto di licenziamento, né la circostanza che il lavoratore sia stato formalmente licenziato per una ragione economico-organizzativa (e non ad nutum).
Tanto premesso, la Sezione rimettente - giudicate manifestamente infondate le eccezioni di illegittimità costituzionale che la società ricorrente, sulla scorta dell'interpretazione della norma fatta propria dalla Corte territoriale, aveva sollevato in via subordinata, in relazione a profili di asserita disparità di trattamento tra diverse categorie di lavoratori e di datori di lavoro - concentra la propria attenzione sull'istituto del recesso per giustificato motivo oggettivo, di cui all'art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali), che viene richiamato dalla norma censurata. Nel disciplinare l'ambito applicativo di tale istituto - si osserva nell'ordinanza di rimessione - la legge del 1966 «non menziona i dirigenti», in tal modo (come «unanimemente ritenuto») mantenendoli nel tradizionale regime del recesso ad nutum ai sensi dell'art. 2118 del codice civile. Per costoro, la contrattazione collettiva ha poi introdotto la tutela "convenzionale", retta dalla nozione di "giustificatezza" del licenziamento del dirigente, non coincidente (come da «consolidato orientamento» della Corte di cassazione) con quella di "giustificato motivo" di cui all'art. 3 della legge n. 604 del 1966.
Per quanto precede, assume il Collegio rimettente, i dirigenti sarebbero esclusi dall'ambito applicativo del divieto dei licenziamenti individuali di cui alla disposizione censurata. Diverso sarebbe il regime del licenziamento collettivo di cui alla legge 23 luglio 1991, n. 223 (Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro), il quale riguarderebbe anche i dirigenti, come da ultimo precisato - sulla scorta di quanto deciso dalla Corte di giustizia dell'Unione europea, seconda sezione, sentenza 13 febbraio 2014, causa C-596/12, Commissione europea - dalla legge 30 ottobre 2014, n. 161 (Disposizioni per l'adempimento degli obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia all'Unione europea - Legge europea 2013-bis), che ha riformulato in tal senso l'art. 24 della legge n. 223 del 1991. Pertanto, non potrebbero sollevarsi dubbi sul fatto che il "blocco" dei licenziamenti collettivi, disposto dal comma 1 dell'art. 14 del d.l. n. 104 del 2020, come convertito, riguardi anche i dirigenti.
Ne conseguirebbe, per i dirigenti, un «difetto di simmetria» che, dal piano della disciplina legale dei licenziamenti individuali e collettivi, «si riflette puntualmente sul regime del c.d. blocco dei licenziamenti»: tale "blocco" sarebbe applicabile solo ove si tratti di licenziamento collettivo e non anche se si tratti di licenziamento individuale per ragioni oggettive.
Né potrebbe accedersi ad una interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina emergenziale, simile a quella fatta propria dai giudici del reclamo. Vi osterebbe «il dato letterale assolutamente univoco» della norma in esame, che, ai sensi dell'art. 12 disp. prel. cod. civ., «rappresenta il criterio cardine nella interpretazione della legge». L'art. 14, comma 2, del d.l. n. 104 del 2020, come convertito, fa espresso richiamo al recesso «per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604»: richiamo che non avrebbe «valenza polisemica», riferendosi unicamente al licenziamento individuale del dipendente non dirigente, in coerenza con il significato attribuito dal diritto vivente all'art. 10 della legge n. 604 del 1966, che esclude i dirigenti dall'ambito di applicazione della medesima legge. La funzione e gli effetti di detto richiamo, peraltro, non si limiterebbero alla identificazione della natura della ragione giustificatrice del recesso individuale, ma si estenderebbero «all'individuazione delle categorie (legali) di dipendenti ai quali quella ragione è riferibile nel regime giuridico legale del loro rapporto di lavoro», categorie fra le quali «non vi è quella dei dirigenti».
In definitiva, per i licenziamenti individuali dei dirigenti la legislazione dell'emergenza pandemica sarebbe affetta da «una vera e propria lacuna normativa, che tuttavia non è possibile colmare mediante applicazione analogica»: infatti, il "blocco" dei licenziamenti «rappresenta un'eccezione - sia pure temporanea - ai normali poteri datoriali [...] che trovano fondamento e giustificazione nel c.d. rischio d'impresa e, in ultima analisi, nell'art. 41 co. 1 Cost.».
La ratio del divieto di licenziamento, consistente nell'esigenza «di ordine pubblico» di evitare pregiudizi economici e sociali per i lavoratori durante il periodo dell'emergenza pandemica, sarebbe nondimeno ravvisabile per tutte le forme di licenziamento, sia individuale che collettivo. La rilevata «asimmetria» di tutela, apprezzabile per la sola categoria dei dirigenti, risulterebbe di conseguenza irragionevole per violazione dell'art. 3 Cost., non palesandosi la disposizione censurata come «adeguata e congruente rispetto alla finalità perseguita dal legislatore».
Sul punto, la Sezione rimettente osserva che tutte le misure di compensazione economica introdotte dalla medesima legislazione dell'emergenza (consistenti in una fattispecie tipizzata di cassa integrazione guadagni, nella sospensione temporanea di oneri fiscali e previdenziali e nella previsione di un credito d'imposta su locazione di immobili ad uso non abitativo), con l'obiettivo di alleggerire il costo a carico dei datori di lavoro, presuppongono la «portata generalizzata del c.d. blocco dei licenziamenti collettivi e individuali per ragioni oggettive», a prescindere dalla categoria legale di inquadramento dei dipendenti. Risulterebbe, pertanto, «del tutto eclettica» la scelta del legislatore di vietare temporaneamente i licenziamenti collettivi dei dirigenti (derivanti, per loro stessa natura, da ragioni oggettive) e non anche quelli individuali degli stessi per ragioni del pari, oggettive.
Sotto altro profilo, il "sacrificio" imposto ai datori di lavoro assumerebbe contorni ben più gravosi in caso di licenziamento collettivo (sia per il numero dei dipendenti coinvolti, sia «perché gli oneri datoriali in tal caso sarebbero soltanto di tipo procedurale»): sarebbe, dunque, irragionevole la previsione di un sacrificio "più grave" (ossia, il "blocco" dei licenziamenti collettivi, che può riguardare anche i dirigenti) e la contemporanea esclusione di quello "meno grave" (ossia, il "blocco" dei licenziamenti individuali dei dirigenti per ragioni oggettive). Infatti, rileva il giudice a quo, «"nel più sta il meno"»: se, nel bilanciamento dei contrapposti interessi, il legislatore ha ritenuto di poter sacrificare la facoltà di recesso collettivo, «a maggior ragione avrebbe dovuto sacrificare quella di recesso individuale», ugualmente compensabile con le richiamate misure di sostegno economico alle imprese.
In definitiva, l'omessa previsione del sacrificio "minore" a carico dei datori di lavoro, non si presterebbe, in alcun modo, «ad essere giustificata sul piano costituzionale», né - «ostandovi il tenore letterale» della disposizione di divieto - potrebbe essere risolta mediante il canone dell'interpretazione costituzionalmente orientata. Non resterebbe, dunque, che «prendere atto della irragionevolezza della scelta legislativa di "bloccare", rispetto ai dirigenti, i soli licenziamenti collettivi e non anche quelli individuali dovuti a ragioni oggettive».
1.1.- Con atto depositato il 12 settembre 2024, si è costituito in giudizio M. P., resistente nel giudizio principale.
Premessa, in punto di fatto, la sintesi della vicenda contenziosa e la ricostruzione del panorama normativo rilevante, la parte dichiara di aderire alle censure di illegittimità costituzionale sollevate dal giudice a quo, i cui passaggi argomentativi vengono sinteticamente richiamati. Si evidenzia, in particolare, che la disposizione censurata produrrebbe una «ingiusta e incomprensibile disparità di trattamento», sia sotto il profilo di «una distinzione tra lavoratori tale da comportare una manifesta e illogica sperequazione tra categorie di dipendenti», sia «all'interno della medesima categoria» di lavoratori (i dirigenti), posto che la legge garantirebbe, mediante il "blocco" dei licenziamenti durante la pandemia, «unicamente i dirigenti destinatari di un licenziamento collettivo, lasciando invece privi di tutela i dirigenti oggetto di licenziamento economico individuale». Ciò si porrebbe «in contrasto con la stessa ratio legis di tutela delle primarie esigenze di tenuta sociale e di ordine pubblico, in un momento di grave crisi sanitaria ed economica».
1.2.- Con atto depositato il 16 settembre 2024, si è costituita in giudizio Angelini Pharma spa, ricorrente nel giudizio principale, sostenendo la non fondatezza della sollevata questione di legittimità costituzionale.
Sulla premessa che la disposizione censurata sia correttamente da interpretare nel senso di escludere il blocco dei licenziamenti per i dirigenti, tale previsione - si sostiene - non potrebbe essere considerata "lacunosa" né affetta da alcuna "asimmetria": al contrario, si tratterebbe di una precisa e consapevole scelta del legislatore il quale, intervenuto più volte con le varie disposizioni che si sono succedute durante il periodo pandemico, non ha mai modificato la locuzione utilizzata a tal fine.
Secondo la parte, il diverso regime del "blocco" dei licenziamenti andrebbe valutato alla luce della giurisprudenza di questa Corte che «ha sempre considerato legittime le differenziazioni di trattamento fra lavoratori dirigenti e non dirigenti». Assumerebbero rilievo le «peculiari caratteristiche fattuali» del rapporto di lavoro dirigenziale, che renderebbero essenziale l'esigenza di mantenere «un rapporto di fiducia reciproca e di positiva valutazione». Le evidenziate diversità risulterebbero anzi rafforzate in relazione alla normazione emergenziale di epoca pandemica, che ha richiesto «una collaborazione e una fiducia fra datore e dirigenti se possibile ancora più stretta di quella ordinariamente richiesta in un'impresa». Di conseguenza, l'esclusione dei dirigenti dal "blocco" dei licenziamenti non sarebbe affatto irragionevole, dovendosi anche considerare il costo di tale rapporto di lavoro, «notevolmente (e notoriamente) più elevato rispetto alle altre categorie di lavoratori». Il diverso trattamento dei dirigenti, analogamente a quanto già accaduto in altri periodi storici, sarebbe piuttosto il frutto di una scelta politica del legislatore, insindacabile in sede di giudizio di legittimità costituzionale.
Si aggiunge che, pure durante la pandemia, i lavoratori non dirigenti continuavano ad essere protetti «da un apparato sanzionatorio di tipo prevalentemente reintegratorio» in caso di «licenziamenti disciplinari fattualmente infondati». I dirigenti, invece, non godono di simile presidio né in via ordinaria, né tantomeno nel regime eccezionale della pandemia: di conseguenza, un'eventuale estensione del "blocco" anche a tale categoria di lavoratori sarebbe stata «agevolmente eludibile attraverso un licenziamento disciplinare, per qualunque anche modestissima infrazione», in modo da «mascherare la vera ragione economica». Anche di ciò il legislatore avrebbe tenuto conto nel selezionare la platea di lavoratori da coinvolgere nel "blocco" dei licenziamenti.
In ordine a quanto affermato dalla Sezione rimettente - secondo cui, ai fini del divieto temporaneo di licenziamento, non si apprezzerebbe alcuna diversità tra i licenziamenti collettivi e quelli individuali - la parte sottolinea che, al contrario, le due ipotesi si differenziano (oltre che per la diversa procedura prevista) almeno per tre diversi profili. In primo luogo, i licenziamenti collettivi, a differenza di quelli individuali, vieppiù durante l'emergenza epidemiologica, «producono un allarme sociale che giustifica l'imposizione in capo alle imprese di un surplus di sacrificio delle proprie prerogative costituzionali ex art. 41 co. 1 Cost., compresa quella di non poter licenziare i dirigenti nell'ambito di una procedura collettiva». In secondo luogo, vi sarebbe un diverso impatto discendente dalla normativa dell'Unione europea la quale, «lungi dall'imporre la parificazione fra dirigenti e non dirigenti in materia di recesso datoriale individuale (non avendone oltretutto alcuna competenza)», ha invece vietato differenziazioni tra le due categorie «solo nell'ambito delle procedure di licenziamento collettivo ai sensi della dir. 98/59/CE». In terzo luogo, mentre la normativa sui licenziamenti collettivi «non impone di norma di sindacare giudizialmente il merito delle ragioni del recesso», il licenziamento individuale del dirigente impone il vincolo convenzionale della "giustificatezza", sindacabile dal giudice: sarebbe quindi «perfettamente ragionevole» includere i dirigenti nel "blocco" dei licenziamenti collettivi ed escluderli, invece, da quello dei licenziamenti individuali.
Peraltro, sotto una prospettiva «fattuale/economic[a]», che tiene conto degli importi a titolo di retribuzione lorda, si evidenzia che un'azienda risparmia di più in caso di licenziamento individuale di un solo dirigente, piuttosto che in caso di licenziamento di dieci lavoratori non dirigenti.
Pertanto, il rimettente avrebbe dovuto considerare che l'estensione, maggiore o minore, del "blocco" dei licenziamenti «è il frutto di un delicato bilanciamento fra interessi contrastanti di rango costituzionale che solo il Legislatore può operare» e che, in tale bilanciamento, posizione centrale assume la libertà di iniziativa economica privata di cui all'art. 41 Cost.: parametro, quest'ultimo, che giustifica «l'area residuale del recesso ad nutum dei dirigenti».
1.3.- Con atto depositato il 17 settembre 2024 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che questa Corte dichiari la questione non fondata.
La difesa statale contesta l'affermazione del giudice a quo secondo la quale la disposizione censurata non sarebbe suscettibile di interpretazione costituzionalmente orientata. Il richiamo all'art. 3 della legge n. 604 del 1966, operato dall'art. 14, comma 2, del d.l. n. 104 del 2020, come convertito, in quanto «enfatizza la ragione del licenziamento e non i suoi destinatari», avrebbe solo «lo scopo di individuare la tipologia di licenziamento impedita dalla normativa emergenziale, con riferimento alla ragione della intimazione di recesso dal rapporto di lavoro, senza diretto richiamo alla categoria dei lavoratori cui il medesimo si riferisce». Del resto, l'esigenza perseguita dal legislatore - quella, di ordine pubblico, «di attenuazione in via provvisoria delle conseguenze economiche negative della pandemia» - accomunerebbe «tutte le categorie di lavoratori, non essendovi ragione per escludere dalla tutela i dirigenti che sono soggetti più esposti in quanto, in caso di licenziamento, risultano tutelati in misura più attenuata rispetto alle altre categorie di lavoratori». Né le ragioni che giustificano lo speciale regime giuridico del licenziamento individuale del dirigente, fondate sulla natura fiduciaria del rapporto di lavoro in esame, potrebbero costituire un ostacolo «di fronte ad una norma limitativa, come quella censurata, di natura temporanea».
1.4.- Con deposito del 16 settembre 2024, è pervenuta, ai sensi dell'art. 6 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, l'opinione scritta dell'Associazione Comma2 - Lavoro è dignità, in veste di amicus curiae, ammessa con decreto presidenziale in data 13 febbraio 2025.
Dopo aver richiamato le motivazioni del Giudice rimettente e accennato alla possibilità di interpretare la disposizione censurata in modo conforme a Costituzione, l'opinione conclude nel senso dell'accoglimento della questione ovvero, «quantomeno», nel senso dell'opportunità di «interloquire con la CGUE», alla quale andrebbe rivolto un quesito interpretativo, per conoscere se la disposizione censurata osti alla piena applicazione dell'art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e delle altre norme internazionali indicate «e, se, dunque, il caso in esame può costituire una discriminazione indiretta non sorretta da ragionevolezza».
1.5.- Con memoria depositata il 20 maggio 2025, il Presidente del Consiglio dei ministri ha svolto ulteriori difese a sostegno della ritenuta non fondatezza della sollevata questione di legittimità costituzionale.
L'esclusione dei dirigenti dalla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali per ragioni oggettive sarebbe ragionevole alla luce della ratio della normativa emergenziale. La peculiarità della posizione dirigenziale, «caratterizzata dall'ineliminabile vincolo fiduciario e collaborativo con l'imprenditore», sopravvivrebbe anche nella situazione emergenziale, e anzi avrebbe tratti ancor più marcati, «donde la ragionevolezza della scelta del legislatore qui contestata». Quanto all'inclusione dei dirigenti nel "blocco" dei licenziamenti collettivi, si tratterebbe di una scelta "indisponibile" per il legislatore nazionale, in ragione del vincolo derivante dall'ordinamento euro-unitario, di cui alla direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi.
In definitiva, la contestata scelta del legislatore si fonderebbe su di «un corretto bilanciamento [...] frutto dell'esercizio non irragionevole della discrezionalità politica spettante al legislatore in merito alla destinazione delle risorse rispetto ai fini da raggiungere, non sindacabile se non in caso di superamento "dei limiti costituzionali di proporzionalità e adeguatezza", nella specie non valicati».
1.6.- Anche Angelini Pharma spa, parimenti in data 20 maggio 2025, ha depositato una memoria integrativa, insistendo per la non fondatezza della questione.
La memoria esamina, in chiave critica, le osservazioni dell'amicus curiae, evidenziando, in particolare, l'infondatezza delle ragioni addotte a sostegno della questione pregiudiziale comunitaria. La materia dei licenziamenti individuali, infatti, sarebbe estranea al diritto UE, né sarebbero rinvenibili norme euro-unitarie che impongano di trattare allo stesso modo il licenziamento individuale del dirigente e quello del lavoratore non dirigente.
Si segnala, infine, che di recente la Corte di cassazione avrebbe ribadito la specialità della norma sul "blocco" dei licenziamenti, escludendone l'applicabilità in via analogica (con riferimento ai licenziamenti derivanti dal superamento del periodo di comporto).
2.- Con altra ordinanza del 29 maggio 2024, iscritta al n. 151 del registro ordinanze 2024, la Corte di cassazione, sezione lavoro, ha sollevato, in riferimento all'art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 46 del d.l. n. 18 del 2020, come convertito.
Con tale disposizione si è stabilito, al comma 1, che, per il periodo di cinque mesi a decorrere dall'entrata in vigore del medesimo decreto-legge, «il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604».
La Sezione rimettente premette di dover decidere sul ricorso presentato da Gruppo PSC spa contro la sentenza della Corte d'appello di Roma, sezione lavoro, che ha accolto il gravame presentato da G. D.G., ex dirigente della società licenziato per «soppressione della posizione lavorativa» («nell'ambito di un processo di riorganizzazione aziendale, nell'ottica del contenimento dei costi e di una più utile gestione dell'impresa»). In primo grado, il Tribunale di Roma, sezione lavoro, aveva rigettato il ricorso di G. D.G. sulla base del tenore letterale dell'art. 46 censurato, che non si riferisce ai dirigenti nel prescrivere il "blocco" dei licenziamenti. La Corte d'appello ha, invece, ritenuto la norma applicabile anche a questi ultimi «all'esito di un'interpretazione costituzionalmente orientata».
Anche in questo caso, la Sezione rimettente premette che non è controverso, tra le parti, né che il lavoratore sia stato formalmente licenziato per una ragione economico-organizzativa, né che la società datrice di lavoro non abbia per lui fruito dei trattamenti di integrazione salariale riconducibili all'emergenza epidemiologica da COVID-19.
In punto di interpretazione della disposizione censurata, la Sezione rimettente - analogamente a quanto ritenuto dall'ordinanza iscritta al n. 150 reg. ord. del 2024 - sposa la tesi per cui il rinvio all'art. 3 della legge n. 604 del 1966 esprimerebbe la volontà del legislatore di escludere i dirigenti dal "blocco" dei licenziamenti, mantenendoli nel tradizionale regime del recesso ad nutum. Infatti, l'espressione «ai sensi», che si rinviene nella disposizione censurata, «è riferita alla nozione di recesso per "giustificato motivo oggettivo", che assume giuridica rilevanza soltanto in tema di rapporti di lavoro subordinato non dirigenziali». Viene quindi richiamata la diversità del regime del licenziamento collettivo, di cui alla legge n. 223 del 1991, riguardante anche i dirigenti: pertanto, il relativo "blocco", stabilito dal primo periodo della disposizione censurata, «riguarda certamente anche i dirigenti, perché anche a costoro trova applicazione la legge 23 luglio 1991, n. 223».
Ritenuta non praticabile una lettura costituzionalmente orientata della disposizione censurata, in considerazione del suo tenore univoco, vengono esposti i dubbi di illegittimità costituzionale secondo le medesime argomentazioni dell'ordinanza di rimessione in precedenza esaminata. Si denunzia, quindi, l'esistenza di una «vera e propria asimmetria di tutela», in quanto, mentre per i lavoratori non dirigenti è stata prevista una protezione "globale" (derivante dal "blocco" sia dei licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, sia di quelli collettivi), «per i dipendenti dirigenti la tutela è soltanto parziale, in quanto il divieto investe solo i licenziamenti collettivi». Verrebbe dunque penalizzata la «logica della solidarietà collettiva» che - come sottolineato anche da questa Corte (sono citate le sentenze n. 213 e n. 198 del 2021) - ha caratterizzato la legislazione dell'emergenza pandemica.
2.1.- Con atto depositato il 6 settembre 2024, si è costituito, nel giudizio dinanzi a questa Corte, G. D.G., resistente nel giudizio principale, aderendo ai dubbi di illegittimità costituzionale fatti propri dall'ordinanza di rimessione.
Nel ricordare che la disciplina del blocco dei licenziamenti è stata «prorogata» dall'art. 14 del d.l. n. 104 del 2020, come convertito, si evidenzia che, secondo il messaggio dell'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) del 26 novembre 2020, n. 4464 (Articolo 14, comma 3, del decreto-legge n. 104 del 2020. Risoluzione del rapporto di lavoro a seguito di accordo collettivo aziendale e accesso all'indennità NASpI) anche i dirigenti, che abbiano aderito agli accordi collettivi aziendali richiamati dall'indicata disposizione (art. 14, comma 3) al fine di integrare una fattispecie di eccezione al "blocco" stesso, possono accedere all'indennità di disoccupazione denominata "NASpI". Tale previsione comproverebbe che il "blocco" dei licenziamenti produce effetto anche nei confronti dei dirigenti.
2.2.- Nel giudizio dinanzi a questa Corte si è altresì costituita la società Gruppo PSC spa, ricorrente nel giudizio principale, concludendo per la non fondatezza della questione di legittimità costituzionale.
La parte preliminarmente osserva che «la lettera della norma è incontrovertibilmente chiara nell'escludere la categoria dirigenziale dal novero dei soggetti rientranti nella disciplina del c.d. blocco dei licenziamenti individuali di carattere economico».
Tanto premesso, a giudizio della parte un'eventuale decisione di accoglimento della questione porrebbe «serissimi dubbi di tenuta del sistema» e finirebbe per «travolgere anche le divergenze che sussistono oggi tra la disciplina ordinaria in tema di licenziamenti collettivi e individuali». Sul punto, si osserva che le due fattispecie di licenziamento «non appaiono comparabili, per diverse ragioni», a cominciare dal fatto che, per i dirigenti, l'estensione dell'applicazione delle norme sui licenziamenti collettivi (intervenuta a seguito delle previsioni del diritto UE, di cui alla direttiva 1998/59/CE) «ha interessato gli aspetti procedurali e non anche quelli sostanziali». Di conseguenza, la disciplina sul licenziamento collettivo dei dirigenti manterrebbe tuttora «un'ontologica» differenza rispetto sia a quella sul licenziamento collettivo dei dipendenti, sia a quella sul licenziamento individuale degli stessi dirigenti. In tale quadro, il coinvolgimento del personale dirigenziale nel "blocco" dei licenziamenti collettivi sarebbe dovuto «alla circostanza che dal punto di vista procedurale non possa farsi differenziazione alcuna tra dipendenti e dirigenti, pena la violazione del diritto comunitario». L'asimmetria lamentata dal giudice rimettente, dunque, sarebbe in tal modo spiegata, posto che il legislatore ha prescelto soluzioni diverse per «situazioni giuridicamente non comparabili in quanto riferite a fattispecie differenti».
Del resto, il legislatore non avrebbe potuto ignorare che, «anche dal punto di vista sociale, l'impatto dei licenziamenti collettivi è ben diverso da quelli individuali». Di conseguenza, l'approntamento di «tutele "graduali"», che sanciscono per i dirigenti solo il divieto dei licenziamenti collettivi («ritenuto irrinunciabile per la tutela delle finalità d'ordine pubblico perseguite»), si spiegherebbe nell'ottica di un «bilanciamento in chiave costituzionale» alla luce della libertà di iniziativa economica di cui gode la parte datoriale ai sensi dell'art. 41 Cost.: anziché «proibire qualsiasi scelta in ordine alla categoria dirigenziale», approccio che «sarebbe stato certamente irragionevole», si è pertanto stabilito di precludere "soltanto" le procedure di licenziamento collettivo.
Diversamente, si sarebbe intrapresa una strada «in evidente contrasto con l'art. 41 Cost.» perché si sarebbe limitata, in modo eccessivo, la libertà di iniziativa economica di parte datoriale, «facendo ricadere su quest'ultima l'onere di una misura sostanzialmente "assistenziale", qual è il blocco dei licenziamenti, stante la - incontestabile - inapplicabilità degli ammortizzatori sociali alla categoria dirigenziale».
Pertanto, a giudizio della parte, i dubbi di illegittimità costituzionale prospettati dalla Sezione rimettente invaderebbero il «terreno del giudizio di opportunità sulla politica legislativa, lasciando prefigurare una potenziale compromissione della discrezionalità del legislatore», la cui scelta, «prima ancora che insindacabile», risulterebbe nella specie «pienamente coerente e ragionevole nel quadro delineato dalla carta Costituzionale».
Si sottolinea ancora che la legittimità del "blocco" dei licenziamenti per il personale dirigenziale sarebbe «indissolubilmente legata alla circostanza che il relativo onere è posto a carico della fiscalità generale tramite l'estensione generalizzata degli ammortizzatori sociali a "costo zero" per tutti i datori di lavoro».
2.3.- Con atto depositato il 17 settembre 2024, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto anche nel giudizio iscritto al n. 151 reg. ord. del 2024, insistendo - con i medesimi argomenti spesi in relazione al giudizio incidentale già esaminato - per la non fondatezza della questione.
2.4.- L'Associazione Comma2 - Lavoro è dignità, in qualità di amicus curiae, ha fatto pervenire anche nel giudizio in esame un'opinione scritta, corredata da osservazioni e argomenti corrispondenti a quelli spesi nel giudizio di cui si è dianzi riferito.
Anche questa opinione, così come quella presentata in relazione al procedimento originato dalla ordinanza iscritta al n. 150 reg. ord. del 2024, è stata ammessa con decreto presidenziale in data 13 febbraio 2025.
2.5.- In data 22 gennaio 2025 Gruppo PSC spa ha depositato una nota con la quale si dà conto che le parti del processo principale «hanno raggiunto e formalizzato un accordo attraverso il quale hanno definitivamente posto termine alla lite tra loro insorta». La nota aggiunge che, in data 18 dicembre 2024, è stato depositato, presso la Corte di cassazione, un «Atto di rinuncia al ricorso per cassazione e contestuale accettazione del controricorrente», con il quale «le parti hanno dato atto della rinuncia al giudizio, chiedendone l'estinzione». Si rende quindi noto che entrambe le parti «non hanno interesse alla prosecuzione dell'odierno procedimento di costituzionalità».
3.- Con ordinanza del 27 gennaio 2025, iscritta al n. 38 del registro ordinanze 2025, la Corte d'appello di Catania, sezione lavoro, ha sollevato, in riferimento all'art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 12, comma 10, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137 (Ulteriori misure urgenti in materia di tutela della salute, sostegno ai lavoratori e alle imprese, giustizia e sicurezza, connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 18 dicembre 2020, n. 176.
La disposizione censurata stabilisce che, fino alla data del 31 gennaio 2021, «resta, altresì, preclusa al datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, la facoltà di recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e restano altresì sospese le procedure in corso di cui all'articolo 7 della medesima legge».
Il giudice rimettente riferisce che la controversia sottoposta al suo esame è sorta a seguito del licenziamento, da parte del datore di lavoro Sidra spa, di O. D.G., al tempo direttore generale, «con motivazione attinente a ragioni di riorganizzazione e razionalizzazione della struttura aziendale». Il licenziamento era stato impugnato dall'interessato dinanzi al Tribunale ordinario di Catania, sezione lavoro, per nullità, in quanto intimato, in data 18 gennaio 2021, in costanza del cosiddetto "blocco" dei licenziamenti. Il giudice di primo grado aveva rigettato l'impugnativa, ritenendo non applicabile alla categoria dei dirigenti la disciplina prevista dall'art. 12, comma 10, del d.l. n. 137 del 2020, come convertito, e considerando il recesso «assistito dal carattere della giustificatezza, come dimostrato dalla motivazione contenuta nella lettera di licenziamento». Ancora, il Tribunale aveva ritenuto infondati i dubbi di illegittimità costituzionale prospettati, in giudizio, dal lavoratore.
La Sezione rimettente, affermata la rilevanza della questione, richiama i passaggi fondamentali delle due ordinanze di rimessione della Corte di cassazione (sulle quali si è già riferito), condividendone il contenuto. Evidenzia, quindi, il «palese difetto di "simmetria"» che - analogamente alle disposizioni censurate dalla Corte di cassazione - affliggerebbe la previsione denunciata, la quale, al comma 9, reitera il "blocco" dei licenziamenti collettivi (che riguarda anche i dirigenti) e invece, al comma 10, esclude il personale dirigenziale dal "blocco" dei licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo. Sulla premessa che «non si apprezza alcuna differenza fra licenziamento collettivo e quello individuale» e che anzi «"il sacrificio" imposto da tale divieto al datore di lavoro è sicuramente più gravoso nel caso di sussistenza dei presupposti giustificativi del licenziamento collettivo piuttosto che in quello di licenziamento individuale del singolo dirigente», il rimettente conclude nel senso di ritenere integrata la violazione dell'art. 3 Cost. nella parte in cui la disposizione censurata «non prevede il divieto temporaneo di procedere al licenziamento individuale del dirigente per ragioni oggettive».
4.- Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che questa Corte dichiari inammissibile e, comunque, non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d'appello di Catania.
Anzitutto, la questione sarebbe inammissibile «in relazione alla sua rilevanza, atteso che il giudice [...] non ha assolto all'onere processuale di fornire adeguata motivazione delle ragioni che impediscono di pervenire in via interpretativa alla soluzione ritenuta costituzionalmente corretta». Sarebbe, infatti, possibile, secondo la difesa statale, «un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma impugnata», posto che la formulazione letterale di quest'ultima «non ha incluso espressamente la categoria dei dirigenti tra i [suoi] destinatari». Il richiamo, contenuto nel censurato art. 12 del d.l. n. 137 del 2020, come convertito, alla facoltà di recesso di cui all'art. 3 della legge n. 604 del 1966 andrebbe infatti riferito «alla ragione posta a fondamento del recesso, e non a delimitare l'ambito soggettivo di applicazione del divieto». L'intento del legislatore, insomma, sarebbe stato quello di «vietare i licenziamenti economici indiscriminatamente, senza alcun richiamo a specifiche categorie di lavoratori». Tale interpretazione sarebbe sostenuta da diverse ragioni, legate sia alla «tecnica normativa» impiegata (che sarebbe stata «soggettiva» e non «tipologica» qualora il legislatore avesse inteso ampliare l'ambito soggettivo del divieto), sia alla nozione di «giustificato motivo oggettivo» di cui all'art. 3 della legge n. 604 del 1966 (che si discosterebbe, quanto all'«essenza», da quella di «giustificatezza oggettiva» valida per i dirigenti), sia alla ratio perseguita dal legislatore (consistente nell'«evitare in via provvisoria che le conseguenze economiche della pandemia si traducano nella soppressione immediata di posti di lavoro»), sia infine alla circostanza che, quanto ai licenziamenti collettivi, la medesima disposizione protegge anche i dirigenti, ciò che confermerebbe che il "blocco" è improntato al criterio della esclusione dei dirigenti per le peculiari caratteristiche della relativa categoria.
Nel merito, la questione sarebbe comunque non fondata, posto che «[i]l dato testuale della norma è chiaro e non discriminatorio». Si ribadisce che il legislatore, mediante il richiamo all'art. 3 della legge n. 604 del 1966, avrebbe solo inteso selezionare per tipologia i licenziamenti, circoscrivendoli «a quelli supportati da motivi di ordine cd economico [...], per escludervi di contro quelli relativi ai comportamenti illegittimi del lavoratore», senza con ciò voler individuare o delimitare la categoria dei lavoratori interessati. L'esigenza, di ordine pubblico, di attenuare provvisoriamente le conseguenze economiche negative della pandemia riguarderebbe, del resto, «tutte le categorie di lavoratori, non essendovi ragione per escludere dalla tutela i dirigenti che sono soggetti più esposti».
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.- La Corte di cassazione, sezione lavoro, e la Corte d'appello di Catania, sezione lavoro, con tre ordinanze di analogo tenore, sollevano, in riferimento all'art. 3 Cost., questioni di legittimità costituzionale delle disposizioni che, nel corso dell'anno 2020, avendo, ratione temporis, reiteratamente stabilito che il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'art. 3 della legge n. 604 del 1966, non hanno esteso tale disciplina anche ai lavoratori che rivestono la qualifica di dirigenti.
Nel dettaglio, con la questione iscritta al n. 151 reg. ord. del 2024, la Corte di cassazione, sezione lavoro, censura l'art. 46 del d.l. n. 18 del 2020, come convertito, che costituisce, in ordine di tempo, la prima delle disposizioni con le quali, nel contesto dell'emergenza epidemiologica da COVID-19, è stato introdotto il cosiddetto "blocco" dei licenziamenti, valido per cinque mesi a decorrere dall'entrata in vigore dello stesso decreto-legge (17 marzo 2020). La medesima Corte, con la questione iscritta al n. 150 reg. ord. del 2024, dubita della legittimità costituzionale dell'art. 14, comma 2, del d.l. n. 104 del 2020, come convertito, che ha mantenuto ferma la suddetta preclusione per i datori di lavoro, a partire dal 15 agosto 2020 in avanti. La Corte d'appello di Catania, infine, solleva questione di legittimità costituzionale (con ordinanza iscritta al n. 38 reg. ord. del 2025) dell'art. 12, comma 10, del d.l. n. 137 del 2020, come convertito, che ha a sua volta confermato la preclusione fino alla data del 31 gennaio 2021.
I tre giudizi a quibus hanno a oggetto altrettante domande di annullamento e di reintegra di lavoratori, inquadrati come dirigenti, nelle rispettive aziende datrici di lavoro, ai quali è stato intimato il licenziamento individuale per ragioni inerenti al ridimensionamento del personale e alla riorganizzazione aziendale. Aspetto controverso tra le parti, in tutti e tre i giudizi principali, è se la preclusione dei recessi individuali, per come imposta e reiterata dalle menzionate disposizioni, sia applicabile, o meno, anche ai lavoratori che rivestono qualifica dirigenziale. In proposito, i giudici rimettenti affermano di non poter addivenire a un'interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni censurate, atteso l'inequivoco tenore letterale delle stesse, che richiama un istituto - il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ai sensi dell'art. 3 della legge n. 604 del 1966 - non applicabile ai dirigenti per i quali vige il regime del recesso ad nutum di cui all'art. 2118 cod. civ. La conseguente esclusione di questi lavoratori dall'ambito soggettivo del "blocco" dei licenziamenti individuali contrasterebbe con l'art. 3 Cost. sotto il profilo della violazione del principio di ragionevolezza.
L'attenzione dei rimettenti si focalizza sul regime dei licenziamenti collettivi e delle connesse garanzie, regime che, ai sensi dell'art. 24 della legge n. 223 del 1991 (come modificato dall'art. 16 della legge n. 161 del 2014), è stato esteso in favore dei lavoratori dirigenti. Posto che la preclusione dei licenziamenti collettivi, parimenti introdotta dalle medesime fonti emergenziali in esame, si riferisce anche ai dirigenti, che sono invece rimasti esclusi dal "blocco" dei licenziamenti individuali (intimati per motivi economici), ne deriverebbe, per costoro, una disciplina emergenziale affetta da una «lacuna normativa» e connotata da un «difetto di simmetria» e, perciò, irragionevole, apparendo «del tutto eclettica» (così le ordinanze iscritte al n. 150 e al n. 151 reg. ord. del 2024) la scelta del legislatore di escludere i dirigenti - pur coinvolti nel "blocco" dei licenziamenti collettivi - dal divieto di quelli individuali «per ragioni del pari oggettive» (così l'ordinanza iscritta al n. 150 reg. ord. del 2024). Se nel bilanciamento con i contrapposti interessi è stata ritenuta sacrificabile la facoltà del recesso collettivo del datore, «a maggior ragione» si sarebbe dovuta sacrificare quella di recesso individuale, perché «nel più sta il meno» (così, ancora, le ordinanze iscritte al n. 150 e al n. 151 reg. ord. del 2024).
2.- In via preliminare, deve essere disposta la riunione dei tre giudizi, che hanno a oggetto la medesima sostanziale disposizione di legge, sia pure nelle varie declinazioni temporali succedutesi nel tempo, e che fanno valere argomenti e parametro coincidenti (ex plurimis, di recente, sentenza n. 220 del 2023), con identico petitum rivolto a questa Corte (sentenze n. 171 del 2024 e n. 186 del 2020).
3.- Ancora in via preliminare, occorre valutare la sorte del giudizio iscritto al n. 151 reg. ord. 2024, in riferimento al quale l'azienda privata Gruppo PSC spa, ricorrente nel giudizio principale, ha reso nota l'avvenuta formalizzazione di un accordo tra le parti. In tal modo, come riferito dalla parte, è stato «definitivamente posto termine alla lite», con conseguente deposito, nel giudizio principale, di un atto di rinuncia al ricorso per cassazione corredato da contestuale accettazione della controparte.
Tale evento, tuttavia, non è in grado di incidere sul presente giudizio.
Secondo quanto stabilisce l'art. 21 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, le sorti del procedimento principale, in linea di principio, non producono effetti sul giudizio incidentale (tra le tante, sentenza n. 244 del 2020). Quest'ultimo, infatti, in ossequio al principio di autonomia, più volte affermato da questa Corte, non risente delle vicende di fatto successive all'ordinanza di rimessione e relative al rapporto dedotto nel processo principale. La costante giurisprudenza costituzionale afferma, pertanto, che la rilevanza della questione deve essere valutata alla luce delle circostanze esistenti al momento del provvedimento di rimessione, «senza che assumano rilievo eventi sopravvenuti (sentenze n. 244 e n. 85 del 2020), quand'anche costituiti dall'estinzione del giudizio principale per effetto di rinuncia da parte dei ricorrenti (ordinanza n. 96 del 2018)» (così, ex plurimis, sentenza n. 270 del 2020, da ultimo richiamata dalla sentenza n. 120 del 2024).
4.- Con riferimento al solo giudizio iscritto al n. 38 reg. ord. del 2025, il Presidente del Consiglio dei ministri ha preliminarmente eccepito l'inammissibilità della questione «in relazione alla sua rilevanza, atteso che il giudice [...] non ha assolto all'onere processuale di fornire adeguata motivazione delle ragioni che impediscono di pervenire in via interpretativa alla soluzione ritenuta costituzionalmente corretta». Sarebbe, infatti, possibile «un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma impugnata» (l'art. 12, comma 10, del d.l. n. 137 del 2020, come convertito), posto che la formulazione letterale di quest'ultima «non ha incluso espressamente la categoria dei dirigenti tra i [suoi] destinatari».
4.1.- L'eccezione non è fondata.
L'ordinanza di rimessione della Corte d'appello di Catania ha preliminarmente esaminato la possibilità di attribuire alla disposizione censurata un significato compatibile con la Costituzione. Nel richiamare le conclusioni cui era già giunta la sezione lavoro della Corte di cassazione con le altre due ordinanze di rimessione, essa ha escluso la praticabilità di tale soluzione alla luce del dato letterale costituito dal richiamo, operato dalla disposizione censurata, all'art. 3 della legge n. 604 del 1966.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, «quando il giudice a quo abbia consapevolmente reputato che il tenore della disposizione censurata impone una determinata interpretazione e ne impedisce altre, eventualmente conformi a Costituzione, la verifica delle relative soluzioni ermeneutiche non attiene al piano dell'ammissibilità, ed è piuttosto una valutazione che riguarda il merito delle questioni (così, ex multis, sentenze n. 50 e n. 118 del 2020 e n. 133 del 2019)» (sentenza n. 150 del 2022).
5.- La disamina del merito delle odierne questioni non può, peraltro, prescindere proprio dalla pregiudiziale interpretazione delle disposizioni censurate, necessaria per verificare la correttezza del presupposto ermeneutico dal quale muovono le ordinanze di rimessione, cioè la non applicabilità ai dirigenti del divieto dei licenziamenti.
5.1.- A tale fine è opportuno un breve inquadramento del contesto in cui si collocano le tre disposizioni, con le quali, a partire dall'insorgenza dell'emergenza epidemiologica da COVID-19, è stata introdotta, e poi immediatamente reiterata, la temporanea preclusione, per i datori di lavoro, della facoltà di recesso individuale per giustificato motivo oggettivo.
La misura così imposta, «ispirata dalla specifica ratio di tutela dei lavoratori dalle conseguenze negative sull'occupazione derivanti dal blocco o dalla riduzione dell'attività produttiva conseguente all'emergenza COVID 19» (Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza 30 aprile 2025, n. 11429), si connota, a un tempo, per la natura eccezionale e per l'applicazione tendenzialmente generalizzata. Essa, infatti, consiste in una deroga alle ordinarie facoltà datoriali di recesso dal rapporto di lavoro e, dal punto di vista soggettivo, prescinde dalle dimensioni dell'impresa, in quanto vincola tutti i datori di lavoro «indipendentemente dal numero dei dipendenti». In relazione a determinate ipotesi, peraltro, la platea soggettiva dei datori di lavoro (nonché dei lavoratori) è stata parzialmente circoscritta, secondo quanto previsto a partire dall'art. 14, comma 3, del d.l. n. 104 del 2020, come convertito.
La generalizzata applicazione della misura in esame ha caratterizzato anche il versante oggettivo, ossia la tipologia di recesso che è stata preclusa. Come ampiamente messo in luce dalle ordinanze di rimessione, il "blocco" dei licenziamenti ha infatti interessato l'intero panorama dei licenziamenti economici, sia di natura collettiva che individuale. Accanto alle disposizioni che - come quelle in questa sede censurate - hanno declinato il divieto richiamando il «giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604», che detta la disciplina dei licenziamenti individuali, il legislatore ne ha introdotte altre, con le quali si è «precluso l'avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223» (così, ad esempio, la formulazione dell'art. 14, comma 1, del d.l. n. 104 del 2020, come convertito), con chiaro rimando, dunque, ai licenziamenti collettivi.
Peraltro, alla misura eccezionale del "blocco" temporaneo dei licenziamenti, sia individuali per giustificato motivo oggettivo, sia collettivi, il legislatore ha sempre accompagnato la previsione di misure di sostegno economico in favore delle imprese, calibrandole variamente nel succedersi delle fonti emergenziali.
In tal senso, sono state introdotte previsioni speciali in materia di integrazione salariale, usufruibile con causale «emergenza COVID-19» per periodi limitati, ma via via reiterati nel corso dei mesi, cui sono state quasi sempre aggiunte altre e diverse tipologie di aiuto, sostanzialmente riconducibili a sgravi previdenziali e/o fiscali in favore delle imprese. È il caso di sottolineare che le previsioni di integrazione salariale, corredate dalla predetta causale, sono state modellate sulla disciplina generale della cassa integrazione guadagni (CIG) ordinaria, di cui al d.lgs. n. 148 del 2015.
Anche in questo particolare settore può dunque dirsi che il legislatore - come questa Corte non ha mancato di osservare con riferimento ad altre misure emergenziali messe in atto nel medesimo frangente storico - si è mosso secondo la «logica della solidarietà collettiva», impiegando «consistenti risorse economiche» con l'obiettivo di fronteggiare «l'arresto di fatto di numerose attività economiche [e la] conseguente difficoltà di ampi strati della popolazione» (sentenza n. 213 del 2021).
5.2.- Nel descritto contesto, il problema interpretativo dell'estensione dei divieti di licenziamento anche ai lavoratori con qualifica dirigenziale, non espressamente menzionati dalle norme, ha trovato divergenti soluzioni nelle prime pronunce della giurisprudenza di merito.
Secondo un primo orientamento, le norme in esame potrebbero prestarsi a una lettura costituzionalmente orientata, tale da ricomprendere, nel divieto imposto ai datori di lavoro, anche i licenziamenti individuali dei dirigenti motivati da ragioni economiche. Il richiamo all'art. 3 della legge n. 604 del 1966, in questa prospettiva, sarebbe da intendere come volto a identificare solo la tipologia di licenziamento investito dalla preclusione e non anche la platea dei lavoratori che ne beneficiano. A supporto di questa tesi è stato anche osservato che i dirigenti sono comunque garantiti dalla "giustificatezza" della ragione oggettiva di licenziamento, secondo quanto comunemente stabilisce la disciplina di fonte collettiva che ne regola il rapporto di lavoro. Tale "giustificatezza" «è in rapporto di continenza rispetto al meno ampio giustificato motivo oggettivo», ragione per la quale l'esclusione dei dirigenti dal "blocco" risulterebbe «incoerente» (in tal senso, Tribunale ordinario di Milano, sezione lavoro, sentenza 10 novembre 2021; nello stesso senso, Tribunale di Roma, sezione terza lavoro, ordinanze 16 ottobre 2021 e 26 febbraio 2021).
Secondo altro orientamento, la riferita interpretazione non sarebbe praticabile a causa della portata letterale delle disposizioni, che si riferiscono inequivocabilmente ai soli licenziamenti individuali per motivi oggettivi di cui all'art. 3 della legge n. 604 del 1966, ossia a quelli che riguardano i lavoratori privi della qualifica dirigenziale (in tal senso, ex aliis, Tribunale di Roma, sezione lavoro, sentenza 25 ottobre 2022, n. 8722). Si è anche sottolineato che le disposizioni in esame hanno dato vita a una «norma eccezionale, come tale di stretta interpretazione», e che il loro dato letterale, volto a escludere la figura del dirigente dal blocco dei licenziamenti, appare «coerente con la ratio che sorregge l'emergenziale divieto di recesso, [...] insuscettibile di censure in punto di disparità di trattamento fra diverse categorie di lavoratori subordinati», facendosi altresì notare «la fondamentale differenza della previsione, per le altre categorie, della percezione della c.d. "Cassa Covid", che non spetta ai dirigenti: includendo costoro nel "blocco" si finirebbe, infatti, irragionevolmente, con l'addossare sulla sola parte datoriale, e integralmente, il costo collegato alla moratoria dei licenziamenti» (Corte d'appello di Bologna, sezione lavoro, sentenza 24 gennaio 2023, n. 25).
La giurisprudenza di legittimità risulta essersi pronunciata, per la prima volta, proprio con le due odierne ordinanze di rimessione. Queste, in modo non implausibile, hanno sposato la tesi della non estensibilità ai dirigenti del "blocco" dei licenziamenti, evidenziando che l'istituto del recesso per giustificato motivo oggettivo, di cui all'art. 3 della legge n. 604 del 1966, non è giuridicamente riferibile ai lavoratori aventi tale qualifica. Ciò, del resto, è coerente con il costante orientamento della stessa giurisprudenza di legittimità, secondo il quale il rapporto di lavoro del dirigente non è assoggettato alle norme limitative dei licenziamenti individuali di cui agli artt. 1 e 3 della legge n. 604 del 1966, come deriva dalla previsione dell'art. 10 della medesima legge che ne delimita l'ambito di applicazione soggettivo nei confronti dei lavoratori aventi la qualifica di impiegato e di operaio, ai sensi dell'art. 2095 cod. civ. In tale quadro, la nozione di "giustificatezza" del licenziamento del lavoratore avente qualifica dirigenziale, derivante dalla contrattazione collettiva di settore, non coincide con quella di giustificato motivo contemplata dalla legge n. 604 del 1966 (in tal senso, ex plurimis, Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza 12 marzo 2024, n. 6540).
Successivamente alle due ordinanze di rimessione, la Corte di cassazione ha ribadito la tesi che esclude l'estensione ai dirigenti del divieto dei licenziamenti vigente nel periodo della pandemia, avviandosi ormai verso il consolidamento di questo indirizzo (sezione lavoro, sentenza 14 ottobre 2024, n. 26634, e ordinanza n. 11429 del 2025).
Deve dunque concludersi che, allo stato attuale della riflessione giurisprudenziale, la quale va affermandosi quale diritto vivente, il divieto dei licenziamenti imposto dalla normativa emergenziale del periodo pandemico, in quanto eccezione agli ordinari poteri di recesso di cui gode la parte datoriale, non può essere esteso oltre il perimetro oggettivamente ricavabile dalla formulazione letterale delle norme. Queste si riferiscono espressamente ai soli lavoratori assoggettati alla disciplina del recesso individuale per motivi oggettivi di cui all'art. 3 della legge n. 604 del 1966, dalla quale è per definizione esclusa, secondo le previsioni dell'art. 10 della medesima legge, la categoria dei lavoratori dirigenti.
6.- Ciò posto, le questioni di legittimità costituzionale sollevate non sono fondate.
6.1.- Le tre ordinanze di rimessione revocano in dubbio la legittimità costituzionale delle disposizioni sul "blocco" dei licenziamenti lungo un profilo interno alla categoria dirigenziale, che si assume ingiustificatamente differenziata a seconda che si tratti di licenziamento collettivo (precluso dalle norme di cui si tratta), ovvero di licenziamento individuale per ragioni oggettive (non intaccato dai divieti e, dunque, rimasto praticabile pure durante il periodo emergenziale).
La valutazione cui è chiamata questa Corte deve, dunque, esclusivamente focalizzarsi sulla nozione legale di «dirigente», quale prestatore di lavoro subordinato che la legge distingue rispetto alle categorie dei quadri, impiegati e operai (art. 2095 cod. civ.). Ciò non toglie che la contrattazione collettiva possa riconoscere la qualifica di dirigente anche al di là della nozione legale. E parimenti il datore di lavoro può attribuire tale qualifica come trattamento di miglior favore.
Questa Corte ha costantemente sottolineato che il dirigente, pur rientrando, per espressa previsione del codice civile, tra i lavoratori subordinati, non è comparabile alle altre categorie, rispetto alle quali si caratterizza «per alcune significative diversità» (sentenza n. 228 del 2001; nello stesso senso, in precedenza, anche sentenze n. 180 del 1987, n. 101 del 1975 e n. 121 del 1972). Viene in rilievo, infatti, il particolare status del dirigente, che la giurisprudenza costituzionale non ha esitato a definire «un vero e proprio alter ego dell'imprenditore», in virtù sia dell'autonomia e della discrezionalità che connotano le sue decisioni, sia dei suoi poteri, anche rappresentativi, idonei «ad influenzare l'andamento e la vita dell'azienda o del settore cui è preposto, tanto al suo interno quanto nei rapporti con i terzi» (sentenza n. 309 del 1992). La «piena fiducia» dell'imprenditore, di cui questo lavoratore deve godere, giustifica l'iscrizione del rapporto di lavoro del dirigente «nell'area della libera recedibilità», salva naturalmente «la stabilità relativa che è prevista dal contratto collettivo di categoria, il quale varia da impresa ad impresa», e salva altresì «la tutela che si deve riconoscere ex lege contro fatti che ledono la sua dignità di uomo e di lavoratore» (ancora, sentenza n. 309 del 1992).
6.2.- Muovendo da tali premesse, questa Corte ha più volte affermato che non contrasta con l'art. 3 Cost. l'esclusione dei dirigenti dall'applicazione della generale disciplina legislativa sui licenziamenti individuali, «compresa la regola della necessaria giustificazione del licenziamento (sentenze n. 228 del 2001, n. 309 del 1992 e n. 121 del 1972; ordinanza n. 404 del 1992; le ultime due pronunce riguardano, in particolare, l'art. 10 della legge n. 604 del 1966, che esclude i dirigenti dall'applicazione, tra l'altro, dell'art. 1 di tale legge, cioè della disposizione che richiede l'esistenza di una "giusta causa" o di un "giustificato motivo" di licenziamento)» (sentenza n. 194 del 2018). Il licenziamento del dirigente, pertanto, «non è da considerarsi alla stregua di quello degli altri lavoratori subordinati, pur non potendo rientrare nell'area della completa discrezionalità dell'imprenditore» (sentenza n. 228 del 2001).
6.3.- I tratti differenziali così evidenziati, tuttavia, non escludono che il legislatore, nel discrezionale perseguimento di obiettivi di protezione ritenuti comuni a tutti i lavoratori, renda applicabili anche ai dirigenti determinati istituti, sorti a tutela delle altre categorie. È quanto avvenuto con la disciplina dei licenziamenti collettivi, che è stata estesa ai dirigenti per effetto della legge n. 161 del 2014 (art. 24, commi 1 e 1-quinquies, della legge n. 223 del 1991), anche per soddisfare esigenze di allineamento con la corrispondente normativa dell'Unione europea, di cui alla direttiva 98/59/CE.
Pur se previste in analogo contesto di natura "economica" («id est, per ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al suo regolare funzionamento»: sentenza n. 7 del 2024), invece, le garanzie che assistono i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, di cui all'art. 3 della legge n. 604 del 1966, continuano a proteggere i soli lavoratori non dirigenti, gli unici ricompresi nell'ambito applicativo della legge n. 604 del 1966 in base al suo art. 10.
6.4.- È dunque questo lo scenario che va considerato nella decisione delle odierne questioni di legittimità costituzionale. Questa Corte è chiamata a scrutinare la differenziazione, che si assume irragionevole nel contesto emergenziale della pandemia, tra due situazioni le quali, per essere entrambe connotate dalla natura economica delle ragioni che le accompagnano, appaiono ai rimettenti assimilabili: da una parte, vi sono i dirigenti che sarebbero stati coinvolti in procedure collettive di licenziamento (i quali mantengono il posto di lavoro); dall'altra, quelli cui viene intimato un licenziamento individuale per ragioni economiche (i quali, per il solo fatto di essere coinvolti in tale alternativa tipologia di recesso, finiscono per perdere il posto di lavoro).
Non viene invece in rilievo, per le presenti questioni, il profilo del differente trattamento, quanto al "blocco" dei licenziamenti individuali per ragioni oggettive, tra la categoria dei dirigenti (che è stata esclusa dal "blocco" di questa tipologia di licenziamenti), da un lato, e le altre categorie di lavoratori (quadri, impiegati e operai, viceversa inclusi nel "blocco"), dall'altro lato. È dunque inconferente, ai fini del decidere, la questione pregiudiziale che l'amicus curiae ha prospettato, impostata lungo i binari della «discriminazione indiretta non sorretta da ragione obbiettiva» ma, unicamente, nella prospettiva del confronto tra i lavoratori dirigenti e i lavoratori non dirigenti.
6.5.- Sin da tempo risalente, questa Corte ha affermato che il legislatore «può ben stabilire, nell'esercizio della sua valutazione politica, un regime preferenziale di garanzia di conservazione del lavoro in favore di determinate categorie tutte le volte in cui sussistano motivi che lo giustifichino», sempre che si tratti di ragioni che trovano «valido riscontro nella realtà sociale e nella Costituzione» (sentenza n. 27 del 1969).
Diverse considerazioni fanno ritenere, nei casi oggi al vaglio di questa Corte, che la misura del divieto dei licenziamenti, così come introdotta e più volte reiterata durante il periodo dell'emergenza sanitaria da COVID-19, sia sorretta da valide ragioni atte a giustificare sul piano costituzionale il trattamento differenziato riservato alla categoria dei dirigenti.
6.6.- Occorre anzitutto sottolineare che le norme emergenziali oggetto di censura ricalcano, quanto ai dirigenti, i medesimi confini applicativi delle regole ordinarie sui licenziamenti (collettivi e individuali per motivo oggettivo), come, del resto, rilevato dagli stessi rimettenti. Anche la disciplina ordinaria risulta infatti caratterizzata dalla medesima "asimmetria" che i rimettenti denunciano, in quanto le garanzie apprestate dalla legge nel caso dei licenziamenti individuali dovuti a motivi "economici", di cui alla legge n. 604 del 1966, non sono applicabili ai dirigenti, mentre quelle che assistono i licenziamenti collettivi proteggono pacificamente, dopo la legge n. 161 del 2014, anche questa categoria di lavoratori.
La corrispondenza tra i due assetti - quello ordinario e quello emergenziale, accomunati da analoga "asimmetria" - conferisce, già di per sé, coerenza e ragione giustificativa alla scelta operata dal legislatore del periodo pandemico, vieppiù considerando che la sua discrezionalità, «nel disegnare misure di contrasto della pandemia, bilanciando la tutela di interessi e diritti in gioco, è più ampia che in condizioni ordinarie» (sentenza n. 213 del 2021).
Questa Corte ha rilevato che, nella situazione di emergenza sanitaria, «[i]l dovere di solidarietà sociale, nella sua dimensione orizzontale, può anche portare, in circostanze particolari, al temporaneo sacrificio di alcuni [...] a beneficio di altri maggiormente esposti, selezionati inizialmente sulla base di un criterio a maglie larghe» (sentenza n. 128 del 2021). È proprio sulla base del «metro di questa maggiormente estesa discrezionalità» (sentenza n. 213 del 2021) che, al pari delle altre misure emergenziali già scrutinate da questa Corte, va valutata anche quella del "blocco" dei licenziamenti, che ha differenziato i dirigenti a seconda della tipologia (collettiva, ovvero individuale) del recesso per ragioni "economiche".
Come la legge ha differenziato, in modo non irragionevole, il regime ordinario del licenziamento dei dirigenti per motivi "economici", a seconda che si tratti di recesso individuale ovvero collettivo, a maggior ragione, nel particolare contesto dell'emergenza epidemiologica, il legislatore è coerentemente intervenuto, previa valutazione degli interessi coinvolti, giungendo a divaricare le rispettive conseguenze in punto di "blocco" dei licenziamenti e a escludere da quest'ultimo i dipendenti rientranti nella nozione legale di dirigente ai sensi dell'art. 2095 cod. civ.
6.7.- I tratti essenziali della misura così imposta appaiono, del resto, coerenti con le condizioni di legittimità che la giurisprudenza di questa Corte ha già enucleato per le norme di natura eccezionale limitative dei diritti dei singoli varate durante il periodo dell'emergenza sanitaria: condizioni che consistono nella eccezionalità, temporaneità e proporzionalità delle stesse (in particolare, sentenze n. 213 e n. 128 del 2021).
Il divieto dei licenziamenti, pur se più volte reiterato nel tempo, non ha mai perso la sua connotazione di transitorietà, legata all'insorgere della pandemia, ed è cessato una volta esaurita la fase dell'emergenza. Il succedersi delle varie disposizioni, nel corso dei mesi, testimonia il continuo aggiornamento e la costante rivalutazione dei contrapposti interessi, operata dal legislatore di pari passo con l'evolversi della pandemia.
Le esposte considerazioni denotano lo sforzo di rendere la misura in esame proporzionata all'effettiva necessità, secondo la logica dell'extrema ratio, sulla base di una ragione oggettivamente imperativa di interesse comune, contemperata con il minor sacrificio possibile per i vari interessi in gioco. Sarebbe, invero, limitante rintracciare la ratio delle disposizioni censurate sul solo terreno dei rapporti individuali di lavoro, venendo piuttosto in rilievo, nel bilanciamento operato dal legislatore, valutazioni, necessariamente più generali, di natura sociale ed economica.
6.8.- Trova dunque collocazione, entro i binari della non manifesta irragionevolezza, la scelta del legislatore di non azzerare del tutto il potere di recesso della parte datoriale, connesso al pieno esercizio della libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.), e piuttosto di limitarlo temporaneamente e circoscriverlo alla sola ipotesi che, in proporzione, coinvolge poche unità di lavoratori economicamente più "forti".
Al contempo, sul versante della tutela del lavoro (artt. 1, 4, 35 e 36 Cost.), quella stessa scelta ha consentito non solo di esaudire efficacemente il contrapposto interesse, comune a tutte le categorie di lavoratori, volto al mantenimento del posto di lavoro e della relativa capacità reddituale, ma anche, e soprattutto, di erigere il presidio sociale più ampio possibile a protezione sia, individualmente, dei lavoratori meno "forti" (quadri, impiegati, operai), sia, collettivamente, di interi gruppi di lavoratori (compresi i dirigenti) altrimenti esposti al rischio della mobilità collettiva.
7.- Conclusivamente, le questioni di legittimità costituzionale sollevate devono essere dichiarate non fondate.
P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 14, comma 2, del decreto-legge 14 agosto 2020, n. 104 (Misure urgenti per il sostegno e il rilancio dell'economia), convertito, con modificazioni, nella legge 13 ottobre 2020, n. 126, sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, con l'ordinanza iscritta al n. 150 del registro ordinanze 2024;
2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 46 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 (Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori e imprese connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 24 aprile 2020, n. 27, sollevata, in riferimento all'art. 3 Cost., dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, con l'ordinanza iscritta al n. 151 del registro ordinanze 2024;
3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 12, comma 10, del decreto-legge 28 ottobre 2020, n. 137 (Ulteriori misure urgenti in materia di tutela della salute, sostegno ai lavoratori e alle imprese, giustizia e sicurezza, connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19), convertito, con modificazioni, nella legge 18 dicembre 2020, n. 176, sollevata, in riferimento all'art. 3 Cost., dalla Corte d'appello di Catania, sezione lavoro, con l'ordinanza iscritta al n. 38 del registro ordinanze 2025.