Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
Sezione I
Sentenza 19 agosto 2025, n. 15597
Presidente ed Estensore: Petrucciani
FATTO
Con il ricorso in epigrafe sono stati impugnati il provvedimento con il quale l'Autorità garante della concorrenza e del mercato ha irrogato a Otis Servizi s.r.l. la sanzione pecuniaria di euro 600.000,00 per una pratica commerciale ritenuta scorretta ai sensi degli artt. 20, comma 2, 24 e 25 del d.lgs. n. 206/2005, e il provvedimento del 25 novembre 2021 di rigetto degli impegni presentati dal professionista in data 29 ottobre 2021.
La ricorrente ha dedotto che, a seguito di due segnalazioni ricevute dall'AGCM in data 17 febbraio 2021 e 16 marzo 2021, sarebbe emerso che Otis aveva citato in giudizio i consumatori segnalanti presso un foro non competente, violando le norme poste a tutela del consumatore; Otis aveva risposto in data 30 luglio 2021 ad una prima richiesta di informazioni inviata dall'Autorità, a seguito della quale in data 17 settembre 2021 veniva comunicato l'avvio del procedimento; veniva quindi inviata una seconda richiesta di informazioni alla quale Otis aveva dato riscontro in data 7 ottobre 2021.
In data 29 ottobre 2021 Otis aveva presentato impegni volti a far venire meno i profili di illegittimità della pratica, ma gli impegni erano stati respinti dall'AGCM; in data 13 dicembre 2021 era stato comunicato a Otis il termine di conclusione della fase istruttoria, assegnando termine per presentare memorie conclusive e, acquisite le stesse, l'Autorità aveva concluso il procedimento con il provvedimento impugnato.
A sostegno del ricorso sono state formulate le seguenti censure:
1) violazione dell'art. 14 l. n. 689 del 1981: eccessiva durata della fase pre-istruttoria.
Dalle segnalazioni ricevute dall'AGCM in data 17 febbraio 2021 e 16 marzo 2021, o comunque dalla richiesta di informazioni (inviata in data 18 luglio 2021), erano decorsi i 90 giorni di tempo stabiliti dall'art. 14 l. n. 689 del 1981 per l'apertura del procedimento (avvenuta in data 23 settembre 2021);
2) violazione degli artt. 18, 20, 24 e 25 del d.lgs. 206/2005; violazione degli artt. 2, 8 e 9 della direttiva 2005/29/CE; eccesso di potere per difetto di istruttoria, erroneità dei presupposti, difetto di motivazione, illogicità ed ingiustizia manifesta.
In tutti i contratti oggetto del procedimento Otis aveva sempre inserito la clausola relativa al foro inderogabile del consumatore, sicché le fattispecie contestate erano circoscritte unicamente alla fase successiva di recupero del credito.
Tale fase poteva essere scissa in due distinti momenti, il primo di competenza di Otis ed il secondo, invece, di competenza di uno studio legale esterno; era questa seconda fase quella oggetto del procedimento, che concerneva le modalità di instaurazione dei giudizi per il recupero crediti innanzi a fori diversi da quello di residenza del consumatore; pertanto la condotta contestata dall'AGCM non poteva essere imputata ad Otis, ma, al più, all'erroneo operato dello studio legale incaricato.
Inoltre, a partire da marzo 2021, e quindi ben prima dell'avvio del procedimento istruttorio, Otis aveva affidato la gestione della fase esterna del recupero credito ad altro studio legale, il quale aveva correttamente avviato le nuove azioni dinnanzi al foro del consumatore.
L'Autorità non aveva neppure adeguatamente valutato il fatto che nel periodo di riferimento, tra il 2018 e luglio 2021, a fronte di 31.390 clienti con fatture scadute, il recupero del credito affidato allo studio legale esterno era stato pari a 367 consumatori e che di queste 367 azioni solo 181 (quindi meno della metà) erano state incardinate dinnanzi al foro di Milano, mentre le restanti erano state correttamente avviate dinnanzi al foro di residenza o elettiva domiciliazione del cliente;
3) violazione degli artt. 24, 25 e 27, comma 7, del codice del consumo; eccesso di potere per sviamento, contraddittorietà, disparità di trattamento; carenza di istruttoria, travisamento dei fatti, irragionevolezza manifesta.
L'AGCM, con la comunicazione di rigetto degli impegni, si era limitata a rilevare che gli impegni erano inidonei a rimuovere gli effetti della pratica sui consumatori incisi dalla stessa; tale decisione, tuttavia, era priva di adeguata motivazione;
4) violazione e falsa applicazione dell'art. 27 del d.lgs. n. 206/2005; violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 11 della l. n. 689/1981; eccesso di potere per contraddittorietà, difetto di motivazione, violazione del principio di proporzionalità.
La condotta contestata non poteva essere considerata "grave" ai sensi dell'art. 11 l. 689/1981, tenuto conto della carenza dell'elemento soggettivo e dal fatto che la pratica era stata posta in essere da un terzo, della corretta indicazione del foro nei contratti, dell'esiguità dei fori erroneamente aditi, dell'esiguità dei recuperi giudiziali e del fatto che, come ammesso dall'Autorità, le azioni incardinate presso il foro corretto costituivano ben il 70% del credito incassato, mentre solo il 30% degli incassi era riferibile al foro erroneamente adito.
La misura inflitta non era proporzionale anche tenuto conto di altre misure inflitte ad altre società sanzionate per aver citato in giudizio diversi consumatori senza il rispetto del foro competente.
Si è costituita l'Autorità garante della concorrenza e del mercato resistendo al ricorso.
All'esito dell'udienza del 6 novembre 2024, con ord. n. 19659/2024 il giudizio è stato sospeso in attesa della pronuncia della Corte di giustizia dell'Unione europea sulla questione rimessa da questa Sezione con l'ord. n. 13016 del 2 agosto 2023, in ordine all'applicabilità del predetto art. 14 della l. 24 novembre 1981, n. 689 ai procedimenti di competenza dell'Antitrust.
A seguito della pronuncia della CGUE all'udienza pubblica del 21 maggio 2025 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
Il ricorso è infondato.
Con il primo motivo di ricorso è stata lamentata la violazione del termine di 90 giorni per l'avvio del procedimento fissato dall'art. 14 della l. n. 689/1981.
In merito deve preliminarmente osservarsi come la circostanza che il Consiglio di Stato abbia recentemente rimesso alla Corte di giustizia dell'Unione europea una nuova questione interpretativa dell'art. 14 l. 689/1981 risulta ininfluente sull'odierno giudizio: invero, quell'ordinanza (C.d.S., Sez. VI, 14 maggio 2025, n. 4151) afferisce ad una violazione del diritto antitrust (segnatamente, un'intesa vietata dall'art. 101 TFUE), mentre nell'odierno giudizio viene in rilievo una pratica commerciale scorretta (di cui agli artt. 20 ss. cod. cons.).
Orbene, considerato che la Corte di giustizia ha più volte rammentato che qualora «la disposizione di diritto dell'Unione di cui trattasi è già stata oggetto d'interpretazione da parte della Corte o [...] la corretta interpretazione del diritto dell'Unione s'impone con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbî» il giudice nazionale non è tenuto a rimettere la questione ai sensi dell'art. 267 TFUE (Corte giust. UE, 6 ottobre 2021, causa C-561/19), deve ritenersi che si possa decidere la causa senza dover attendere l'ulteriore pronunciamento del giudice europeo (come tra l'altro già avvenuto in ipotesi analoghe, cfr. T.A.R. Lazio, Sez. I, 1° luglio 2025, n. 12941).
Ed infatti, pronunciandosi sulla questione dell'applicabilità dell'art. 14 della l. n. 689/1981, e del relativo termine di 90 giorni per la contestazione delle violazioni, ai procedimenti sanzionatori in materia di pratiche commerciali scorrette, con sentenza del 30 gennaio 2025 la Corte di giustizia dell'Unione europea ha affermato che: «Gli articoli 11 e 13 della direttiva 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori nel mercato interno e che modifica la direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le direttive 97 luglio CE, 98/27/CE e 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e il regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio ("direttiva sulle pratiche commerciali sleali"), letti alla luce del principio di effettività, devono essere interpretati nel senso che: essi ostano a una normativa nazionale che, nell'ambito di un procedimento diretto all'accertamento di una pratica commerciale sleale condotto da un'autorità nazionale responsabile dell'esecuzione della normativa che tutela i consumatori, da un lato, impone a tale autorità di avviare la fase istruttoria in contraddittorio del procedimento, mediante la comunicazione degli addebiti all'impresa interessata, entro un termine di 90 giorni a decorrere dal momento in cui essa viene a conoscenza degli elementi essenziali dell'asserita violazione, potendo questi ultimi esaurirsi nella prima segnalazione dell'illecito, e, dall'altro, sanziona l'inosservanza di tale termine con l'annullamento integrale del provvedimento finale di detta autorità in esito alla procedura d'infrazione, nonché con la decadenza dal potere di quest'ultima di avviare una nuova procedura d'infrazione riguardante la stessa pratica».
Per addivenire a tale conclusione la Corte ha premesso che gli Stati membri, nell'adozione e l'applicazione di tali norme, sono tenuti ad esercitare tale competenza nel rispetto del diritto dell'Unione e del principio di effettività, di tal che «essi non devono rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'attuazione di tale diritto» (§ 36 sent.); a tal fine, i termini procedurali fissati devono «far sì che, nel rispetto del principio della certezza del diritto, le cause siano trattate entro un termine ragionevole, senza compromettere l'effettiva attuazione della direttiva 2005/29 nell'ordinamento giuridico interno» (§ 38 sent.); tutto ciò tenendo conto «delle peculiarità dei casi riguardanti la lotta contro le pratiche commerciali sleali che rientrano nell'ambito di applicazione della direttiva 2005/29 e, in particolare, del fatto che tali casi possono richiedere una complessa analisi materiale ed economica» (§ 40 sent.).
La Corte ha precisato, altresì, che «al fine di adempiere efficacemente il loro obbligo di applicare il diritto dell'Unione in materia di tutela dei consumatori, le autorità nazionali responsabili dell'esecuzione della normativa in detta materia devono essere in grado di attribuire un diverso grado di priorità alle denunce ad esse indirizzate, disponendo, a tal fine, di un ampio margine di discrezionalità» (§ 49 sent.), onde poter «procedere a tutte le misure istruttorie preliminari nonché alle valutazioni di fatto e di diritto spesso complesse, necessarie per valutare se l'avvio della fase istruttoria in contraddittorio sia giustificato, ma anche di scegliere, in funzione del grado di priorità che, nell'esercizio della sua indipendenza operativa, intende accordare a una procedura d'infrazione in corso, il momento più opportuno per avviare, se del caso, la fase istruttoria in contraddittorio di quest'ultima» (§ 52 sent.).
In ogni caso, deve anche considerarsi che nella fattispecie, benché le prime segnalazioni siano pervenute all'Autorità fin dal febbraio e marzo del 2021, solo con la risposta alla richiesta di informazioni inviata il 30 luglio 2021 l'Autorità ha completato le verifiche necessarie a determinarsi sull'avvio dell'istruttoria; il procedimento è stato avviato in data 17 settembre 2021, sicché non può dirsi che il lasso di tempo utilizzato per le indagini della fase preistruttoria, ove ancorato all'effettivo accertamento della condotta da sanzionare, fuoriesca dai canoni della ragionevolezza.
Inoltre, la ricorrente non in alcun modo indicato il pregiudizio, in termini di lesione dei diritti di difesa, che le sarebbe derivato dall'inutile decorso del termine in questione e dall'avvio non tempestivo del procedimento, elemento che secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia assume rilievo decisivo ai fini dell'accoglimento della censura di tardività dell'attività procedimentale.
Ed infatti in più occasioni la Corte di giustizia UE ha affermato che il superamento del termine ragionevole può costituire motivo di annullamento delle decisioni che accertano infrazioni solo se risulti provato che la violazione del principio del termine ragionevole ha pregiudicato i diritti della difesa delle imprese interessate; al di fuori di tale specifica ipotesi, il mancato rispetto dell'obbligo di decidere entro un termine ragionevole non incide sulla validità del procedimento amministrativo (Tribunale UE, 18 novembre 2020, cause T-814/17, p.ti 357-359; e, in senso conforme, Tribunale UE, 6 dicembre 2020, T-515/18, p.to 91 e Corte di giustizia, 21 gennaio 2021, causa C-466/19 P, p.to 32, e 21 settembre 2006, Gebied, C-105/04).
Né tale pregiudizio può essere individuato nel fatto che la parte interessata, non essendo notiziata dell'avvio del procedimento sanzionatorio, continuerebbe nella pratica ipoteticamente illecita, andando incontro a conseguenze di maggiore entità, poiché tale affermazione postulerebbe che l'inerzia dell'Amministrazione ingeneri un affidamento che consentirebbe la prosecuzione della condotta illecita mentre, come è evidente, il soggetto che pone in essere una pratica commerciale scorretta o, comunque, una condotta sanzionabile, non può certo efficacemente sostenere di aver perseverato nell'illecito sol perché non gli sarebbe stata contestata la violazione.
Del resto, anche il Consiglio di Stato ha recepito i passaggi principali della sentenza della Corte di giustizia (C.d.S., sent. n. 2979/2025), affermando che i principî espressi dalla Corte comportano che ai procedimenti antitrust di AGCM si applica solo il principio del termine ragionevole e che in ogni caso, per dar luogo ad una ipotesi di annullamento del provvedimento finale, la parte deve dimostrare il pregiudizio che l'eventuale eccessiva durata della fase preistruttoria ha determinato sui propri diritti di difesa.
Venendo all'esame delle censure di merito, la ricorrente ha dedotto che le pratiche contestate concernevano unicamente la fase del recupero dei crediti e che tale fase era gestita da uno studio legale esterno, di modo che le condotte accertate non avrebbero potuto essere a lei ascritte.
Al riguardo, nel provvedimento impugnato l'Autorità ha dato conto del fatto che nel periodo 2018-2021 Otis ha convenuto i consumatori in un foro diverso da quella di residenza del consumatore in circa la metà dei casi in cui è stata avviata giudizialmente l'azione di recupero del credito.
Sulla base delle evidenze acquisite, dunque, l'AGCM ha accertato l'esistenza di una pratica commerciale scorretta e aggressiva, in quanto volta non ad esercitare un legittimo diritto di recupero in sede giudiziale del credito, ma a determinare nel consumatore medio un indebito condizionamento, ingenerando il convincimento fosse sia preferibile provvedere al pagamento dell'importo richiesto, piuttosto che esporsi ad un contenzioso giudiziario presso un foro diverso da quello della propria residenza, circostanza che rende oggettivamente più onerosa e difficoltosa la comparizione in giudizio.
In merito questa Sezione ha già più volte affermato che «l'art. 20, comma 2, del Codice Consumo definisce una pratica commerciale come scorretta se risulta contraria alla diligenza professionale ed è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta (o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori). Il successivo art. 24, poi, descrive come "aggressiva" una pratica commerciale che, nella fattispecie concreta e tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, mediante molestie, coercizione, compreso il ricorso all'indebito condizionamento, limita - o è idonea a limitare - considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio in relazione al prodotto e, pertanto, lo induce - o è idonea ad indurlo - ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso.
La giurisprudenza amministrativa ha avuto più volte modo di chiarire che pratiche simili a quelle contestate all'odierna ricorrente, e consistenti nel veicolare atti di citazione in un foro diverso da quello ex lege competente per territorio, si palesano come scorrette e aggressive indipendentemente dalla temerarietà della lite o dalla effettiva spettanza del credito poi dimostrata in giudizio. E ciò in quanto una simile condotta è idonea a indurre il consumatore a saldare l'asserito debito anche se convinto di non averlo mai contratto o quanto meno di averlo contratto per un importo inferiore e ciò per non intraprendere un contenzioso dinanzi ad un giudice diverso da quello di residenza. L'induzione psicologica porta il consumatore a recedere dalla propria posizione perché, nel bilanciamento dei relativi oneri, il saldare la somma che gli si imputava a debito sarebbe stato comunque economicamente più conveniente che difendersi in giudizio presso tribunali lontani» (T.A.R. Lazio, Sez. I, 3 maggio 2018, n. 4919; 5 maggio 2016, n. 5220).
Rispetto a una simile condotta, non è compito dell'Autorità verificare quanti consumatori hanno in concreto rinunciato a difendersi per essere stato individuato un Giudice di pace incompetente, in quanto la natura dell'illecito in esame deve inquadrarsi nell'àmbito degli illeciti di mero pericolo e non di danno, con la conseguenza che l'effettiva incidenza della pratica commerciale scorretta sulle scelte dei consumatori non costituisce un elemento idoneo a elidere o ridurre i profili di scorrettezza della stessa (cfr. T.A.R. Lazio, Sez. I, 8 gennaio 2013, n. 104).
Appare corretto, quindi, e adeguatamente motivato il provvedimento, laddove opera la ricostruzione della condotta dell'agente nell'ambito della fattispecie di pratica commerciale aggressiva ai sensi dell'art. 24 cit. in quanto risultano presenti gli elementi che la connotano, quali quello "strutturale", rappresentato dall'indebito condizionamento, e quello "funzionale", consistente nell'effetto distorsivo che la pratica ha indotto sulla libertà di scelta del consumatore.
Come evidenziato dall'Autorità, risulta poi irrilevante che il professionista avesse previsto nel contratto come foro inderogabile quello del consumatore, se in concreto tale clausola non è stata rispettata in un numero significativo di casi.
Né può sostenersi che la ricorrente possa essere esonerata da responsabilità per il fatto che le azioni sono state intentate dai legali della stessa: questi ultimi, infatti, agivano in nome e per conto della società, nel diretto interesse dalla stessa e in ragione di una precipua procura.
Di conseguenza, da un lato i vantaggi della condotta sono comunque riconducibili al professionista, rendendo irrilevante che l'attività sanzionata sia stata posta in essere materialmente da terzi, dall'altro viene in rilievo un mancato impiego della diligenza ordinariamente pretendibile da parte dell'operatore commerciale, in eligendo ed in vigilando, la cui attuazione deve riguardare non soltanto le condotte direttamente poste in essere da quest'ultimo, ma anche le attività che siano state demandate ad altri e che vengano, conseguentemente, nell'immediato interesse del mandante (T.A.R. Lazio, 10 dicembre 2015, n. 13821; 16 novembre 2015, n. 12979).
Con riferimento al provvedimento di rigetto degli impegni, di cui al terzo motivo, deve rilevarsi che, secondo costante giurisprudenza, l'accettazione degli stessi trova un limite nella gravità e nella manifesta scorrettezza della pratica in accertamento (C.d.S., 17 dicembre 2018, n. 7107) e si caratterizza per un'ampia discrezionalità dell'Autorità nell'accogliere o respingere tali proposte, sia su tale punto sia sulla effettiva idoneità degli impegni proposti a rimuovere le situazioni che hanno dato causa alle contestazioni, «rientrando la valutazione tecnico - discrezionale degli impegni presentati nella sfera di esercizio dell'ampio potere che compete all'Autorità» (T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 20 febbraio 2020, n. 2245; 8 febbraio 2018, n. 1523; 11 settembre 2018, n. 9269; 9 aprile 2019, n. 4621; 16 aprile 2019, n. 4923).
Nella fattispecie, nella determinazione di rigetto l'Autorità ha rappresentato che gli impegni presentati non si presentavano idonei ad elidere i profili di possibile scorrettezza contestati, «in quanto il professionista ha limitato i propri impegni alla mera adozione di cautele volte ad assicurare che sia i consumatori/condomini che gli studi legali incaricati siano consapevoli del diritto violato con le condotte contestate, non rimuovendo quindi gli effetti della pratica commerciale contestata».
Tali valutazioni, sindacabili in sede giurisdizionale ab extrinseco, non risultano irragionevoli, né viziate da travisamento: come sopra accennato, nelle ipotesi quali quelle in esame, l'Autorità, sulla base dell'ampio potere discrezionale di cui dispone, anche relativamente alla determinazione delle proprie priorità di intervento, è chiamata a valutare l'idoneità delle misure correttive proposte e la sussistenza di un rilevante interesse pubblico all'accertamento dell'eventuale infrazione.
Nella specie la motivazione addotta, incentrata sull'idoneità degli impegni ad eliminare i profili di scorrettezza ravvisati, risulta espressione di un corretto utilizzo del potere discrezionale (C.d.S., 21 marzo 2018, n. 1820; T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 22 marzo 2018, n. 3186).
Né la suddetta discrezionalità viene meno a seguito dell'interlocuzione procedimentale, che non è idonea a creare uno specifico affidamento del professionista in ordine all'accettazione degli impegni (cfr. T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 22 luglio 2019, n. 9700).
Quanto alla quantificazione della sanzione, contestata con il quarto motivo di gravame, deve osservarsi come nella sua determinazione l'Autorità si è attenuta ai parametri di riferimento individuati dall'art. 11 della l. n. 689/1981, in virtù del richiamo previsto all'art. 27, comma 13, del d.lgs. n. 206/2005, e quindi ha considerato la gravità della violazione, l'opera svolta dall'impresa per eliminare o attenuare l'infrazione, la personalità dell'agente e le condizioni economiche dell'impresa stessa.
Con riferimento alla gravità, si è tenuto conto della dimensione economica del professionista, il quale rappresenta un importante operatore del proprio settore sia a livello nazionale che internazionale, dell'estensione della pratica sull'intero territorio nazionale, nonché della natura della violazione e del potenziale pregiudizio arrecato ai consumatori.
Rispetto alla dimensione economica, correttamente l'Autorità ha fatto riferimento al fatturato, e non all'utile, atteso che in materia di pratiche commerciali scorrette le sanzioni devono essere adeguate ed efficaci e dunque assolvere ad una concreta funzione dissuasiva (T.A.R. Lazio, Roma, I, 11 marzo 2016, n. 3101, che richiama pure l'orientamento della Corte di giustizia UE, 16 aprile 2015, C-388/13).
La sanzione comminata risulta dunque congrua e del tutto proporzionata alla gravità, alla durata dell'infrazione e alle condizioni economiche dell'impresa.
In relazione alla lamentata disparità di trattamento deve rilevarsi che, secondo il costante orientamento della giurisprudenza, «non sussiste un interesse giuridicamente rilevante a contestare l'entità della sanzione irrogata a un'altra impresa, atteso che, quand'anche la diversità di trattamento fosse in concreto dimostrata, ciò resterebbe del tutto irrilevante ai fini del giudizio di legittimità del trattamento asseritamente deteriore patito dal ricorrente» (C.d.S., 3 giugno 2019, n. 3723); ed infatti «ogni accertamento circa l'esistenza di profili di scorrettezza di pratiche commerciali ascritte a diversi soggetti è connotato da autonomia ed è preclusa la verifica di ipotesi di disparità di trattamento in materia di sanzioni amministrative, che postula l'identità o quantomeno la totale assimilabilità delle situazioni che appare in linea generale difficilmente configurabile» (T.A.R. Lazio, 21 marzo 2011, n. 2409).
L'eventuale sussistenza del vizio di disparità di trattamento rispetto ad un diverso professionista nell'ambito di un differente procedimento per fattispecie analoga, postula poi in ogni caso l'identità (o almeno la totale assimilabilità) delle situazioni di base poste a raffronto (T.A.R. Lazio, I, 19 maggio 2010, n. 12325) e la completa sovrapponibilità di tutti gli elementi di rilievo delle fattispecie sanzionate, mentre l'autonomia di ogni singolo accertamento dell'Autorità circa l'esistenza di profili di scorrettezza di pratiche commerciali e la "contestualizzazione" della valutazione delle stesse a fini di determinazione delle pertinenti conseguenze sanzionatorie precludono tale indagine comparativa, la quale richiederebbe una oggettiva verifica della completa sovrapponibilità delle fattispecie sanzionate, concretamente non percorribile (T.A.R. Lazio, sent. n. 7930/2022).
Infine, l'Autorità ha anche considerato la sussistenza di una circostanza attenuante, in quanto il professionista, oltre ad interrompere la pratica con l'introduzione di misure volte ad impedirne la ripetizione, ha inserito apposite indicazioni riguardo al foro del consumatore nel testo delle fatture e dei solleciti di pagamento a beneficio dei consumatori; tale circostanza ha condotto alla riduzione della sanzione da euro 700.000,00 ad euro 600.000,00, sicché anche sotto tale profilo la sanzione appare del tutto corretta.
Conclusivamente, anche in relazione all'attività di quantificazione della sanzione, il provvedimento impugnato risulta immune dai prospettati vizi e, conseguentemente, il ricorso deve essere respinto.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna la ricorrente alla rifusione nei confronti dell'Autorità resistente delle spese di lite, che si liquidano in complessivi euro 2.500,00, oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.