Corte di giustizia dell'Unione Europea
Prima Sezione
Sentenza 11 settembre 2025
Presidente: Biltgen - Relatore: von Danwitz
«Rinvio pregiudiziale - Politica sociale - Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità - Articoli 2, 5 e 7 - Articoli 21, 24 e 26 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea - Direttiva 2000/78/CE - Parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro - Articolo 1 - Articolo 2, paragrafo 1 e paragrafo 2, lettera b) - Divieto di discriminazione fondata sulla disabilità - Discriminazione indiretta - Disparità di trattamento nei confronti di un lavoratore che, senza essere egli stesso disabile, si occupa del figlio disabile - Articolo 5 - Obbligo del datore di lavoro di adottare soluzioni ragionevoli».
Nella causa C‑38/24 [Bervidi] (*), avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell'articolo 267 TFUE, dalla Corte suprema di cassazione (Italia), con ordinanza del 17 gennaio 2024, pervenuta in cancelleria il 19 gennaio 2024, nel procedimento G.L. contro AB SpA.
[...]
1. La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull'interpretazione della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GU 2000, L 303, pag. 16), letta alla luce della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, conclusa a New York il 13 dicembre 2006 e approvata a nome della Comunità europea con la decisione 2010/48/CE del Consiglio, del 26 novembre 2009 (GU 2010, L 23, pag. 35; in prosieguo: la «Convenzione dell'ONU»).
2. Tale domanda è stata presentata nell'ambito di una controversia tra G.L. e la AB SpA in merito al rifiuto di tale società di concedere a G.L. una modifica delle sue condizioni di lavoro che le consenta di occuparsi del figlio disabile.
Contesto normativo
Diritto internazionale
3. La Convenzione dell'ONU enuncia, alla lettera x) del suo preambolo, quanto segue:
«convinti che la famiglia sia il nucleo naturale e fondamentale della società e che abbia diritto alla protezione da parte della società e dello Stato, e che le persone con disabilità ed i membri delle loro famiglie debbano ricevere la protezione e l'assistenza necessarie a permettere alle famiglie di contribuire al pieno ed uguale godimento dei diritti delle persone con disabilità».
4. Ai sensi dell'articolo 1 di tale convenzione, rubricato «Scopo»:
«Scopo della presente convenzione è promuovere, proteggere e garantire il pieno ed uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità e promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità.
Per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri».
5. L'articolo 2 della medesima Convenzione, rubricato «Definizioni», così stabilisce ai suoi commi terzo e quarto:
«Ai fini della presente convenzione:
(...)
per "discriminazione fondata sulla disabilità" si intende qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l'effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo. Essa include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole;
per "accomodamento ragionevole" si intendono le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento o l'esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali».
6. Ai sensi dell'articolo 5 della medesima convenzione, rubricato «Uguaglianza e non discriminazione»:
«1. Gli Stati parti riconoscono che tutte le persone sono uguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, a uguale protezione e uguale beneficio dalla legge.
2. Gli Stati parti vietano ogni forma di discriminazione fondata sulla disabilità e garantiscono alle persone con disabilità uguale ed effettiva protezione giuridica contro ogni discriminazione qualunque ne sia il fondamento.
3. Al fine di promuovere l'uguaglianza ed eliminare le discriminazioni, gli Stati parti adottano tutti i provvedimenti appropriati, per garantire che siano forniti accomodamenti ragionevoli.
4. Le misure specifiche che sono necessarie ad accelerare o conseguire de facto l'uguaglianza delle persone con disabilità non costituiscono una discriminazione ai sensi della presente convenzione».
7. L'articolo 7 di tale Convenzione, intitolato «Minori con disabilità», ai punti 1 e 2 prevede quanto segue:
«1. Gli Stati parti adottano ogni misura necessaria a garantire il pieno godimento di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali da parte dei minori con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri minori.
2. In tutte le azioni concernenti i minori con disabilità, il superiore interesse del minore costituisce la considerazione preminente».
8. L'articolo 34, paragrafo 1, di detta Convenzione prevede l'istituzione di un comitato sui diritti delle persone con disabilità.
Diritto dell'Unione
La direttiva 2000/43/CE
9. L'articolo 1 della direttiva 2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica (GU 2000, L 180, pag. 22), recita quanto segue:
«La presente direttiva mira a stabilire un quadro per la lotta alle discriminazioni fondate sulla razza o l'origine etnica, al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento».
10. L'articolo 2, paragrafi 1 e 2, di tale direttiva così dispone:
«1. Ai fini della presente direttiva, il principio della parità di trattamento comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta a causa della razza o dell'origine etnica.
2. Ai fini del paragrafo 1:
a) sussiste discriminazione diretta quando, a causa della sua razza od origine etnica, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga;
b) sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone, a meno che tale disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari».
La direttiva 2000/78
11. I considerando 6, 12, 20, 21 e 37 della direttiva 2000/78 così recitano:
«(6) La carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori[, adottata durante la riunione del Consiglio europeo tenutasi a Strasburgo il 9 dicembre 1989,] riconosce l'importanza di combattere qualsiasi forma di discriminazione, compresa la necessità di intraprendere azioni appropriate per l'integrazione sociale ed economica degli anziani e dei disabili.
(...)
(12) Qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su religione o convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali nei settori di cui alla presente direttiva dovrebbe essere pertanto proibita in tutta la Comunità [europea]. (...)
(...)
(20) È opportuno prevedere misure appropriate, ossia misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell'handicap, ad esempio sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o di inquadramento.
(21) Per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell'organizzazione o dell'impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni.
(...)
(37) In base al principio di sussidiarietà enunciato all'articolo 5 del trattato CE l'obiettivo della presente direttiva, in particolare la realizzazione di una base omogenea all'interno della Comunità per quanto riguarda la parità in materia di occupazione e condizioni di lavoro, non può essere realizzato in misura sufficiente dagli Stati membri e può dunque, a causa delle dimensioni e dell'impatto dell'azione proposta, essere realizzato meglio a livello comunitario. (...)».
12. Ai sensi del suo articolo 1, la direttiva 2000/78 «mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l'occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento».
13. L'articolo 2 di detta direttiva, rubricato «Nozione di discriminazione», così prevede, ai suoi paragrafi 1 e 2:
«1. Ai fini della presente direttiva, per "principio della parità di trattamento" si intende l'assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all'articolo 1.
2. Ai fini del paragrafo 1:
a) sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all'articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga;
b) sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone, a meno che:
i) tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari; o che
ii) nel caso di persone portatrici di un particolare handicap, il datore di lavoro o qualsiasi persona o organizzazione a cui si applica la presente direttiva sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare misure adeguate, conformemente ai principi di cui all'articolo 5, per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione, tale criterio o tale prassi».
14. L'articolo 3 della medesima direttiva, rubricato «Campo d'applicazione», al suo paragrafo 1, lettere a) e c), prevede quanto segue:
«Nei limiti dei poteri conferiti alla Comunità, la presente direttiva si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, per quanto attiene:
a) alle condizioni di accesso all'occupazione (...);
(...)
c) all'occupazione e alle condizioni di lavoro (...)».
15. L'articolo 5 della direttiva 2000/78, rubricato «Soluzioni ragionevoli per i disabili», è così formulato:
«Per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l'onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili».
Diritto italiano
16. L'articolo 2, comma 1, del decreto legislativo n. 216 del 2003 - Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, del 9 luglio 2003 (GURI n. 187 del 13 agosto 2003), nella versione applicabile al procedimento principale, prevede quanto segue:
«Ai fini del presente decreto (...), per principio di parità di trattamento si intende l'assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell'età o dell'orientamento sessuale. Tale principio comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta, così come di seguito definite:
a) discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga;
b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone».
17. L'articolo 3, comma 3 bis, di tale decreto legislativo è così formulato:
«Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare soluzioni ragionevoli, quali definite dalla Convenzione [dell'ONU], ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18 nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all'attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente».
18. L'articolo 25, comma 2 bis, del decreto legislativo n. 198 del 2006 - Codice delle pari opportunità tra uomini e donne, a norma dell'articolo 6 della legge del 28 novembre 2005, n. 246, dell'11 aprile 2006 (Supplemento ordinario alla GURI n. 125, del 31 maggio 2006), entrato in vigore successivamente ai fatti di cui al procedimento principale, prevede quanto segue:
«Costituisce discriminazione ai sensi del presente titolo, ogni trattamento o modifica dell'organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del sesso, dell'età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell'esercizio dei relativi diritti, pone o può porre il lavoratore in almeno una delle seguenti condizioni: a) posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori; b) limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali; c) limitazione dell'accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera».
Procedimento principale e questioni pregiudiziali
19. G.L. lavorava per la società AB, con sede in Italia, in qualità di «operatore di stazione». A tale titolo, essa era incaricata della sorveglianza e del controllo di una stazione di metropolitana.
20. G.L. ha chiesto ripetutamente alla società AB di essere assegnata, in modo permanente, ad un posto di lavoro ad orario fisso, che eventualmente richiede una minore qualifica, che le consenta di occuparsi del figlio minore, affetto da una grave disabilità e da un'invalidità totale, che vive con lei e che deve seguire un programma di cure, con un orario fisso, il pomeriggio.
21. La società AB non ha dato seguito a tali richieste, ma ha nondimeno concesso taluni adeguamenti delle condizioni di lavoro a G.L., a titolo provvisorio, consistenti nella designazione di un luogo di lavoro fisso e nella concessione di un regime orario preferenziale rispetto agli altri operatori di stazione, che sono soggetti ad orari alternati e a turni.
22. Il 5 marzo 2019 G.L. ha adito il Tribunale di Roma (Italia) con un ricorso contro la società AB, al fine di far dichiarare che il rifiuto del suo datore di lavoro di accogliere la sua domanda di adeguamento permanente delle sue condizioni di lavoro presentava carattere discriminatorio.
23. Nel suo ricorso, G.L. ha chiesto che tale società fosse condannata a destinarla, in modo permanente, a un posto di lavoro con orari fissi la mattina (dalle 8:30 alle 15:00) e che le fosse ingiunto di adottare un piano di eliminazione della discriminazione di cui era oggetto nonché di risarcire il danno subito.
24. Il Tribunale di Roma ha respinto il ricorso di G.L., che ha interposto appello avverso tale decisione dinanzi alla Corte d'appello di Roma (Italia). Quest'ultimo giudice ha parimenti respinto il ricorso nel merito, ritenendo che l'esistenza del comportamento discriminatorio dedotto non fosse stata dimostrata e che la società AB avesse, in ogni caso, posto in essere «soluzioni ragionevoli» per tener conto dei vincoli di G.L., anche se si trattava di misure provvisorie.
25. G.L. ha proposto ricorso per cassazione dinanzi alla Corte suprema di cassazione (Italia), giudice del rinvio.
26. Nell'ottobre 2022 G.L. è stata licenziata dalla società AB.
27. Il giudice del rinvio ritiene che il procedimento principale sollevi la questione se un lavoratore che si occupa del figlio minore disabile sia legittimato a far valere in giudizio la tutela contro la discriminazione indiretta fondata sulla disabilità di cui beneficia la persona disabile stessa, tenuto conto dei principi derivanti dalla sentenza del 17 luglio 2008, Coleman (C-303/06, EU:C:2008:415).
28. Esso ricorda che, in tale sentenza, la Corte ha dichiarato che l'ambito di applicazione ratione personae della tutela contro la discriminazione diretta fondata sull'handicap, prevista da tale direttiva, si estende al lavoratore che non sia egli stesso disabile ma che si occupi di un figlio disabile al quale presta la parte essenziale delle cure che le sue condizioni richiedono.
29. Il giudice del rinvio indica che G.L. deve essere considerato un «caregiver familiare», ai sensi del diritto nazionale, e può beneficiare, a tale titolo, di vantaggi fiscali e sociali previsti dal diritto italiano, quale il diritto di scegliere, per quanto possibile, il luogo di lavoro più vicino al suo domicilio. Tuttavia, nessuna disposizione del diritto italiano conferirebbe a tale «caregiver», all'epoca dei fatti di cui al procedimento principale, una tutela contro una discriminazione subita sul luogo di lavoro a causa dell'assistenza che deve fornire al figlio disabile.
30. Esso precisa che è questa la ragione per la quale il giudice adito in primo grado ha respinto il ricorso di G.L., ritenendo che quest'ultima non fosse legittimata a proporre un ricorso per contestare la discriminazione di cui sarebbe stata vittima. Il giudice adito in appello, dal canto suo, sulla base dei principi derivanti dalla sentenza del 17 luglio 2008, Coleman (C‑303/06, EU:C:2008:415), ha ritenuto che un «caregiver» familiare, come G.L., avesse il diritto di avvalersi delle disposizioni nazionali che tutelano le persone disabili contro la discriminazione sul lavoro.
31. Tuttavia, il giudice del rinvio ritiene che da tale sentenza non risulti chiaramente che i principi che ne derivano possano essere applicati a una situazione in cui sussiste una discriminazione indiretta nei confronti di un lavoratore che è considerato un «caregiver familiare» ai sensi del diritto nazionale.
32. In tali circostanze, la Corte suprema di cassazione ha sospeso il procedimento e ha sottoposto alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) [s]e il diritto dell'Unione (...) debba interpretarsi, eventualmente anche in base alla [Convenzione dell'ONU], nel senso che sussista la legittimazione del "caregiver" familiare di minore gravemente disabile, il quale deduca di avere patito una discriminazione indiretta in ambito lavorativo come conseguenza dell'attività di assistenza da lui prestata, ad azionare la tutela antidiscriminatoria che sarebbe riconosciuta al medesimo disabile, ove quest'ultimo fosse il lavoratore, dalla direttiva [2000/78].
2) [s]e, nell'ipotesi di risposta affermativa alla [prima questione], il diritto dell'Unione europea vada interpretato, eventualmente in base anche alla [Convenzione dell'ONU], nel senso che gravi sul datore di lavoro del "caregiver" di cui sopra l'obbligo di adottare soluzioni ragionevoli per garantire, altresì in favore del detto "caregiver", il rispetto del principio della parità di trattamento nei confronti degli altri lavoratori, sul modello di quanto previsto per i disabili dall'articolo 5 della direttiva [2000/78].
3) [s]e, nell'ipotesi di risposta affermativa alla [prima e/o alla seconda questione], il diritto dell'Unione (...) vada interpretato, eventualmente in base anche alla [Convenzione dell'ONU], nel senso che per "caregiver" rilevante ai fini dell'applicazione della direttiva [2000/78] si debba intendere qualunque soggetto, appartenente alla cerchia familiare o convivente di fatto, che si prenda cura in un ambito domestico, pure informalmente, in via gratuita, quantitativamente significativa, esclusiva, continuativa e di lunga durata di una persona che, in ragione della propria grave disabilità, non sia assolutamente autosufficiente nello svolgimento degli atti quotidiani della vita o se il diritto dell'Unione (...) vada interpretato nel senso che la definizione di "caregiver" in questione sia più ampia o ancora più ristretta di quella sopra riportata».
Sulla domanda di riapertura della fase orale del procedimento
33. Con atto depositato il 30 marzo 2025, G.L. ha chiesto, sulla base dell'articolo 83 del regolamento di procedura della Corte, la riapertura della fase orale del procedimento.
34. G.L. fa valere la necessità di esaminare due questioni supplementari rispetto a quelle sollevate dal giudice del rinvio, che aveva menzionato nelle sue osservazioni scritte, in quanto non sono state analizzate nelle conclusioni dell'avvocato generale.
35. A tal proposito, da costante giurisprudenza emerge che la Corte può, d'ufficio o su proposta dell'avvocato generale, oppure su domanda delle parti, riaprire la fase orale del procedimento, ai sensi dell'articolo 83 del proprio regolamento di procedura, qualora ritenga di non essere sufficientemente informata ovvero che la causa debba essere decisa sulla base di un argomento che non è stato oggetto di discussione tra le parti (sentenza del 15 settembre 2011, Accor, C‑310/09, EU:C:2011:581, punto 19 e giurisprudenza citata).
36. Orbene, secondo una giurisprudenza costante, si devono esaminare, delle questioni sottoposte alla Corte dalle parti del procedimento principale, solo quelle che hanno costituito oggetto della decisione di rinvio del giudice nazionale (sentenza del 3 settembre 2015, A2A, C‑89/14, EU:C:2015:537, punto 44 e giurisprudenza citata).
37. Di conseguenza, poiché il giudice del rinvio non ha sottoposto alla Corte le due questioni alle quali G.L. fa riferimento nella sua domanda di riapertura della fase orale del procedimento, gli argomenti dedotti in tale domanda, relativi alla necessità di esaminare tali due questioni, non costituiscono un motivo di riapertura di tale fase orale ai sensi dell'articolo 83 del regolamento di procedura.
38. Ciò considerato, la Corte, sentito l'avvocato generale, ritiene di avere a disposizione, nella fattispecie, tutti gli elementi necessari per rispondere alle questioni poste dal giudice del rinvio e che tutti gli argomenti necessari per pronunciarsi sulla causa in esame siano stati discussi tra gli interessati indicati all'articolo 23 dello Statuto della Corte di giustizia dell'Unione europea.
39. Occorre pertanto respingere la domanda di riapertura della fase orale del procedimento.
Sulle questioni pregiudiziali
Sulla prima questione
40. Con la sua prima questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se la direttiva 2000/78 e, in particolare, il suo articolo 1 e il suo articolo 2, paragrafo 1 e paragrafo 2, lettera b), letti alla luce degli articoli 21, 24 e 26 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (in prosieguo: la «Carta») nonché degli articoli 2, 5 e 7 della Convenzione dell'ONU, debbano essere interpretati nel senso che il divieto di discriminazione indiretta fondata sulla disabilità si applica a un lavoratore che non sia egli stesso disabile, ma che sia oggetto di una siffatta discriminazione a causa dell'assistenza che fornisce al figlio affetto da una disabilità, assistenza che consente a quest'ultimo di ricevere la parte essenziale delle cure che le sue condizioni richiedono.
41. Va preliminarmente ricordato che sia dal titolo e dal preambolo, sia dal contenuto e dalla finalità della direttiva 2000/78 risulta che quest'ultima si propone di stabilire un quadro generale per garantire a ogni individuo la parità di trattamento «in materia di occupazione e di condizioni di lavoro», offrendo una protezione efficace contro le discriminazioni fondate su uno dei motivi di cui all'articolo 1, tra i quali è menzionata la disabilità (sentenza del 21 ottobre 2021, Komisia za zashtita ot diskriminatsia, C‑824/19, EU:C:2021:862, punto 35 e giurisprudenza citata).
42. Conformemente all'articolo 3, paragrafo 1, lettere a) e c), della direttiva 2000/78, quest'ultima si applica, nei limiti dei poteri conferiti all'Unione europea, a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, per quanto attiene, in particolare, alle condizioni di accesso all'occupazione nonché alle condizioni di occupazione e di lavoro (sentenza del 21 ottobre 2021, Komisia za zashtita ot diskriminatsia, C‑824/19, EU:C:2021:862, punto 36).
43. Dall'ordinanza di rinvio risulta che la discriminazione indiretta lamentata da G.L. deriva dalla mancata organizzazione delle sue condizioni di lavoro, vale a dire, essenzialmente, i suoi orari di lavoro, i quali rientrano nelle condizioni di occupazione e di lavoro di cui all'articolo 3, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2000/78.
44. Pertanto, una situazione come quella oggetto del procedimento principale può rientrare nell'ambito di applicazione di tale direttiva.
45. Al fine di rispondere alla prima questione, occorre ricordare che la direttiva 2000/78 concretizza, nel settore da essa disciplinato, il principio generale di non discriminazione sancito all'articolo 21 della Carta, che vieta qualsiasi discriminazione fondata, in particolare, sulla disabilità (v., in tal senso, sentenza del 21 ottobre 2021, Komisia za zashtita ot diskriminatsia, C‑824/19, EU:C:2021:862, punto 32 e giurisprudenza citata). Per quanto riguarda la situazione oggetto del procedimento principale, occorre altresì tener conto, nell'ambito dell'esame di tale prima questione, dei diritti del minore e delle persone con disabilità, sanciti, rispettivamente, agli articoli 24 e 26 della Carta.
46. Inoltre, l'Unione ha approvato la Convenzione dell'ONU, le cui disposizioni costituiscono pertanto parte integrante, a partire dall'entrata in vigore di tale convenzione, dell'ordinamento giuridico dell'Unione. Ne consegue che tali disposizioni possono, al pari di quelle della Carta, essere invocate al fine di interpretare quelle della direttiva 2000/78 e che quest'ultima deve essere oggetto, per quanto possibile, di un'interpretazione conforme a tale convenzione. (v., in tal senso, sentenze dell'11 aprile 2013, HK Danmark, C‑335/11 e C‑337/11, EU:C:2013:222, punti da 30 a 32, nonché del 18 gennaio 2024, Ca Na Negreta, C‑631/22, EU:C:2024:53, punto 41).
47. Come risulta dai punti da 27 a 31 della presente sentenza, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se la direttiva 2000/78, letta alla luce degli articoli 21, 24 e 26 della Carta nonché degli articoli 2 e 5 della Convenzione dell'ONU, si applichi anche a una discriminazione indiretta «per associazione» fondata sulla disabilità, nei confronti di un lavoratore che assiste il figlio disabile.
48. A tal riguardo, occorre ricordare, in primo luogo, che la Corte ha già dichiarato che una situazione di discriminazione diretta «per associazione», fondata sull'handicap, è vietata dalla direttiva 2000/78. Infatti, il divieto di discriminazione diretta di cui all'articolo 1 e all'articolo 2, paragrafo 1 e paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78 non è limitato alle sole persone che siano esse stesse disabili. Qualora un datore di lavoro tratti un lavoratore, che non sia egli stesso disabile, in modo meno favorevole rispetto al modo in cui è, è stato o sarebbe trattato un altro lavoratore in una situazione analoga, e sia provato che il trattamento sfavorevole di cui tale lavoratore è vittima è causato dalla disabilità del figlio, al quale presta la parte essenziale delle cure di cui quest'ultimo ha bisogno, un siffatto trattamento viola il divieto di discriminazione diretta enunciato a detto articolo 2, paragrafo 2, lettera a) (v., in tal senso, sentenza del 17 luglio 2008, Coleman, C‑303/06, EU:C:2008:415, punto 56).
49. Il fatto che tale direttiva contenga disposizioni volte a tener conto specificamente delle esigenze dei disabili non permette di concludere che il principio della parità di trattamento in essa sancito debba essere interpretato in senso restrittivo, vale a dire nel senso che esso vieterebbe soltanto le discriminazioni dirette fondate sulla disabilità e riguarderebbe esclusivamente le persone che siano esse stesse disabili. Peraltro, il considerando 6 di questa direttiva, richiamando la carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, si riferisce sia alla lotta generale avverso qualsiasi forma di discriminazione sia alla necessità di intraprendere azioni appropriate per l'integrazione sociale ed economica dei disabili (v., in tal senso, sentenza del 17 luglio 2008, Coleman, C‑303/06, EU:C:2008:415, punto 43).
50. Inoltre, la Corte ha considerato che gli obiettivi perseguiti dalla direttiva 2000/78, vale a dire quello di stabilire un quadro generale per la lotta, in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, alla discriminazione fondata su uno dei motivi di cui all'articolo 1 di tale direttiva, tra i quali figura la disabilità, nonché l'obiettivo, enunciato al suo considerando 37, di creare un terreno d'azione per quanto riguarda la parità in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, nonché l'effetto utile di tale direttiva sarebbero compromessi se il divieto di discriminazione diretta, previsto al suo articolo 2, paragrafo 2, lettera a), fosse limitato alle sole persone che sono esse stesse disabili e non si applicasse ad una situazione in cui un lavoratore che non sia egli stesso disabile fosse comunque vittima di una discriminazione diretta a causa della disabilità del figlio (v., in tal senso, sentenza del 17 luglio 2008, Coleman, C‑303/06, EU:C:2008:415, punti 47 e 48).
51. Infatti, adottare un'interpretazione della direttiva 2000/78 che ne limiti l'applicazione alle sole persone che siano esse stesse disabili potrebbe privare tale direttiva di una parte importante del suo effetto utile e ridurre la protezione che essa intende garantire (v., in tal senso, sentenza del 17 luglio 2008, Coleman, C‑303/06, EU:C:2008:415, punti 50 e 51).
52. In secondo luogo, quanto alla questione se una situazione di discriminazione indiretta «per associazione» fondata sulla disabilità sia parimenti vietata dalla direttiva 2000/78, sotto un primo profilo, occorre rilevare che, conformemente all'articolo 2, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, il principio della parità di trattamento è inteso come l'assenza di «qualsiasi discriminazione», diretta o indiretta, basata su uno dei motivi di cui all'articolo 1 di tale direttiva.
53. Inoltre, occorre ricordare che detta direttiva ha come obiettivo, in materia di occupazione e lavoro, di combattere ogni forma di discriminazione basata sulla disabilità. Infatti, il principio della parità di trattamento sancito da detta direttiva in quest'ambito si applica non in relazione ad una determinata categoria di persone, bensì in funzione dei motivi indicati al suo articolo 1. Questa interpretazione è avallata dal testo dell'articolo 13 CE, disposizione che costituisce il fondamento normativo della direttiva 2000/78, il quale articolo conferiva all'Unione, al pari dell'articolo 19 TFUE che l'ha sostituito, la competenza ad adottare i provvedimenti necessari a combattere ogni discriminazione fondata, tra l'altro, sulla disabilità (v., in tal senso, sentenza del 17 luglio 2008, Coleman, C‑303/06, EU:C:2008:415, punto 38). Analogamente, i termini del considerando 12 di tale direttiva enunciano che «qualsiasi discriminazione», diretta o indiretta fondata sulla disabilità, deve essere vietata nell'Unione.
54. Inoltre, la questione del riconoscimento di una discriminazione «per associazione» fondata sulla disabilità si pone allo stesso modo, indipendentemente dal fatto che tale discriminazione sia diretta o indiretta. In particolare, la circostanza che, nel regime previsto dalla direttiva 2000/78, la nozione di discriminazione indiretta incorpori la possibilità di una giustificazione, a differenza della nozione di discriminazione diretta, non incide sull'eventuale qualificazione di un atto come discriminazione «per associazione», ai sensi di quest'ultima.
55. Dalle considerazioni che precedono risulta che tanto il tenore letterale dell'articolo 2, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 quanto l'obiettivo sotteso a tale direttiva depongono a favore del divieto non solo delle discriminazioni dirette «per associazione», ma anche delle discriminazioni indirette «per associazione».
56. In secondo luogo, occorre sottolineare che la Corte ha già dichiarato, facendo riferimento alla sentenza del 17 luglio 2008, Coleman (C‑303/06, EU:C:2008:415), a proposito dell'ambito di applicazione della direttiva 2000/43, i cui articoli 1 e 2 sono redatti in modo analogo agli articoli 1 e 2 della direttiva 2000/78, che tale ambito di applicazione non poteva essere definito in modo restrittivo e che il principio di parità di trattamento cui si riferisce tale direttiva non si applicava a una determinata categoria di persone, ma in funzione dei motivi di cui all'articolo 1 di quest'ultima, nonostante il fatto che di esso erano destinate a trarre beneficio anche le persone che, pur non appartenendo esse stesse alla razza o all'etnia interessata, subiscono nondimeno un trattamento meno favorevole o uno svantaggio particolare per uno di tali motivi (v., in tal senso, sentenza del 16 luglio 2015, CHEZ Razpredelenie Bulgaria, C‑83/14, EU:C:2015:480, punto 56). Pertanto, come rilevato, in sostanza, dall'avvocato generale al paragrafo 36 delle sue conclusioni, la Corte ha espressamente considerato che la discriminazione indiretta «per associazione» è vietata dalla direttiva 2000/43.
57. In terzo luogo, ai fini di un'interpretazione conforme alla Carta del divieto di discriminazione, si deve constatare, come risulta dalla formulazione dell'articolo 21, paragrafo 1, della Carta, che il principio generale di non discriminazione da esso sancito vieta «qualsiasi discriminazione» fondata, in particolare, su una disabilità, garantendo così un'applicazione ampia di tale garanzia fondamentale.
58. Il divieto di discriminazione sancito dall'articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 deve essere interpretato anche alla luce dell'articolo 24 della Carta nonché del suo articolo 26. Tale articolo 24, relativo ai diritti del minore, prevede, al suo paragrafo 1, che i minori abbiano diritto alla protezione e alle cure necessarie al loro benessere e, al suo paragrafo 2, che, negli atti relativi ai minori, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l'interesse superiore del minore deve essere considerato preminente. Inoltre, ai sensi dell'articolo 26 della Carta, l'Unione riconosce e rispetta il diritto delle persone con disabilità di beneficiare di misure intese a garantirne l'autonomia, l'inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità (v., in tal senso, sentenza del 18 gennaio 2024, Ca Na Negreta, C‑631/22, EU:C:2024:53, punto 40 e giurisprudenza citata).
59. Inoltre, l'articolo 21, paragrafo 1, della Carta contiene, quanto meno, le stesse garanzie previste all'articolo 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, che è applicabile in combinato disposto con i diritti e le libertà garantiti da tale Convenzione, di cui occorre tener conto, in forza dell'articolo 52, paragrafo 3, della Carta, quale soglia di protezione minima (v., per analogia, sentenza del 3 aprile 2025, Alchaster II, C‑743/24, EU:C:2025:230, punto 24).
60. Orbene, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha già dichiarato che il trattamento discriminatorio subito da una persona a causa della disabilità del figlio, con il quale essa ha stretti legami personali e al quale presta cure, costituisce una forma di discriminazione fondata sulla disabilità rientrante nell'ambito di applicazione dell'articolo 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (v., in tal senso, Corte EDU, 22 marzo 2016, Guberina c. Croazia, CE:ECHR:2016:0322JUD002368213, § 79), senza distinguere a seconda che tale discriminazione sia diretta o indiretta.
61. In quarto luogo, quanto alle disposizioni della Convenzione dell'ONU che possono guidare l'interpretazione della direttiva 2000/78, occorre ricordare che l'articolo 2, terzo comma, di tale convenzione prevede che la «discriminazione fondata sulla disabilità» riguarda «qualsivoglia» distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l'effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo e che tale nozione comprende «ogni forma di discriminazione», compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole.
62. L'articolo 5, paragrafo 2, di detta Convenzione precisa che gli Stati parti devono vietare «ogni forma di discriminazione» fondata sulla disabilità e garantire alle persone con disabilità uguale ed effettiva protezione giuridica contro «ogni discriminazione qualunque ne sia il fondamento».
63. Quanto all'articolo 7 della medesima Convenzione, esso precisa, al suo paragrafo 1, che gli Stati parti di quest'ultima adottano ogni misura necessaria a garantire ai minori con disabilità «il pieno godimento» di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali, su base di uguaglianza con gli altri minori e, al paragrafo 2, che, in tutte le azioni concernenti i minori con disabilità, il superiore interesse del minore costituisce la considerazione preminente.
64. Inoltre, come rilevato dall'avvocato generale ai paragrafi 38 e 39 delle sue conclusioni, il Comitato sui diritti delle persone con disabilità, istituito all'articolo 34 della Convenzione dell'ONU, nell'ambito, in particolare, delle competenze conferitegli dal Protocollo facoltativo relativo a tale Convenzione, del 13 dicembre 2006, ritiene che l'obbligo di vietare qualsiasi discriminazione fondata sulla disabilità, previsto all'articolo 5, paragrafo 2, di quest'ultima, miri a tutelare le persone con disabilità e il contesto che li circonda, ad esempio i genitori di minori disabili, e si riferisca esplicitamente alla discriminazione «per associazione», senza limitarla alla discriminazione diretta.
65. Risulta, pertanto, dagli elementi che precedono che il principio di non discriminazione sancito all'articolo 21, paragrafo 1, della Carta, e concretizzato dalla direttiva 2000/78, riguarda anche la discriminazione indiretta «per associazione» fondata sulla disabilità.
66. Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, occorre rispondere alla prima questione dichiarando che la direttiva 2000/78 e, in particolare, il suo articolo 1 e il suo articolo 2, paragrafo 1 e paragrafo 2, lettera b), letti alla luce degli articoli 21, 24 e 26 della Carta nonché degli articoli 2, 5 e 7 della Convenzione dell'ONU, devono essere interpretati nel senso che il divieto di discriminazione indiretta fondata sulla disabilità si applica a un lavoratore che non sia egli stesso disabile, ma che sia oggetto di una siffatta discriminazione a causa dell'assistenza che fornisce al figlio affetto da una disabilità che consente a quest'ultimo di ricevere la parte essenziale delle cure che le sue condizioni richiedono.
Sulla seconda questione
67. Con la sua seconda questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se, in caso di risposta affermativa alla prima questione, la direttiva 2000/78 e, in particolare, il suo articolo 5, letti alla luce degli articoli 24 e 26 della Carta nonché dell'articolo 2 e dell'articolo 7 della Convenzione dell'ONU, debbano essere interpretati nel senso che un datore di lavoro è tenuto, per garantire il rispetto del principio di uguaglianza dei lavoratori e del divieto di discriminazione indiretta di cui all'articolo 2, paragrafo 2, lettera b), di tale direttiva, ad adottare soluzioni ragionevoli, ai sensi di tale articolo 5, nei confronti di un lavoratore che, senza essere egli stesso disabile, fornisca al figlio affetto da una disabilità l'assistenza che consente a quest'ultimo di ricevere la parte essenziale delle cure che le sue condizioni richiedono.
68. Ai sensi dell'articolo 5 della direttiva 2000/78, per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l'onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro interessato a favore dei disabili.
69. Per quanto riguarda la questione se tale articolo 5 si applichi nei confronti di un lavoratore che, senza essere egli stesso disabile, fornisca al figlio con disabilità l'assistenza che consente a quest'ultimo di ricevere la parte essenziale delle cure che le sue condizioni richiedono, occorre certamente rilevare che la Corte ha dichiarato, ai punti 39 e 42 della sentenza del 17 luglio 2008, Coleman (C‑303/06, EU:C:2008:415), che la direttiva 2000/78 contiene un certo numero di disposizioni, tra cui, in particolare, l'articolo 5 di quest'ultima, che sono applicabili unicamente ai disabili.
70. Tuttavia, nella causa che ha dato luogo a tale sentenza, la domanda di pronuncia pregiudiziale non verteva sull'ambito di applicazione di tale articolo né sulla questione se, come nella presente causa, al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei lavoratori e del divieto di discriminazione indiretta di cui all'articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78, debbano essere attuate soluzioni ragionevoli, ai sensi dell'articolo 5 di quest'ultima, nei confronti di un lavoratore che non sia egli stesso affetto da un handicap ma che si occupi del figlio disabile. Peraltro, alla data della pronuncia di detta sentenza, la Carta nonché la Convenzione dell'ONU alla luce delle quali la direttiva 2000/78 deve essere interpretata non erano, rispettivamente, l'una, entrata in vigore, l'altra, approvata dalla Comunità.
71. Pertanto, ai fini di un'interpretazione conforme alla Carta dell'articolo 5 della direttiva 2000/78, occorre anzitutto ricordare, come indicato al punto 58 della presente sentenza, che gli articoli 24 e 26 della Carta prevedono in particolare, rispettivamente, che i minori abbiano diritto alla protezione e alle cure necessarie al loro benessere e che l'Unione riconosce e rispetta il diritto delle persone con disabilità di beneficiare di misure volte a garantirne l'autonomia, l'inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità.
72. La Convenzione dell'ONU, dal canto suo, prevede espressamente, al suo articolo 2, terzo comma, che la nozione di discriminazione fondata sulla disabilità comprende tutte le forme di discriminazione, «compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole». Secondo il quarto comma di detto articolo, per «accomodamento ragionevole» si intendono «le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l'esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali». Come rilevato dall'avvocato generale al paragrafo 53 delle sue conclusioni, gli accomodamenti ragionevoli, come definiti da tale articolo 2, non sono limitati alle esigenze dei disabili sul luogo di lavoro. Pertanto, siffatti accomodamenti devono, se del caso, essere conferiti anche al lavoratore che fornisce l'assistenza che consente a tale persona disabile di ricevere la parte essenziale delle cure che le sue condizioni richiedono.
73. L'articolo 7, paragrafo 1, di tale Convenzione precisa inoltre che gli Stati parti di quest'ultima adottano tutte le misure necessarie per garantire ai minori con disabilità «il pieno godimento» di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali, su base di uguaglianza con gli altri minori. A tal riguardo, il punto x) del preambolo di detta Convenzione si riferisce esplicitamente alla necessità di aiutare le famiglie delle persone con disabilità affinché possano contribuire al pieno ed uguale godimento dei diritti delle persone con disabilità. Ne consegue che il lavoratore deve essere in grado di fornire al figlio disabile l'assistenza di cui ha bisogno, il che implica l'obbligo, per il datore di lavoro, di adeguare le condizioni di lavoro di tale lavoratore.
74. Inoltre, in assenza di un siffatto obbligo, il divieto di discriminazione indiretta «per associazione» di un lavoratore che fornisce al figlio disabile l'assistenza che consente a quest'ultimo di ricevere la parte essenziale delle cure che le sue condizioni richiedono, enunciato al punto 66 della presente sentenza, sarebbe privato di una parte importante del suo effetto utile.
75. Da quanto precede risulta che un datore di lavoro è tenuto a prevedere accomodamenti ragionevoli, ai sensi dell'articolo 5 della direttiva 2000/78, letto alla luce degli articoli 24 e 26 della Carta nonché dell'articolo 2 e dell'articolo 7, paragrafo 1, della Convenzione dell'ONU, nei confronti di un siffatto lavoratore.
76. Quanto ai tipi di accomodamenti ragionevoli richiesti al datore di lavoro di un siffatto «caregiver», la Corte ha già dichiarato che l'articolo 5 della direttiva 2000/78, letto alla luce, in particolare, dell'articolo 2 della Convenzione dell'ONU, raccomanda una definizione ampia della nozione di «accomodamento ragionevole» e che la riduzione dell'orario di lavoro può costituire una delle misure di accomodamento di cui a tale articolo 5. In determinate circostanze, anche la riassegnazione ad un altro posto di lavoro può costituire un provvedimento del genere (v., in tal senso, rispettivamente, sentenze dell'11 aprile 2013, HK Danmark, C‑335/11 e C‑337/11, EU:C:2013:222, punto 64, nonché del 10 febbraio 2022, HR Rail, C 485/20, EU:C:2022:85, punto 43).
77. Pertanto, come rilevato dall'avvocato generale al paragrafo 56 delle sue conclusioni, tali misure di accomodamento ragionevole devono consentire di adeguare l'ambiente di lavoro della persona disabile al fine di consentirle una piena ed effettiva partecipazione alla vita professionale su un piano di parità con gli altri lavoratori. Nel caso in cui il lavoratore non sia egli stesso affetto da un handicap, ma si occupi del figlio colpito da un handicap, dette misure devono altresì consentire, allo stesso scopo, l'adeguamento del suo ambiente di lavoro.
78. Tuttavia, l'articolo 5 della direttiva 2000/78 non obbliga il datore di lavoro ad adottare misure che portino ad imporgli un onere finanziario sproporzionato. A tale proposito, dal considerando 21 di tale direttiva discende che, per determinare se le misure in questione diano luogo a oneri sproporzionati per il datore di lavoro, è necessario tener conto, in particolare, dei costi finanziari che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell'organizzazione o dell'impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni. Inoltre, la possibilità di assegnare una persona disabile a un altro posto di lavoro esiste solo in presenza di almeno un posto vacante che il lavoratore interessato può occupare (sentenza del 18 gennaio 2024, Ca Na Negreta, C‑631/22, EU:C:2024:53, punto 45 e giurisprudenza citata).
79. A tal riguardo, spetta al giudice del rinvio valutare, alla luce delle considerazioni che precedono, e alla luce di tutte le circostanze pertinenti del procedimento principale, se il soddisfacimento della richiesta di G.L. di beneficiare, in modo permanente, di orari fissi, su un determinato posto, rappresentava un onere sproporzionato per il suo datore di lavoro, ai sensi dell'articolo 5 della direttiva 2000/78.
80. Alla luce di quanto precede, occorre rispondere alla seconda questione dichiarando che la direttiva 2000/78 e, in particolare, il suo articolo 5, letti alla luce degli articoli 24 e 26 della Carta nonché dell'articolo 2 e dell'articolo 7 della Convenzione dell'ONU, debbano essere interpretati nel senso che un datore di lavoro è tenuto, per garantire il rispetto del principio di uguaglianza dei lavoratori e del divieto di discriminazione indiretta di cui all'articolo 2, paragrafo 2, lettera b), di tale direttiva, ad adottare soluzioni ragionevoli, ai sensi dell'articolo 5 di detta direttiva, nei confronti di un lavoratore che, senza essere egli stesso disabile, fornisca al figlio affetto da una disabilità l'assistenza che consente a quest'ultimo di ricevere la parte essenziale delle cure che le sue condizioni richiedono, purché tali soluzioni non impongano a detto datore di lavoro un onere sproporzionato.
Sulla terza questione
81. Con la sua terza questione, il giudice del rinvio interroga la Corte, in sostanza, in caso di risposta affermativa alla prima o alla seconda questione, sull'interpretazione della nozione di «caregiver» ai fini dell'applicazione della direttiva 2000/78.
82. Occorre ricordare che la necessità di giungere a un'interpretazione del diritto dell'Unione che sia utile per il giudice nazionale impone che quest'ultimo rispetti scrupolosamente i requisiti relativi al contenuto di una domanda di pronuncia pregiudiziale, indicati in modo esplicito all'articolo 94 del regolamento di procedura, che il giudice del rinvio, nell'ambito della cooperazione istituita dall'articolo 267 TFUE, è tenuto a conoscere (ordinanza del 3 luglio 2014, Talasca, C‑19/14, EU:C:2014:2049, punto 21, e sentenza del 9 settembre 2021, Toplofikatsia Sofia e a., C‑208/20 e C‑256/20, EU:C:2021:719, punto 20 e giurisprudenza citata). Tali requisiti sono inoltre richiamati ai punti 13, 15 e 16 delle raccomandazioni della Corte di giustizia dell'Unione europea all'attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale (GU 2019, C 380, pag. 1), che figurano ora ai punti 13, 15 e 16 delle raccomandazioni della Corte di giustizia dell'Unione europea all'attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale (GU C/2024/6008).
83. In tal senso è indispensabile, come enunciato all'articolo 94, lettera c), del regolamento di procedura, che la decisione di rinvio stessa contenga l'illustrazione dei motivi che hanno indotto il giudice del rinvio a interrogarsi sull'interpretazione o sulla validità di determinate disposizioni del diritto dell'Unione, nonché il collegamento che esso stabilisce tra dette disposizioni e la normativa nazionale applicabile alla causa principale. È altresì indispensabile, come previsto dall'articolo 94, lettera a), del regolamento di procedura, che la stessa decisione di rinvio contenga, quanto meno, un'esposizione delle circostanze di fatto sulla base delle quali le questioni sono fondate (sentenza del 13 dicembre 2018, Rittinger e a., C‑492/17, EU:C:2018:1019, punto 39 e giurisprudenza citata).
84. Orbene, nel caso di specie, il giudice del rinvio interroga la Corte sull'interpretazione della nozione di «caregiver» che non è prevista dalla direttiva 2000/78 ma che, come chiarito dal giudice del rinvio nella sua domanda, sembra emergere dal diritto nazionale.
85. Inoltre, l'ordinanza di rinvio non fornisce alcuna spiegazione quanto al nesso che essa stabilisce tra le precisazioni che chiede alla Corte nell'ambito della sua terza questione riguardo a tale nozione di «caregiver» e la controversia di cui al procedimento principale.
86. Di conseguenza, la terza questione è irricevibile.
Sulle spese
87. Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.
P.Q.M.
la Corte (Prima Sezione) dichiara:
1) La direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro e, segnatamente, il suo articolo 1 e il suo articolo 2, paragrafo 1 e paragrafo 2, lettera b), letti alla luce degli articoli 21, 24 e 26 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea nonché degli articoli 2, 5 e 7 della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, conclusa a New York il 13 dicembre 2006 e approvata a nome della Comunità europea con la decisione 2010/48/CE del Consiglio, del 26 novembre 2009, devono essere interpretati nel senso che il divieto di discriminazione indiretta fondata sulla disabilità si applica a un lavoratore che non sia egli stesso disabile, ma che sia oggetto di una siffatta discriminazione a causa dell'assistenza che fornisce al figlio affetto da una disabilità, assistenza che consente a quest'ultimo di ricevere la parte essenziale delle cure che le sue condizioni richiedono.
2) La direttiva 2000/78 e, in particolare, il suo articolo 5, letti alla luce degli articoli 24 e 26 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea nonché dell'articolo 2 e dell'articolo 7, paragrafo 1, della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, devono essere interpretati nel senso che un datore di lavoro è tenuto, per garantire il rispetto del principio di uguaglianza dei lavoratori e del divieto di discriminazione indiretta di cui all'articolo 2, paragrafo 2, lettera b), di tale direttiva, ad adottare soluzioni ragionevoli, ai sensi dell'articolo 5 di detta direttiva, nei confronti di un lavoratore che, senza essere egli stesso disabile, fornisca al figlio affetto da una disabilità l'assistenza che consente a quest'ultimo di ricevere la parte essenziale delle cure che le sue condizioni richiedono, purché tali soluzioni non impongano a detto datore di lavoro un onere sproporzionato.
Note
(*) Il nome della presente causa è un nome fittizio. Non corrisponde al nome reale di nessuna delle parti del procedimento.