Corte di cassazione
Sezione I civile
Ordinanza 4 dicembre 2025, n. 31771
Presidente: Scoditti - Relatore: Campese
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza del 20 aprile 2017, n. 1893, il Tribunale di Catania rigettò l'opposizione ex art. 645 c.p.c. proposta da Francesco D.D.M. ed Antonella R., così confermando il decreto ingiuntivo n. 161/09 emesso da quel tribunale, sezione distaccata di Paternò, con il quale gli era stato intimato di pagare la somma di euro 12.943,70 in favore di Finanziaria San Giacomo s.p.a.
2. Il gravame promosso dai medesimi opponenti avverso quella decisione fu respinto dall'adita Corte di appello di Catania, con sentenza del 7 gennaio 2021, n. 29, pronunciata nel contraddittorio con Credito Valtellinese s.p.a. («e, per essa, la mandante Cerved Credit Management s.p.a.»), quale cessionaria del credito originariamente azionato da Finanziaria San Giacomo s.p.a.
Quella corte, ricordato che, con l'unica formulata censura, gli appellanti avevano ascritto al tribunale di avere «errato nel ritenere provato che, alla data del 21.11.2000, il conto corrente intestato al D.D. Macrì avesse la disponibilità per sottoporre dapprima a vincolo la somma di lire 30.000.000 e [poi] soddisfare la richiesta di prelievo, dallo stesso effettuato, di lire 80.000.000, ciò sul presupposto che al saldo attivo presente sul conto di lire 84.789.214 andassero aggiunte lire 25.000.000 relative al fido concesso dalla banca», rilevò, preliminarmente, che «[...] mai, prima della proposizione dell'odierno appello, D.D. Macrì Francesco e R. Antonella hanno contestato l'esistenza del fido. Infatti, fin dalla comparsa di costituzione e risposta in primo grado, la banca ebbe a rilevare che le somme richieste con il procedimento monitorio erano relative alla scopertura concessa agli appellanti. Inoltre, con le successive memorie ex art. 183, c. 6, n. 2, c.p.c., depositate in data 29.10.2010, la banca appellata ebbe a produrre la lettera di richiesta di fido sino all'importo di lire 25.000.000 sottoscritta dal D.D. Macrì in data 1.08.1997, dando così prova dell'esistenza dello stesso. Tali eccezioni e documenti non sono mai stati contestati fino a oggi dagli odierni appellanti che, invero, ne danno conferma nei propri scritti difensivi, in particolare a pag. 3 dalla comparsa conclusionale di primo grado dove testualmente affermano "l'errore in cui incorre l'istituto di Credito è quello di considerare compreso nella provvista esistente il quantum, pari a lire 25.000.000, corrispondente all'affidamento. La scopertura bancaria, infatti, non poteva né doveva essere utilizzata dalla banca, in quanto corrispondente non già ad una somma effettivamente esistente sul conto del cliente..."». Ritenne, poi, che, «ai sensi dell'art. 115 c.p.c., la prova fornita dalla banca in primo grado con la produzione della lettera di richiesta di fido e la mancata contestazione dello stesso, così come la non contestata cronologia degli eventi, hanno correttamente indotto il giudice di primo grado a porre a fondamento della sua decisione l'esistenza del detto contratto e del relativo credito vantato dalla banca. Alla data del 21.11.2000 il D.D. aveva, quindi, un fido dallo stesso richiesto, garantito anche dalla fidejussione prestata dalla R., per un importo di lire 25.000.000. Pertanto, vincolata la somma di lire 30.000.000, a seguito del pignoramento eseguito nei loro confronti, per esaudire la richiesta del D.D. di avere corrisposta la somma di lire 80.000.000 la banca ebbe ad utilizzare la scopertura di lire 25.000.000 concessa allo stesso. Né la mancata indicazione nella lettera di richiesta di fido del tasso debitorio per la determinazione degli interessi da corrispondere può inficiare l'esistenza del contratto. L'unica conseguenza che ne può derivare è la nullità della relativa clausola, nel caso di specie tuttavia irrilevante considerato che la banca non ha richiesto alcun interesse sulla sorte vantata».
3. Per la cassazione di questa sentenza hanno promosso ricorso Francesco D.D.M. ed Antonella R., affidandosi a due motivi. Ha resistito, con controricorso, nell'interesse di Marte SPV s.r.l., Hoist Italia s.r.l., quale mandataria con rappresentanza di Securitisation Services s.p.a. (ora Banca Finanziaria Internazionale s.p.a.), a propria volta mandataria con rappresentanza di Marte SPV s.r.l., mentre è rimasta solo intimata Credito Valtellinese s.p.a. Sono state depositate memorie ex art. 380-bis.1 c.p.c.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Ancor prima di procedere allo scrutinio dei formulati motivi, giova premettere che, giusta consolidato, e qui condiviso, orientamento di questa Corte quello, ai fini dell'ammissibilità dei motivi di ricorso per cassazione, non costituisce condizione necessaria la corretta menzione dell'ipotesi appropriata tra quelle in cui è consentito adire il giudice di legittimità, purché si faccia valere un vizio della decisione astrattamente idoneo ad inficiare la pronuncia (cfr. Cass., Sez. un., n. 32415 del 2021; Cass. n. 26892 del 2020; Cass. n. 23381 del 2017; Cass., Sez. un., n. 17931 del 2013). Ne consegue, quindi, che le corrispondenti eccezioni sollevate dall'odierna controricorrente (cfr. pag. 11-15 del suo controricorso) possono essere disattese, emergendo chiaramente, dai motivi suddetti, le concrete tipologie di vizi che, con esso, si è inteso denunciare, certamente riconducibili alle ipotesi di cui all'art. 360, comma 1, c.p.c., ove pure le si volessero considerare non correttamente inquadrate nelle ipotesi appropriate di cui alla medesima disposizione del codice di rito.
2. Il primo motivo di ricorso, rubricato «Falsa applicazione dell'art. 115 c.p.c. Falsa applicazione del principio di non contestazione. Nullità della sentenza in riferimento all'art. art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. Violazione dell'art. 1362 c.c. Nullità della sentenza per violazione dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.», ascrive alla corte distrettuale di avere ritenuto non tempestivamente contestata l'esistenza del fido basandosi su una presunta lettera di corrispondente richiesta mai realmente prodotta. Si assume che il principio di non contestazione può applicarsi esclusivamente a fatti ritualmente e puntualmente allegati dalle parti, non anche ai documenti, e si sostiene che, «ammesso e non concesso che la esistenza, o meno, di un documento che riproduca un contratto di fido stipulato tra le parti oggi in causa possa mai essere equiparato ad un "fatto" (apparendo, per il vero, una tale conclusione del tutto aberrante), è pacifico comunque che tale "fatto" non è stato mai né tempestivamente né puntualmente allegato dall'Istituto di credito e, quindi, rispetto ad esso "fatto", gli odierni ricorrenti non potevano mai ritenersi gravati dall'obbligo di contestazione».
2.1. Questa doglianza si rivela inammissibile alla stregua delle dirimenti considerazioni di cui appresso.
Rileva il Collegio che, come agevolmente può evincersi dalla sentenza oggi impugnata (cfr. pag. 4), la banca convenuta, costituendosi nel giudizio ex art. 645 c.p.c. intrapreso dagli odierni ricorrenti, rimarcò che le somme richieste in via monitoria erano relative "alla scopertura concessa agli appellanti", così innegabilmente allegando anche l'esistenza di un fido ad essi riconosciuto. Successivamente, con la propria memoria ex art. 183, comma 6, n. 2, c.p.c., la stessa produsse la documentazione comprovante la richiesta di fido del D.D.M., datata 1° agosto 1997, per un importo di lire 25.000.000. Tale documento, ritualmente acquisito agli atti, non risulta essere stato tempestivamente contestato dagli allora opponenti nelle memorie successive, né nella comparsa conclusionale.
2.2. Orbene, nella misura in cui la doglianza mira a porre in discussione l'apprezzamento della sussistenza o della insussistenza della non contestazione compiuta dal giudice di merito circa la "scopertura concessa agli appellanti" come allegata, e successivamente documentata, dalla banca opposta, la censura si rivela inammissibile perché tale apprezzamento esige l'interpretazione della domanda e delle deduzioni delle parti ed è perciò riservato al giudice di merito, essendo sindacabile in cassazione solo per difetto assoluto o apparenza di motivazione o per manifesta illogicità della stessa (cfr., anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 27833 del 2005; Cass. n. 10182 del 2007; Cass. nn. 3680 e 27490 del 2019; Cass. n. 17261 del 2025), fattispecie tutte qui palesemente insussistenti.
2.3. È sicuramente vero, poi, che, secondo pacifico insegnamento, il principio di non contestazione opera in relazione ai fatti, e non già ai documenti prodotti (cfr. Cass. n. 12748 del 2016; Cass. n. 22055 del 2017; Cass. n. 3306 del 2020; Cass. n. 2439 del 2022; Cass. n. 17261 del 2025), che siano stati chiaramente e specificamente esposti da una delle parti presenti in giudizio e non siano stati contestati dalla controparte che ne abbia avuto l'opportunità. Gli effetti della non contestazione si producono, invero, con riferimento alle sole allegazioni assertive (che, in quanto non contestate, restano escluse dal thema probandum) e non alle prove assunte, la cui valutazione opera in un momento successivo alla definizione dei fatti controversi ed è rimessa all'apprezzamento del giudice (con riferimento alla prova documentale, cfr. Cass. n. 12748 del 2016; Cass. n. 3126 del 2019). Nella specie, tuttavia, è indubbio che, come si è detto in precedenza, la banca, costituendosi nel giudizio di opposizione, allegò la circostanza della "scopertura concessa agli appellanti", della quale, poi, con la seconda memoria istruttoria, fornì anche la relativa documentazione, mai specificamente contestata dagli opponenti.
2.4. Sotto ulteriore profilo, poi, va ribadito che il principio di non contestazione, se solleva la parte dall'onere di provare il fatto non specificamente contestato dal convenuto costituito, non esclude, però, che il giudice, ove dalle prove comunque acquisite emerga la smentita di quel fatto o una sua diversa ricostruzione, possa pervenire ad un diverso accertamento; l'art. 115, comma 1, c.p.c. non reca alcuna finzione di dimostrazione del fatto non specificatamente contestato, bensì si limita a stabilire una relevatio ab onere probandi a favore della parte che lo ha allegato; la circostanza narrata, in difetto di una specifica contestazione, dovrà essere valutata dal giudice nella formazione del suo convincimento, potendo, pur sola e indimostrata, fondare la decisione (come concretamente accaduto nella specie), ma potrà anche essere reputata inesistente, qualora constino agli atti prove in senso contrario (cfr., in tal senso, pure nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 16201 del 2009; Cass. n. 26395 del 2016; Cass. n. 29404 del 2018; Cass. n. 14448 del 2020; Cass., nn. 5166 e 16028 del 2023; Cass., Sez. 1, 19 aprile 2024, n. 10629 del 2024; Cass. n. 17261 del 2025).
2.5. In definitiva, è chiaro che il D.D.M. e la R. hanno mutato la propria linea difensiva nel corso del giudizio, posto che, come rimarcato, affatto condivisibilmente, dalla sentenza impugnata (cfr. pag. 4), dopo aver inizialmente riconosciuto l'esistenza del fido nella propria comparsa conclusionale (dove, come riportato nella medesima sentenza, testualmente affermano che "l'errore in cui incorre l'istituto di Credito è quello di considerare compreso nella provvista esistente il quantum, pari a lire 25.000.000, corrispondente all'affidamento. La scopertura bancaria, infatti, non poteva né doveva essere utilizzata dalla banca, in quanto corrispondente non già ad una somma effettivamente esistente sul conto del cliente..."), lo avevano poi contestato in appello. Correttamente, dunque, la corte etnea ha considerato tardiva quella contestazione e riconosciuto che, alla stregua dell'art. 115 c.p.c., comma 1, ultima parte, la banca aveva fornito prova sufficiente dell'esistenza del fido.
2.6. Resta solo da ricordare che: i) secondo consolidato indirizzo di legittimità, qui condiviso, la Corte di cassazione, allorquando sia denunciato (come nella specie) un error in procedendo, è sì anche giudice del fatto processuale (cfr. Cass. n. 27478 del 2025; Cass. n. 17584 del 2024; Cass. nn. 35844 e 33173 del 2023; Cass. n. 28385 del 2023 Cass., Sez. un., n. 20181 del 2019; Cass. n. 1738 del 1988; Cass., Sez. un., n. 3195 del 1969) e ha il potere di esaminare direttamente gli atti di causa al fine di valutare la fondatezza del vizio denunciato, purché, tuttavia, lo stesso sia stato ritualmente indicato ed allegato nel rispetto delle disposizioni di cui agli artt. 366, comma 1, n. 6, e 369, comma 2, n. 4, c.p.c.; è necessario, perciò, non essendo tale vizio rilevabile ex officio, che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il fatto processuale di cui richiede il riesame e, quindi, che il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, per il principio di autosufficienza del ricorso, tutte le precisazioni ed i riferimenti necessari ad individuare la dedotta violazione processuale (cfr., e multis, anche nelle rispettive motivazioni, Cass. n. 27478 del 2025; Cass. n. 17584 del 2024; Cass. n. 35844 del 2023; Cass. n. 4391 del 2022; Cass. n. 28072 del 2021; Cass. n. 15807 del 2021; Cass. n. 25432 del 2020, in motivazione; Cass, Sez. un., n. 20181 del 2019; Cass. n. 7499 del 2019; Cass. n. 2771 del 2017; Cass. n. 19410 del 2015). Infatti, il potere-dovere della Corte di esaminare direttamente gli atti processuali non significa che la medesima debba ricercarli autonomamente, spettando, invece, alla parte allegarli ed indicarli (cfr. Cass. n. 17584 del 2024; Cass. nn. 35844 e 33173 del 2023; Cass. n. 28385 del 2023; Cass. n. 978 del 2007); ii) come puntualizzato, in motivazione, da Cass. n. 7612 del 2022, Cass. nn. 8671, 20895, 25907 e 27478 del 2025, «Il compito di questa Corte, [...], non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, né quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dai giudici di merito (Cass. n. 3267 del 2008), anche se il ricorrente prospetta un migliore e più appagante (ma pur sempre soggettivo) coordinamento dei dati fattuali acquisiti in giudizio (Cass. n. 12052 del 2007), dovendo, invece, solo controllare, a norma degli artt. 132, n. 4, e 360 comma 1, n. 4, c.p.c., se costoro abbiano dato effettivamente conto delle ragioni in fatto della loro decisione e se la motivazione al riguardo fornita sia solo apparente ovvero perplessa o contraddittoria (ma non più se sia sufficiente: Cass., Sez. un., n. 8053 del 2014), e cioè, in definitiva, se il loro ragionamento probatorio, qual è reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto, com'è in effetti accaduto nel caso in esame, nei limiti del ragionevole e del plausibile (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.)».
3. Il secondo motivo di ricorso, rubricato «Travisamento dei fatti: esame di un documento inesistente. Omesso esame di documenti essenziali per la decisione della causa di cui si è discusso nel corso della causa. Violazione degli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c. Nullità della sentenza impugnata in riferimento all'art. 360, comma 1, nn. 4 e 5 c.p.c.», contesta alla corte territoriale di avere fondato la propria decisione su un documento inesistente (la presunta richiesta di fido del 1997), senza considerare l'estratto conto del 31 dicembre 2000, che mostrava un saldo attivo incompatibile con l'esistenza di un contratto di fido, e che la banca mai aveva indicato gli elementi essenziali di un tale contratto (durata, interessi, commissioni, ecc.).
3.1. Anche questa censura si rivela complessivamente inammissibile.
Essa lamenta, in realtà, un errore percettivo non denunciabile in cassazione, e dunque revocatorio, non risultando indicata l'esistenza di controversia fra le parti sulla corrispondente circostanza (cfr. Cass., Sez. un., n. 5792 del 2024).
3.2. A tanto deve aggiungersi, comunque ed in via assolutamente dirimente, che, da un lato, la corte distrettuale ha dato atto dell'avvenuta produzione, in primo grado, da parte della banca, unitamente alla propria seconda memoria istruttoria ex art. 186, comma 6, c.p.c., della lettera di richiesta di fido fino all'importo di lire 25.000.000 sottoscritta dal D.D.M. in data 1° agosto 1997, dovendo qui solo ricordarsi che, come sancito da Cass., Sez. un., n. 4835 del 2023, «In materia di prova documentale nel processo civile, il principio di "non dispersione (o di acquisizione) della prova" - che opera anche per i documenti, prodotti con modalità telematiche o in formato cartaceo - comporta che il fatto storico in essi rappresentato si ha per dimostrato nel processo, costituendo fonte di conoscenza per il giudice e spiegando un'efficacia che non si esaurisce nel singolo grado di giudizio, e non può dipendere dalle successive scelte difensive della parte che detti documenti abbia inizialmente offerto in comunicazione».
Dall'altro, che non vi è stato, nella specie, alcun omesso esame di documenti essenziali, posto che la corte distrettuale, tenuto conto di quanto si è già ampiamente riferito disattendendosi il primo motivo, ha valutato gli atti e motivato in modo assolutamente coerente, dovendo qui solo ribadirsi che il giudizio di legittimità non può essere surrettiziamente trasformato in un nuovo, non consentito, ulteriore grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (cfr. Cass. n. 21381 del 2006, nonché, tra le più recenti, Cass., Sez. un., n. 34476 del 2019; Cass. nn. 1822, 2195, 3250, 5490, 9352, 13408, 5237, 21424, 30435, 35041 e 35870 del 2022; Cass. nn. 1015, 7993, 11299, 13787, 14595, 17578, 27522, 30878 e 35782 del 2023; Cass. nn. 4582, 4979, 5043, 6257, 9429, 10712, 16118, 19423, 27328 e 35006 del 2024; Cass. nn. 1166, 8671, 20895 e 26724 del 2025).
4. In conclusione, l'odierno ricorso promosso da Francesco D.D.M. ed Antonella R. deve essere dichiarato inammissibile, restando a loro carico, in via solidale, le spese di questo giudizio di legittimità sostenute dalla costituitasi controricorrente, altresì dandosi atto - in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., Sez. un., n. 24245 del 2015; Cass., Sez. un., n. 15279 del 2017) e giusta quanto precisato da Cass., Sez. un., n. 4315 del 2020 - che, stante il tenore della pronuncia adottata, sussistono, ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, i presupposti processuali per il versamento, da parte dei medesimi ricorrenti, in solido tra loro, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto, mentre «spetterà all'amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento».
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso di Francesco D.D.M. ed Antonella R. e li condanna al pagamento, in solido tra loro, in favore della costituitasi controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, che liquida in euro 2.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi, liquidati in euro 200,00, ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, ad opera dei medesimi ricorrenti, in solido tra loro, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, giusta il comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.