Corte di cassazione
Sezione II penale
Sentenza 15 ottobre 2020, n. 34214

Presidente: Cervadoro - Estensore: Ariolli

RITENUTO IN FATTO

1. Capriati Giuseppe, a mezzo del difensore di fiducia, ricorre per cassazione per l'annullamento dell'ordinanza del Tribunale del riesame di Bari che ha confermato la misura cautelare della custodia cautelare in carcere, disposta dal G.I.P. dello stesso tribunale nei confronti del ricorrente in ordine al delitto di concorso in illecita concorrenza di cui all'art. 513-bis c.p., aggravato ex art. 416-bis.1 c.p. (già art. 7 d.l. n. 152/1991). In particolare, l'indagato avrebbe percepito, unitamente a Quarto Francesco e nella qualità di rappresentante dell'omonimo clan di stampo mafioso "Capriati", una somma periodica per la collocazione, da parte dell'imprenditore D'Ambrogio Baldassarre, di slot machine presso pubblici esercizi insistenti nel territorio di influenza del predetto clan.

1.1. Con il primo motivo deduce la violazione dell'art. 513-bis c.p., l'inosservanza degli artt. 273, comma 1, 292, comma 2, lett. c) e c-bis), c.p.p. ed il vizio di motivazione.

Le censure attengono alla gravità indiziaria. In particolare, anche laddove fosse asseverato che il ricorrente avesse percepito delle somme per la collocazione, da parte dell'imprenditore D'Ambrogio Baldassarre, di slot machine presso i due esercizi commerciali menzionati in imputazione - circostanza invece esclusa dai gestori a cui era stata accostata la figura del ricorrente - ciò non avrebbe potuto integrare una condotta rilevante ai sensi dell'art. 513-bis c.p., non essendo dimostrato che l'imprenditore si sia avvalso dell'appoggio del ricorrente, quale esponente dell'omonimo clan, per impedire ad aziende concorrenti di conquistare fette di mercato occupate dalla propria ditta o estromettere altre aziende o costringere i titolari degli esercizi commerciali a non rivolgersi ad altri fornitori.

Inoltre, le somme consegnate mensilmente al Capriati si giustificavano in relazione alla precaria condizione di disoccupato in cui egli si trovava. Né potevano essere valorizzate, in senso contrario, le dichiarazioni rilasciate da Santoro Francesco, vittima di usura del D'Ambrogio, nella parte in cui l'utilizzo del nome del ricorrente da parte dello stesso D'Ambrogio, al fine di indurre Capriati Sabino a desistere dalle pressanti richieste di installare proprie macchinette (in vece di quelle del D'Ambrogio), sarebbe stato un mero espediente, anziché, come ritenuto nell'ordinanza impugnata, un fatto dimostrativo dell'influenza che il ricorrente rivestiva all'interno della cosca.

Da una corretta lettura delle intercettazioni, poi, doveva escludersi che il ricorrente potesse considerarsi socio in affari di Quarto Francesco, suo coindagato e che ne condividesse gli interessi economici.

Esulava, poi, dal novero delle condotte sanzionate dall'art. 513-bis c.p. la richiesta di somme di denaro al D'Ambrogio da destinare al sostentamento del detenuto Spano Angelo. In ogni caso, l'unico soggetto che si sarebbe semmai autonomamente attivato in tal senso sarebbe il coindagato.

Infine, priva di valenza era la vicenda relativa al recupero di crediti da un esercizio commerciale indicato come il "Bar dell'Indiano" sia perché non è chiarita l'identità del "Ciccio" incaricato della riscossione a cui si fa riferimento nelle telefonate (non identificabile, dunque, con il ricorrente), sia perché, anche in questo caso, non vengono evocate modalità di recupero violente o minacciose.

1.2. Con il secondo motivo deduce l'erronea applicazione dell'art. 416-bis.1 c.p., l'inosservanza degli artt. 273, comma 1, e 292, comma 2, lett. c) e c-bis) c.p.p., nonché il vizio di motivazione. La censura attiene alla sussistenza dell'aggravante speciale nelle declinazioni contestate (del metodo e dell'agevolazione): dalle dichiarazioni dei gestori dei locali interessati non era dato evincere il ruolo del ricorrente nella collocazione delle slot machine e, quindi, a maggior ragione, se costui avesse fatto ricorso alla particolare metodologia descritta dall'art. 416-bis c.p.; documentato era che le dazioni in favore del ricorrente fossero dovute alla precaria situazione lavorativa in cui si trovava. Priva di carattere individualizzante era poi la vicenda relativa al sostentamento, da parte del D'Ambrogio, di un detenuto riferibile all'omonima cosca.

1.3. Con il terzo motivo lamenta l'erronea applicazione degli artt. 274 e 275, comma 3, c.p.p., la violazione dell'art. 125 c.p.p., nonché il vizio di motivazione. La doglianza riguarda la sussistenza delle esigenze cautelari in ragione del tempo trascorso dalle condotte riferibili al ricorrente (non oltre marzo 2016) e l'avere escluso l'applicazione di una misura meno afflittiva della custodia in carcere, omettendo di apprezzare il dato positivo costituito dal fatto che il ricorrente aveva successivamente intrapreso un'attività lavorativa.

MOTIVI DELLA DECISIONE

2. Il ricorso va rigettato essendo i motivi non fondati e/o manifestamente infondati.

2.1. Con riferimento alla gravità indiziaria, va anzitutto osservato come la gran parte delle censure articolate nel primo motivo di ricorso siano inammissibili in quanto reiterative di obiezioni già affrontate ed esaustivamente disattese nelle conformi decisioni cautelari, limitandosi a contestare le valutazioni ivi espresse in ordine alle risultanze offerte dal materiale probatorio (soprattutto con riguardo al contenuto delle intercettazioni telefoniche), sulla base di una diversa ed alternativa lettura che, in questa sede, non è consentita, esulando dai poteri della Corte di cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, il cui apprezzamento è, in via esclusiva, riservato al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. un., 6402 del 30 aprile 1997, Dessimone, Rv. 207944; Sez. un., 47289 del 24 settembre 2003, Petrella, Rv. 226074).

In tema di difetto di motivazione, il giudice di merito non ha, infatti, l'obbligo di soffermarsi a dare conto di ogni singolo elemento indiziario o probatorio acquisito in atti, potendo egli invece limitarsi a porre in luce quelli che, in base al giudizio effettuato, risultano gli elementi essenziali ai fini del decidere, purché tale valutazione risulti logicamente coerente. Sotto tale profilo, dunque, la censura di non aver preso in esame tutti i singoli elementi risultanti in atti (in particolare le dichiarazioni di uno dei gestori degli esercizi commerciali coinvolti), costituisce una censura del merito della decisione, in quanto tende, implicitamente, a far valere una differente interpretazione del quadro indiziario, sulla base di una diversa valorizzazione di alcuni elementi rispetto ad altri (in termini, ex multis, Sez. 5, n. 2459 del 17 aprile 2000, Rv. 216367).

2.2. Tanto premesso, dalla motivazione della decisione impugnata emerge come il Tribunale del riesame abbia offerto la dimostrazione, sulla base di una coerente esposizione logico-argomentativa, dell'esistenza di una valida piattaforma gravemente indiziaria a carico del ricorrente in ordine al delitto di concorso in illecita concorrenza con minaccia o violenza.

Invero, il dato di partenza dell'odierna vicenda, costituito dalla periodica percezione da parte del ricorrente di somme di denaro in relazione all'avvenuta collocazione presso due esercizi commerciali di slot machine riferibili all'imprenditore D'Ambrogio, non può che logicamente ricondursi, alla luce degli elementi di fatto indicati nell'ordinanza impugnata, all'aggio dovuto ai diversi clan per consentire all'imprenditore colluso di acquisire una posizione dominante nel settore, mediante la diffusa installazione delle sue macchinette presso le attività commerciali insistenti nelle zone controllate dai diversi gruppi criminali di riferimento. L'ordinanza impugnata ha, infatti, evidenziato come le indagini della G.d.F. abbiano accertato come alla società di noleggio del D'Ambrogio fosse riferibile pressoché la totalità delle slot machine presenti nei vari esercizi commerciali del territorio di Bari. Sulla scorta delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e delle persone informate sui fatti, avvalorate da numerose intercettazioni telefoniche tra il D'Ambrogio e i suoi stretti collaboratori da un lato, e con alcuni esercenti dall'altro, è emerso come ciò fosse la conseguenza di un accordo intercorso tra l'imprenditore, nipote di un noto esponente di spicco della criminalità barese (detenuto all'epoca dei fatti) ed esponenti dei sodalizi criminosi egemoni sul territorio di Bari che, grazie alla propria forza di intimidazione, assicuravano l'installazione, presso i diversi esercizi commerciali, di slot machine noleggiate dalla ditta del D'Ambrogio (anche previa disinstallazione di congegni ad altra ditta riferibili), così consentendo all'imprenditore di conseguire una posizione di sostanziale monopolio nel settore. L'ipotesi d'accusa - che vede il Capriati Giuseppe, quale esponente dell'omonimo clan - concorrere con il D'Ambrogio per avere garantito e assicurato la collocazione delle macchinette presso esercizi commerciali situati in alcune zone di influenza del clan - rinviene, del resto, un'ulteriore e significativa conferma nell'assenza di logicità dell'alternativa - prospettata dalla difesa sulla scorta di un riferimento intercettivo - secondo la quale il ricorrente avrebbe percepito tali somme in ragione della condizione di disoccupato in cui versava all'epoca dei fatti. Tale differente causale, in realtà, non trova alcuna plausibile spiegazione, sia laddove alla rimessa avesse provveduto direttamente il D'Ambrogio (o i suoi collaboratori) ovvero i gestori degli esercizi commerciali di riferimento, stante l'assenza dell'indicazione di rapporti da cui far discendere un obbligo di tal genere. Inoltre, l'ipotesi difensiva non spiega perché tale periodica dazione andasse in favore anche del concorrente Quarto Francesco, con precedenti per associazione mafiosa quale partecipe del clan Capriati, il quale, al pari del ricorrente, non annoverava rapporti autonomi con il D'Ambrogio o con gli esercenti coinvolti, da cui potesse scaturire una lecita pretesa economica. Anzi, è emerso come il coindagato si prestasse a sollecitare al D'Ambrogio anche il versamento di somme destinate ad un detenuto gravitante nel clan Capriati, ovvero si interessasse al recupero di crediti dovuti allo stesso D'Ambrogio da altri esercenti, circostanze che rendono ancor più verosimile l'ipotesi accusatoria che riconduce ad un contesto illecito i rapporti intercorrenti tra Capriati Giuseppe e Quarto Francesco, soprattutto se si considera che l'ordinanza impugnata cita anche diverse conversazioni telefoniche in cui i due coindagati si rappresentano come un unico interlocutore dell'imprenditore, il quale era tenuto a dare loro la somma complessivamente convenuta, interfacciandosi quali unica "parte contrattuale". La circostanza, poi, che la società che sarebbe subentrata al D'Ambrogio al momento della cessazione del nolo presso uno degli esercizi commerciali (quello del Puglisi) fosse tenuta a versare in loro favore una sorta di indennità di buonuscita parametrata al volume di affari, da dividersi con il D'Ambrogio, ovvero, quale alternativa, a versare periodicamente l'aggio mensile in aderenza a quanto effettuato dagli altri esercenti, dà conto della doverosità del versamento e, dunque, dell'assenza di alcuna spontaneità.

Del resto, la riconducibilità ad una imposizione economica che non trova spiegazione se non nella soggezione diffusa alla caratura criminale delle diverse famiglie che controllano il territorio di Bari, logicamente si lega, nell'ordinanza impugnata, ad ulteriori elementi: l'agire del D'Ambrogio, per come puntualmente descritto dal collaboratore di giustizia Simeone (il quale riferisce di circostanze a sua diretta conoscenza), si fonda su un modus operandi collaudato che prevede l'intervento dei diversi clan al fine di costringere gli esercenti ad accettare l'installazione della sue macchinette, anche previa disinstallazione di altre riferibili ad altra ditta, così consentendo all'imprenditore gradito alle cosche di acquisire sul mercato una posizione dominante; il contenuto delle diverse conversazioni intercettate, da cui risulta che gli esercizi commerciali procacciati dai clan mantenessero in vita le macchinette noleggiate dal D'Ambrogio sebbene non funzionanti o a fronte di ritardi nelle riparazioni ovvero allorché vetuste; l'ammonimento ricevuto da un imprenditore (il Fornelli) concorrente al D'Ambrogio per avere "invaso" una zona di non sua competenza.

Inoltre, a conferma di un coinvolgimento attivo del ricorrente nell'ambito del sistema "D'Ambrogio", si cita l'ulteriore episodio, particolarmente significativo, ove è proprio l'intervento del Capriati Giuseppe a dirimere le aspirazioni del cugino (Capriati Sabino) che voleva imporre al gestore Santoro la collocazione di sue macchinette in vece di quelle dell'imprenditore gradito ai clan, intervento che non risulta affatto millantato per come prospettato dalla difesa, ma effettivamente concretizzatosi, posto che il Tribunale osserva come lo stesso esercente, subito dopo l'intervento del Capriati, abbia riferito che cessò qualunque vessazione ad opera del Capriati Sabino.

2.3. Alla luce del complesso degli elementi sopra evidenziati risulta logica la conclusione raggiunta in questa sede dal Tribunale del riesame di ricondurre all'accordo stipulato dal d'Ambrogio con i diversi clan la dazione delle somme versate al ricorrente (e al coindagato Quarto Francesco), quali esponenti del clan Capriati, per avere assicurato la collocazione delle macchinette presso i due esercizi commerciali di cui all'imputazione. Del resto, ipotizzare che la dazione delle somme in favore del ricorrente non sia conseguenza degli effetti distorsivi del mercato ad opera dell'iniziativa del D'Ambrogio con il supporto dei clan, significa operare una lettura parcellizzata degli elementi raccolti, operazione certamente legittima in un'ottica difensiva al fine di svalutarne la pregnanza contenutistica, ma non consentita in questa sede e che si espone ai profili di illogicità sopra evidenziati. Questa Corte ha, infatti, al riguardo affermato che, ai fini della configurabilità dei gravi indizi di colpevolezza necessari per l'applicazione delle misure cautelari personali, è illegittima la valutazione frazionata e atomistica della pluralità degli elementi indiziari acquisiti (Sez. 2, n. 9269 del 5 dicembre 2012, dep. 2013, Rv. 254871; Sez. 1, n. 39125 del 22 settembre 2015, Rv. 264780; Sez. fer., n. 38881 del 30 luglio 2015, Rv. 264515). È necessario, infatti, non solo accertare, in un primo momento, il maggiore o minore livello di gravità e precisione dei singoli indizi, ciascuno isolatamente considerato, ma anche, in un secondo momento, procedere al loro esame globale ed unitario, verificando se sulla scorta di tale complessiva valutazione fosse possibile dissolverne la relativa "ambiguità" e a inserirli in una lettura complessiva che di essi chiarisca l'effettiva portata dimostrativa e la congruenza rispetto al tema di indagine prospettato dall'accusa nell'imputazione provvisoria su cui si fonda la misura cautelare. Tale compito risulta essere stato correttamente adempiuto dal giudice del riesame.

2.4. Quanto, poi, ai rilievi prospettati in ordine alla qualificazione giuridica del fatto, ritiene il Collegio che rientri nel paradigma del delitto di cui all'art. 513-bis c.p., la condotta dell'imprenditore che acquisisca posizioni dominanti di mercato (nel caso in esame di sostanziale monopolio) attraverso l'intervento dei clan che controllano le zone ove insistono gli esercizi commerciali destinatari delle sue prestazioni. In tal caso, infatti, si verifica un'alterazione dell'equilibrio del mercato e del principio della libera concorrenza, in quanto i rapporti commerciali che ne conseguono non sono frutto di una libera scelta dei singoli esercenti, ma della minaccia anche implicita scaturente dalla notorietà dell'apparentamento dell'imprenditore con i clan di stampo mafioso, con danno anche di altri imprenditori operanti nel medesimo settore i cui prodotti finiscono per essere forzatamente boicottati. La libertà di concorrenza, infatti, non si traduce solo nella possibilità di svolgere la propria attività d'impresa in competizione con una pluralità di soggetti operanti sul mercato, ma anche nella libertà da illecite interferenze e condizionamenti che ne contrastino od ostacolino l'esercizio, alterando la dimensione concorrenziale di uno spazio produttivo che i protagonisti utilizzano anche in favore della collettività, e dove quella libertà non solo viene generalmente regolata e promossa, ma anche lecitamente ad attuarsi. In questa prospettiva, l'acquisizione di una posizione dominante in un determinato settore economico, dovuta all'accordo con i clan e alle condotte violente o minatorie che l'hanno tradotto in atto, integra un comportamento anticoncorrenziale, in quanto conseguita senza alcun merito derivante dalle capacità effettivamente mostrate nell'organizzazione e nello svolgimento della propria attività produttiva e preclusiva tanto dell'accesso nel settore di altri imprenditori quanto della libertà dell'esercente al dettaglio di scegliere liberamente il contraente.

Come hanno puntualizzato le Sezioni unite di questa Corte nella sentenza n. 13178 del 28 novembre 2019, Guadagni, la giurisprudenza costituzionale (e una lettura convenzionalmente orientata del concetto di concorrenza) permette di affermare che la libertà d'iniziativa economica privata può essere esercitata erga omnes, come «eguale possibilità» di tutti i privati «di attivarsi materialmente e giuridicamente nello stesso settore» e, quindi, «di confrontarsi vicendevolmente, sottoponendo al giudizio del mercato la valutazione, e il conseguente successo, delle reciproche iniziative, necessariamente sempre nuove e diverse, in una competizione senza fine». La richiamata disposizione afferma il valore della libertà dell'iniziativa privata senza limitarne l'operatività ai rapporti fra Stato e imprenditore, essendo la copertura costituzionale estesa sino a ricomprendervi anche il quadro delle relazioni reciproche tra imprenditori ed i rapporti fra questi ed i consumatori.

Se dal riconoscimento della libertà d'iniziativa economica deriva, quale naturale corollario, quello del principio di eguaglianza nei rapporti economici, è evidente - hanno puntualizzato le Sezioni unite - che la repressione delle forme di concorrenza sleale s'innesta proprio su quest'ultimo versante del precetto costituzionale offerto dall'art. 41 della Carta fondamentale, offrendo una specifica tutela nei confronti di comportamenti posti in essere dall'imprenditore allo scopo di assicurarsi indebite posizioni di vantaggio che non ledono tanto (o soltanto) l'economia nazionale astrattamente considerata, ma sono idonei a ledere anche, e soprattutto, l'esercizio dell'altrui libertà di iniziativa economica, rispetto alla quale il metodo competitivo si eleva a principio generale del sistema, secondo le coordinate eurounitarie. Da tutto ciò è possibile desumere - hanno concluso le Sezioni unite - che la leale concorrenza è un bene non solo «socialmente rilevante, suscettibile di assurgere ad oggetto di tutela penale», ma anche dotato di «indiscutibile rilievo costituzionale», in un'accezione sia di tipo estrinseco o negativo, sia, soprattutto, di tipo positivo, quale assenza di condizionamenti indebiti all'esercizio della relativa libertà.

Le condotte che dunque perturbino, attraverso meccanismi fin troppo collaudati di intimidazione mafiosa, l'ampio spettro di quelle libertà, si iscrivono nell'ambito della platea delle ipotesi integratrici della figura delittuosa descritta dall'art. 513-bis c.p. sempre che non trasmodino in più gravi e finitime fattispecie incriminatrici, come il delitto di estorsione. Questa Corte, d'altra parte, non ha mancato di puntualizzare, al riguardo, che il delitto di estorsione può concorrere con quello di illecita concorrenza con violenza o minaccia, trattandosi di fattispecie differenti, la cui diversità si misura valutando le modalità con cui si esprime l'azione violenta: integra il delitto di cui all'art. 513-bis c.p. la condotta tesa a sovvertire il normale svolgimento delle attività imprenditoriali attraverso comportamenti violenti che incidono direttamente sul funzionamento dell'impresa; si configura, invece, il delitto di estorsione nel caso in cui l'azione violenta si risolva in coazione fisica e psichica dell'imprenditore e non si traduca in una manipolazione violenta e diretta dei meccanismi di funzionamento dell'attività economica concorrente. (In motivazione, la Corte ha precisato, altresì, che nella sola estorsione si ritrova l'elemento di fattispecie dell'ottenimento del profitto ingiusto; Sez. 2, n. 53139 dell'8 novembre 2016 - dep. 15 dicembre 2016, Cotardo, Rv. 268640).

Quanto, poi, alla minaccia costitutiva dell'intimidazione "anticoncorrenziale", questa ben può essere, al pari di quella del delitto di estorsione, implicita o ambientale, non necessitando di manifestazioni "eclatanti", purché sia idonea ad incutere timore ed a coartare la volontà del soggetto passivo, in relazione alle circostanze concrete, alle condizioni soggettive della vittima ed alle situazioni in cui opera. Si tratta di un'opzione ermeneutica che si pone in linea con la giurisprudenza in materia di estorsione, ma anzi ne rappresenta l'ineludibile sviluppo in settori - ulteriori rispetto a quello tradizionale del "pizzo" - in cui le associazioni di stampo mafioso parimenti operano. E tra questi settori va certamente annoverato "il mercato"; conclusione che trova, d'altra parte, testuale riconoscimento nell'art. 416-bis c.p., nella parte in cui, nel definire l'associazione mafiosa, fa riferimento all'avvalimento della forza di intimidazione per "acquisire in modo diretto o indiretto la gestione e il controllo di attività economiche".

Di conseguenza, allorché il giudice del merito abbia compiutamente descritto l'esistenza di una situazione di monopolio alla quale l'imprenditore è giunto attraverso l'opera minacciosa dei clan, a nulla rileva che la collocazione delle macchinette presso alcuni esercizi commerciali non sia stata accompagnata dal compimento di atti di violenza o di esplicita minaccia, in quanto l'assunzione dell'obbligo di corrispondere periodicamente al rappresentante della cosca una quota fissa parametrata sul numero delle slot ivi collocate, non può che essere logicamente determinato - stante l'evidente assenza di una lecita causa a supporto della dazione - dal timore di subire ritorsioni nel patrimonio o contro la persona a causa del clima di intimidazione diffusa promanante dal gruppo criminale egemone proprio sul territorio di rispettivo insediamento.

Parimenti è a dirsi con riguardo anche all'altro versante dell'offerta, ossia con riguardo agli altri imprenditori del settore, la cui via d'accesso risulta in concreto preclusa dall'esistenza di un mercato chiuso, in forza proprio dell'accordo raggiunto dall'imprenditore "dominante" con i clan i quali, nel caso di specie, hanno finito per creare una sorta di struttura parallela costituita da esponenti dell'organizzazione imprenditoriale e da rappresentanti delle associazioni criminali di riferimento, delegati a supportare le attività di inserimento e commercializzazione dei sistemi di intrattenimento e a gestire i rapporti con i vari mandamenti mafiosi. Costituisce, infatti, concorrenza sleale penalmente rilevante anche il frapporre barriere all'ingresso di altri concorrenti su un certo mercato o su una zona "contrattualmente" stabilita, allorché tale ostacolo consegua all'opera intimidatoria operata, tanto a livello della domanda che a carattere diffuso, dai clan egemoni sui territori di insediamento delle attività commerciali interessate dalle prestazioni rese dall'azienda "monopolista".

Agli altri operatori del settore è, infatti, precluso istallare i propri apparecchi presso gli esercenti, essendo i relativi spazi occupati forzosamente dall'imprenditore colluso, non in considerazione delle qualità di questi nell'offrire il prodotto, tali da renderlo preferibile rispetto agli altri - come concorrenza vorrebbe -, ma in quanto ad esso "riservati" per l'intervento del clan. Non si giunge, quindi, alla fase di comparazione delle offerte da parte dell'esercente (cosa che si verificherebbe nell'ordinario svolgimento delle dinamiche concorrenziali), giacché vi è uno "sbarramento" aprioristico, dovuto all'intermediazione di esponenti dell'associazione, che si fanno portatori della caratura intimidatoria del gruppo mafioso di appartenenza e che ricevono dall'imprenditore colluso, quale contropartita per tale intervento, una somma determinata. Con la conseguenza che ai danni degli altri operatori del settore si realizza un sostanziale e forzoso boicottaggio.

Del resto, ai fini della tipicità di fattispecie, la norma incriminatrice nemmeno richiede che l'atto di concorrenza con violenza e minaccia si rivolga agli altri concorrenti in senso stretto (nella specie, gli altri fornitori di macchinette), potendo configurarsi anche quando tale atto si diriga verso altri soggetti (nella specie, gli esercenti, che la vicenda vede coinvolti in prima battuta e in via diretta - sebbene, peraltro, non esclusiva). (Nel senso che "non è necessario che i comportamenti ivi contemplati siano diretti nei confronti dell'imprenditore concorrente, non essendo tale caratteristica espressamente richiesta dalla norma a fronte di condotte che ben possono coinvolgere anche persone diverse da quello", vedi ex multis Sez. 6, n. 37520 del 18 aprile 2019, Rv. 276725, richiamata in motivazione dalle Sez. un. Guadagni).

3. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile. Invero, il quadro fattuale compiutamente descritto al giudice del merito dà ragionevolmente conto anche della sussistenza dell'aggravante speciale contestata, tanto nella declinazione del metodo che dell'agevolazione. Per un verso, infatti, l'acquisizione della posizione dominante da parte dell'imprenditore e gli atti negoziali che ne costituiscono la diretta derivazione (ossia i contratti di nolo delle macchinette in relazione ai diversi gestori) si debbono a condotte di consolidata intimidazione ambientale poste in essere dai concorrenti nel reato riferibili alle diverse cosche di riferimento; per altro, è proprio in virtù degli accordi intercorsi con l'imprenditore che i clan conseguono, tramite loro accoliti, utilità economiche che ne rafforzano l'operatività. Inoltre, attraverso la creazione di un mercato "viziato", i clan operano un costante controllo del territorio e delle attività commerciali ivi presenti, così consolidando quell'egemonia che si pone come una delle condizioni che genera assoggettamento ed omertà.

Le censure difensive si incentrano, sul punto, sulla diversa ricostruzione del fatto riproponendo profili di merito inerenti al coinvolgimento del ricorrente nella vicenda illecita, nonché sull'esclusione di atti di concorrenza violenta o minacciosa, profili motivatamente disattesi dall'ordinanza impugnata. La circostanza, poi, che non sia attribuibile al ricorrente la richiesta rivolta al D'Ambrogio di sostentamento di un detenuto riconducibile al clan Capriati, non priva di decisività le argomentazioni spese dal giudice della cautela a sostegno dell'aggravante speciale, comunque riferibili alle modalità ed alle finalità che caratterizzano l'accordo raggiunto dall'imprenditore con i diversi clan e all'imposizione diffusa delle macchinette nei territori controllati dalle diverse cosche.

4. Infondato è, infine, il terzo motivo di ricorso con cui si deduce l'erronea applicazione degli artt. 274 e 275, comma 3, la violazione dell'art. 125 c.p.p., nonché il vizio di motivazione.

4.1. In tema di misure coercitive va ribadito come l'attualità e la concretezza delle esigenze cautelari non deve essere concettualmente confusa con l'attualità e la concretezza delle condotte criminose, onde il pericolo di reiterazione di cui all'art. 274, comma 1, lett. c) c.p.p. può essere legittimamente desunto dalla gravità e dalle particolari modalità delle condotte contestate, anche nel caso in cui esse siano risalenti nel tempo, ove persistano atteggiamenti sintomaticamente proclivi al delitto e collegamenti con l'ambiente in cui il fatto illecito contestato è maturato. Spetta quindi al giudice del merito dare conto, anche nella vigenza del regime presuntivo di cui all'art. 275, comma 3, c.p.p., di avere apprezzato l'arco temporale non segnato da condotte dell'indagato sintomatiche di perdurante pericolosità.

Nel caso in esame, l'ordinanza impugnata, non solo ha richiamato spiccati indici di particolare gravità dei fatti contestati, considerato che le condotte sono state descritte anche come funzionali all'affermazione, in modo diffuso, degli interessi economici delle diverse cosche insistenti sul territorio barese, ma ha anche escluso l'esistenza di obiettivi indici di allontanamento effettivo del ricorrente dagli ambienti delinquenziali in cui è maturata la condotta illecita.

Il tempo "silente", ovvero quello che si identifica in un rilevante arco temporale non segnato da condotte dell'indagato sintomatiche di perdurante pericolosità e che può rientrare tra gli elementi dai quali risulta che non sussistono le esigenze cautelari è, in relazione ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, quello che sia in grado di rivelare un allontanamento effettivo dal contesto criminale di riferimento o dal pregresso stile di vita.

L'aver escluso che tale rescissione sia ravvisabile nello svolgimento di mera attività lavorativa è conclusione coerente sia con riguardo alle modalità del fatto per cui si procede che rispetto alla personalità del ricorrente. Quanto al primo profilo, tale novum perde di significato allorché si è accertato come la destinazione dei compensi in favore del Capriati fosse una tangente di cosca e non destinata al suo mantenimento poiché disoccupato. Quanto al secondo profilo, è circostanza che non svolge alcuna interferenza rispetto all'affermazione contenuta nella ordinanza impugnata di aver posto in essere le condotte contestate avvalendosi della fama criminale della famiglia di origine e del proprio genitore, indicato quale boss storico dell'omonimo clan (vedi pag. 32).

L'aver inserito il ricorrente in un ambiente delinquenziale di rilevante allarme sociale - che destina anche parte delle somme derivanti dalla posizione dominante dell'imprenditore colluso al sostentamento dei detenuti, svolgendo anche un'attività di recupero crediti che ne assevera l'insistenza sul territorio di riferimento - esclude qualunque profilo di illogicità nella motivazione adottata dal Tribunale del riesame a sostegno dell'esclusione della possibilità di far fronte alle esigenze cautelari con una misura gradata rispetto a quella presunta dalla legge e in concreto dal G.I.P. applicata.

5. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. Ai sensi dell'art. 616 c.p.p. consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

6. Non conseguendo dall'adozione del presente provvedimento la rimessione in libertà dell'indagato, deve provvedersi ai sensi dell'art. 94, comma 1-ter, disp. att. c.p.p.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Manda alla Cancelleria per gli adempimenti previsti dall'art. 94, comma 1-ter, disp. att. c.p.p.

Depositata il 2 dicembre 2020.

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