Corte dei conti
Sezione giurisdizionale per la Toscana
Sentenza 9 dicembre 2021, n. 458

Presidente: Galeota - Estensore: di Pietro

FATTO

Con atto di citazione ritualmente notificato, la Procura regionale presso questa Sezione giurisdizionale ha convenuto in giudizio T. Maria Luisa, chiedendone la condanna al risarcimento del danno in favore dell'Università di Pisa, nella misura complessiva di euro 11.409,25, ovvero per il diverso importo ritenuto di giustizia, oltre alla rivalutazione monetaria dalla data dell'evento lesivo e con gli interessi legali dalla data di pubblicazione della sentenza di condanna, col favore delle spese di lite.

A sostegno della domanda, ha dedotto che la convenuta, attraverso la predisposizione di fatture false e non inserite nella contabilità ufficiale e nei registri IVA, avrebbe incamerato direttamente le somme corrisposte dai soggetti esterni fruitori delle prestazioni rese dai Laboratori dell'Università, invece che riversarle all'Ateneo.

La contestazione erariale nascerebbe dalle indagini avviate nel 2014 dalla Procura penale, a seguito di una segnalazione del Nucleo Ispettivo del Dipartimento di Scienze Veterinarie; a seguito dell'attività investigativa, sarebbe stato appurato che, nel corso degli anni, erano state illegittimamente percepite le seguenti somme, per un totale di euro 11.409,25:

- euro 158,60 per il 2009;

- euro 448,00 per il 2010;

- euro 59,50 per il 2011;

- euro 141,25 per il 2012;

- euro 4.744,38 per il 2013;

- euro 5.857,52 per il 2014.

Il procedimento penale si sarebbe concluso con sentenza del GIP di Pisa n. 186 del 2020, di applicazione della pena su richiesta delle parti, ai sensi dell'art. 444 c.p.p.

A parere del Pubblico Ministero, la condotta della convenuta integrerebbe gli estremi dell'illecito erariale, sub specie della responsabilità contabile.

Infatti, la T. avrebbe dolosamente omesso di riversare all'Università le somme, pagate dai terzi fruitori delle prestazioni dei Laboratori, che ella stessa incassava per conto dell'Amministrazione e nell'ambito di un regolare rapporto di servizio.

Pertanto, la Procura regionale ha concluso per la condanna della convenuta al pagamento in favore dell'Università di Pisa della somma di euro 11.409,25, oltre accessori e con vittoria di spese.

La convenuta, benché ritualmente citata, è rimasta contumace.

All'udienza di discussione, il Pubblico Ministero ha insistito per l'accoglimento della domanda, riportandosi a tutte le circostanze di fatto ed alle argomentazioni enucleate in citazione.

DIRITTO

In via preliminare, ai sensi dell'art. 93 del c.g.c., dev'essere dichiarata la contumacia della convenuta T. Maria Luisa, che non si è costituita in giudizio benché ritualmente citata ai sensi dell'art. 140 c.p.c. (v. relata del 25 marzo 2021 ed avviso di ricevimento del 26 marzo 2021, ritirato il 6 aprile 2021, in atti).

Nel merito, la domanda è fondata.

L'oggetto del processo è il danno erariale di euro 11.409,25, cagionato all'Università di Pisa attraverso una serie di condotte illecite, per le quali in sede penale è stata già emessa sentenza di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. (sent. del GIP di Pisa n. 186/2020, irrevocabile in data 29 luglio 2020).

In particolare, come si evince dagli atti di indagine inseriti nel fascicolo, la convenuta, attraverso la predisposizione di fatture false e non inserite nella contabilità ufficiale e nei registri IVA, aveva ripetutamente incamerato e trattenuto per sé le somme corrisposte dagli utenti che fruivano delle prestazioni rese dai Laboratori dell'Università, invece che riversarle all'Ateneo.

Nel corso degli anni, erano state illegittimamente percepite le seguenti somme, per un totale di euro 11.409,25:

- euro 158,60 per il 2009;

- euro 448,00 per il 2010;

- euro 59,50 per il 2011;

- euro 141,25 per il 2012;

- euro 4.744,38 per il 2013;

- euro 5.857,52 per il 2014.

La sentenza di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., emessa il 9 luglio 2020, è divenuta irrevocabile in data 29 luglio 2020.

È pacifico che, nel nostro ordinamento, la sentenza di "patteggiamento" non ha efficacia di giudicato nei giudizi civili e amministrativi per le restituzioni e il risarcimento dei danni (art. 445, comma 2, c.p.p.), diversamente dalla sentenza irrevocabile di condanna pronunciata in seguito a dibattimento (art. 651, comma 1, c.p.p.) o giudizio abbreviato (art. 651, comma 2, c.p.p.).

Tuttavia, la giurisprudenza contabile è consolidata nel ritenere che "gli stessi fatti possono essere autonomamente valutati in sede amministrativo-contabile e che il convenuto, a fronte della propria richiesta di applicazione di condanna in sede penale, ha quantomeno l'onere di allegare o dedurre le ragioni per cui, benché innocente, abbia in concreto preferito avvalersi del 'patteggiamento', essendo altrimenti valutabile la richiesta di applicazione della pena quale elemento di prova, senza necessità di riscontri esterni" (ex multis, v. Sez. Piemonte, sent. 25 dell'11 febbraio 2010; sent. 65 del 23 marzo 2009; sent. 236 del 28 novembre 2008).

"Né può ignorarsi che, per espressa previsione dello stesso art. 445, comma 1-bis, la sentenza di 'patteggiamento' è comunque equiparata a una condanna" (Sez. Abruzzo, sent. n. 41/2019).

La giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente chiarito che "la sentenza di applicazione della pena emessa ai sensi dell'art. 444 c.p.p. (cosiddetto 'patteggiamento'), malgrado non sia una vera e propria sentenza di condanna (alla quale, difatti, è equiparata solo a determinati fini) e non costituisca, in deroga al disposto degli artt. 651 e 654 c.p.p., una statuizione provvista dell'efficacia vincolante propria del giudicato (art. 445, primo comma, c.p.p.), postula tuttavia una richiesta, da parte dell'imputato, che implica pur sempre il riconoscimento del fatto-reato, onde non impedisce che, nel corrispondente giudizio in sede civile, ai fini della relativa decisione, si proceda all'accertamento autonomo, in via incidentale, dei fatti illeciti oggetto del giudizio penale, ivi costituendo, tuttavia, indiscutibile elemento di prova che ben può essere utilizzato, anche in via esclusiva, per la formazione del proprio convincimento, dal giudice di merito, il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per le quali l'imputato abbia ammesso una sua insussistente responsabilità ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione" (Cass., Sez. I, sent. 3626 del 24 febbraio 2004; in termini analoghi, ex plurimis, Cass. 8 ottobre 1998, n. 9976; Cass. 10 novembre 1998, n. 11301; Cass. 11 dicembre 2000, n. 15572; Cass. 24 febbraio 2001, n. 2724; Cass. 21 marzo 2003, n. 4193).

Il rilievo attribuito alla sentenza ex art. 444 c.p.p. deriva dalla constatazione che la decisione "rappresenta il naturale epilogo dell'omonimo rito alternativo, rispetto al giudizio ordinario dibattimentale, che si caratterizza per la sua funzione deflattiva, consentendo una definizione anticipata del processo"; orbene, una volta che l'imputato "decida di percorrere la strada della richiesta di applicazione della pena, in qualche modo, ha rinunciato di avvalersi della facoltà di contestare l'accusa o, in altri termini, non ha negato la sua responsabilità ed ha perciò esonerato l'accusa dall'onere della prova". Per altro verso, "la sentenza, che accoglie la detta richiesta di 'patteggiamento', contiene in sé un accertamento implicito della responsabilità dell'imputato, senza che si debba espressamente motivare detta affermazione di responsabilità, anche perché, comunque, resta fermo l'obbligo giuridico del giudice di controllare se, allo stato degli atti di causa, sussistano le condizioni per il proscioglimento dell'imputato, a norma dell'articolo 129 del codice di procedura penale". Inoltre, "la tesi che riconduce la sentenza di patteggiamento all'ampio genus delle sentenze di condanna si fonda poi sostanzialmente sul dato letterale dell'articolo 445, comma primo, del codice di procedura penale, ai sensi del quale 'salve diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata ad una pronuncia di condanna'. Detto fondamento è avvalorato dalla considerazione che nella richiesta di patteggiamento è implicita una ammissione di responsabilità dell'imputato in ordine al reato ascrittogli, mentre il Giudice non si limita passivamente a recepire tale richiesta, ma deve sempre verificare che non sussistano le condizioni per pronunciare il proscioglimento a norma dell'articolo 129 del codice di procedura penale" (Sez. I app., sent. n. 353/2018).

Pertanto, non vi è dubbio che "il convenuto, a fronte della propria richiesta di applicazione della pena in sede penale, ha quantomeno l'onere di allegare o dedurre le ragioni a fronte delle quali abbia in concreto preferito avvalersi della pena concordata, essendo altrimenti valutabile la richiesta di applicazione della pena quale elemento di prova, senza necessità di riscontri esterni", che possono essere comunque costituiti da tutti "gli atti di polizia giudiziaria, ivi compresi le relazioni di polizia giudiziaria, i verbali di dichiarazioni rese da terzi, le consulenze tecniche ed anche le sentenze pronunciate in altri giudizi, acquisiti al processo", liberamente valutabili salvo prova contraria (Sez. II app., sent. 6/2020).

Nel caso in esame, l'oggetto della sentenza di patteggiamento è costituito dal delitto di cui agli artt. 81 cpv. e 314 c.p.; secondo l'imputazione, la convenuta, in qualità di dipendente dell'ufficio "Accettazione" del Dipartimento di Scienze Veterinarie dell'Università di Pisa, "quindi incaricata di un pubblico servizio, avendo in ragione del suo ufficio la disponibilità delle somme versate dai medici veterinari richiedenti prestazioni di laboratorio alla suddetta struttura pubblica, si appropriava degli incassi corrisposti dai professionisti", nel periodo compreso tra il 1° ottobre 2011 ed il 31 dicembre 2014, per complessivi euro 11.280,65.

Gli elementi di prova, desumibili dalla sentenza di patteggiamento, trovano conferma negli atti acquisiti dalla P.G. e, in particolare, nelle relazioni amministrative del 17 novembre 2014 e del 18 dicembre 2014, nell'esame delle fatture sottoposte a sequestro (dalla n. 1 alla n. 42) e nei correlati controlli eseguiti presso gli studi medici veterinari che avevano versato le somme nelle mani della convenuta (v. nota della Guardia di Finanza del 3 aprile 2019, in atti).

Dalla sentenza ex art. 444 c.p.p. e dai relativi atti di indagine, si desume che la convenuta, agendo quale dipendente dell'Università e dunque nell'ambito di un rapporto di servizio, ha omesso dolosamente di riversare le somme incamerate per conto dell'Amministrazione. In tal modo, ha cagionato un pari danno alle casse dell'Università.

Sussistono, pertanto, tutti gli estremi della responsabilità erariale, sub specie della responsabilità contabile.

Ne consegue che la convenuta è tenuta a versare la somma di euro 11.409,25, in favore dell'Università di Pisa.

L'importo deve essere maggiorato della rivalutazione monetaria, da calcolare su base annua e secondo gli indici ISTAT per le famiglie di operai e impiegati, a far data dall'evento lesivo, ovverosia dal giorno di scadenza dell'obbligo di riversamento delle somme dovute ogni quindici giorni a titolo di tassa di soggiorno, fino alla pubblicazione della presente sentenza; sulla somma così rivalutata, sono dovuti gli interessi legali, dalla pubblicazione della sentenza e fino al soddisfo.

Le spese di giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

la Corte dei conti, Sezione giurisdizionale per la Regione Toscana, definitivamente pronunciando in ordine alla domanda proposta dal Procuratore regionale nei confronti di T. Maria Luisa:

accoglie la domanda e, per l'effetto, condanna la convenuta T. Maria Luisa al pagamento della somma complessiva di euro 11.409,25 (undicimila e quattrocentonove/25) in favore dell'Università di Pisa, oltre alla rivalutazione monetaria dalla data dell'evento lesivo fino alla data di pubblicazione della presente sentenza, oltre agli interessi legali sulla somma così rivalutata, da quest'ultima data e fino al soddisfo;

pone a carico della convenuta le spese di giudizio, che liquida, fino al deposito della presente sentenza, in complessivi euro 108,63 (diconsi euro centotto/63).

Manda alla Segreteria per le comunicazioni di rito.