Corte di cassazione
Sezione III penale
Sentenza 26 novembre 2021, n. 3716

Presidente: Sarno - Estensore: Di Nicola

RITENUTO IN FATTO

1. Carlotta S., nella qualità di curatrice del Fallimento Media Coop. Società cooperativa a r.l., ricorre per la cassazione dell'ordinanza del 6 luglio 2021 con la quale il Tribunale di Napoli, in funzione di giudice del riesame, ha confermato il decreto di sequestro adottato in data 30 aprile 2021 dal Gip presso il Tribunale di Napoli e disposto per reati tributari.

2. Il ricorso è affidato a due motivi.

2.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione di legge in relazione alle norme che regolano la competenza per territorio (art. 8 c.p.p. e art. 18 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74).

Premette che, in sede di istanza di riesame, la difesa aveva preliminarmente eccepito l'incompetenza territoriale del Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Napoli, in favore del Autorità giudiziaria di Trani.

Nell'ordinanza del GIP, quanto al reato provvisoriamente contestato (art. 10-quater d.lgs. n. 74 del 2000) era stato infatti preliminarmente riconosciuto che, trattandosi di reato che si perfeziona attraverso la presentazione del modello F24, con il quale viene effettuata l'indebita compensazione, competente per territorio sarebbe il luogo ove tale attività viene svolta.

Il primo giudice avrebbe tuttavia ritenuto che, non essendo stato possibile statuire con certezza il luogo da cui è avvenuto l'invio dei modelli F24, la competenza andasse determinata in relazione al luogo di accertamento del reato.

Obietta, invece, il ricorrente che, nel capo n. 78 delle provvisorie imputazioni, è stato espressamente identificato in Savino Se. colui che, in qualità di consulente fiscale e intermediario abilitato ai servizi telematici "Entratel" dell'Agenzia delle Entrate, aveva inviato telematicamente i modelli F24 che consentivano di beneficiare di indebite compensazioni.

Nella stessa ordinanza veniva segnalato quale luogo dell'attività professionale del Se. il suo studio in Andria (BAT), dovendosi pertanto in tale studio professionale individuare il luogo dove sono stati presentati i modelli F24, tramite invio telematico.

Il Tribunale del riesame, senza affrontare il tema devoluto, avrebbe genericamente dichiarato di condividere le argomentazioni del GIP ed ha evocato un precedente di legittimità che, letto nella sua interezza, confermerebbe, ad avviso del ricorrente, quanto sostenuto dalla difesa, con la conseguenza che, nel caso in questione, essendo individuabile con certezza il luogo di presentazione dei modelli F24, e quindi di consumazione del reato, la competenza territoriale, in ossequio alla corretta applicazione degli artt. 8 c.p.p. e 18 d.lgs. n. 74 del 2000, deve radicarsi in capo all'Autorità giudiziari[a] di Trani.

2.2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione di legge (artt. 321 c.p.p. e 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000), in relazione alla possibilità di operare il sequestro preventivo, ex art. 321, comma 2, c.p.p., di beni rientranti nella massa fallimentare.

Osserva il ricorrente come la più recente giurisprudenza di legittimità sia orientata nel senso che, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, il sequestro preventivo dei beni della società finalizzato alla confisca diretta del profitto non può più essere eseguito, mentre può essere eseguito solo quello finalizzato alla confisca per equivalente, sui beni dell'indagato, tant'è che la peculiare natura dell'attivo fallimentare, derivante da tale spossessamento, sarebbe di ostacolo all'applicabilità del d.lgs. n. 74 del 2000 art. 12-bis che individua, quale limite all'operatività della confisca, l'appartenenza dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo del reato, salvo che appartengano a persona estranea al reato.

Ricorda come lo stesso principio fosse già stato incidentalmente affrontato e confermato dalle Sezioni unite con la sentenza n. 45946 del 2019 nell'ambito della quale si dava per acquisita l'esclusione della possibilità di eseguire il sequestro su beni appartenenti alla massa fallimentare, e quindi in una situazione cronologica di posteriorità rispetto alla dichiarazione di fallimento, in quanto sui beni che si trovano in questa condizione si è ormai costituito un potere di fatto della curatela.

Il Tribunale del riesame di Napoli, invece, ha ritenuto di aderire a un diverso criterio ermeneutico, attinente tuttavia ad una fattispecie differente riguardante l'istituto del concordato preventivo (quindi a uno strumento di risoluzione della crisi di impresa volto proprio ad evitare il fallimento) e alla utilizzazione di un bene oggettivamente e intrinsecamente pericoloso (che sembra richiamare il comma 1, e non il comma 2, dell'art. 321 c.p.p.).

Ciò posto, deduce il ricorrente che anche l'orientamento patrocinato dal Collegio cautelare esclude dalla sottoposizione al sequestro e/o a confisca i beni che debbono essere restituiti al danneggiato e quelli sui quali il terzo abbia acquisito diritti in buona fede.

Il Tribunale del riesame, pur prendendo atto di tale principio, ha ritenuto però che i soggetti insinuati al passivo non possano essere considerati terzi acquirenti in buona fede, ma senza spiegarne il motivo, nonostante la difesa avesse prodotto documentazione dalla quale risultava pacificamente come vi fossero numerosi crediti maturati da lavoratori subordinati che certamente rientravano tra i soggetti terzi estranei ai reati avendo acquisito diritti di credito, da lavoro subordinato, in perfetta buona fede e in epoca antecedente al sequestro penale.

Il quale, pertanto, non doveva essere eseguito, violando la par condicio creditorum e ponendosi in aperto contrasto con la finalità evidentemente sanzionatoria, richiamata dalla stessa ordinanza impugnata, perseguita dalla confisca prevista in tema di reati tributari, quale strumento volto a ristabilire l'equilibrio economico alterato dal reato, con la conseguenza che proprio l'evidente finalità sanzionatoria, come si desume dal testo del provvedimento impugnato, sottrarrebbe al Fallimento i beni frutto di attività recuperatorie (e quindi di attività lecite), poste in essere dal curatore al fine di garantire soggetti terzi che avevano maturato crediti legittimi e di buona fede, risultando, peraltro, sostanzialmente privi di interesse, allo stato, i riferimenti al futuro Codice della crisi di impresa (d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14), posto che lo stesso non è, in parte qua, entrato in vigore e non può certo essere utilizzato come parametro di riferimento sul quale fondare la decisione.

In ogni caso, il ricorrente insta, ai sensi dell'art. 618 c.p.p., affinché il ricorso sia rimesso alle Sezioni unite sul presupposto dell'esistenza di un evidente contrasto giurisprudenziale sul tema relativo alla possibilità, a fronte del fallimento di una società, di sequestrare, ex art. 321, comma 2, c.p.p., i beni rientranti nella massa fallimentare.

3. Il Procuratore generale ha concluso per il rigetto dell'eccezione di incompetenza per territorio e, comunque, per l'annullamento senza rinvio dell'impugnata ordinanza sul rilievo che, pur in presenza di un diverso indirizzo, si sarebbe recentemente consolidato l'orientamento giurisprudenziale di legittimità in forza del quale, in tema di reati tributari, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di cui all'art. 12-bis del d.lgs. n. 74 del 2000, non può essere adottato sui beni già assoggettati alla procedura fallimentare, in quanto la dichiarazione di fallimento importa il venir meno del potere di disporre del proprio patrimonio in capo al fallito, attribuendo al curatore il compito di gestire tale patrimonio al fine di evitarne il depauperamento. Del resto, è stato osservato, il vincolo apposto sui beni del fallito a seguito della apertura della procedura concorsuale, oltre a "spossessare" la società fallita dai beni che costituiscono la garanzia patrimoniale del ceto creditorio, conferisce al curatore, che insieme al Tribunale e al giudice delegato ne è l'organo, il potere di gestione di tale patrimonio al fine di evitarne il depauperamento e garantire la par condicio dei creditori, i quali, in virtù dell'ammissione al passivo, sono portatori di diritti alla conservazione dell'attivo, nella prospettiva della migliore soddisfazione dei loro crediti, che trovano così riconoscimento e tutela, pur convivendo fino alla vendita fallimentare con quelli di proprietà del fallito e con il vincolo concorsuale, con la conseguenza che - siccome il sequestro preventivo in via diretta nei confronti del Consorzio Progresso Logistico a r.l. venne disposto in data 30 aprile 2021, allorquando quest'ultima era già stata dichiarata fallita in data 1° agosto 2019 - i beni della stessa erano ormai passati nella disponibilità della curatela, diventando insuscettibili di ablazione, e dunque anche di sequestro ad essa finalizzato.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso non è fondato.

2. Il primo motivo è inammissibile per manifesta infondatezza.

A tal proposito, è sufficiente considerare come il reato tributario (art. 10-quater d.lgs. n. 74 del 2000) sia connesso (ex art. 12, comma 1, lett. a), c.p.p.) al reato associativo (art. 416 c.p.), che è stato provvisoriamente contestato alla stessa stregua del reato tributario, tra gli altri, a Luigi D.F. e a Michele So., in concorso tra loro, in quanto ritenuti anche organizzatori e promotori del sodalizio criminoso, a nulla rilevando che, nel caso in esame, si discuta del sequestro preventivo disposto nei confronti della società fallita, perché, al fine di stabilire nelle procedure incidentali de libertate la competenza del giudice cui è attribuita la cognizione della regiudicanda cautelare, occorre avere riguardo ai rapporti giuridici che si instaurano in relazione al procedimento principale.

Ne deriva che, indipendentemente dal criterio del luogo di accertamento del reato tributario, pure seguito dal Collegio cautelare, il reato associativo, in quanto più grave, commesso in Pozzuoli, determina, in ragione della connessione tra i reati, la competenza dell'autorità giudiziaria napoletana anche con riferimento al reato tributario.

Ne consegue che, in tema di reati tributari o di concorso tra questi ultimi e i reati comuni, la competenza per territorio determinata dalla connessione appartiene al giudice del luogo dove è stato commesso il reato più grave e, in caso di pari gravità, al giudice del luogo dove è stato commesso il primo reato, dovendo trovare, in tal caso, applicazione i criteri previsti dall'art. 16 c.p.p. in quanto quelli di cui all'art. 18 d.lgs. n. 74 del 2000 sono applicabili solo quando è contestato un "singolo reato tributario" (v. Sez. 3, n. 37858 del 4 giugno 2014, Piccioni, Rv. 260115-01).

A questi principi si è pure ispirato, nella sostanza, il Collegio cautelare, condividendo l'impostazione fatta propria dal GIP, con la ulteriore conseguenza che, rispetto a tale ratio decidendi, il ricorrente non ha preso specifica posizione, come avrebbe dovuto, incorrendo pertanto nel vizio di aspecificità, che pure affligge il motivo di ricorso.

3. Il secondo motivo è infondato per le seguenti ragioni.

Il tribunale del riesame - con specifico riferimento al caso, nella specie sussistente, in cui la dichiarazione di fallimento aveva preceduto l'applicazione di una misura cautelare reale - ha ritenuto di aderire all'indirizzo giurisprudenziale (ex multis, Sez. 3, n. 15776 del 2020, Fallimento Barter s.r.l., non mass.; Sez. 3, n. 23907 del 1° marzo 2016, Taurino, Rv. 266940-01; e, in parte, Sez. un., n. 29951 del 24 luglio 2004, Focarelli, Rv. 228165), in forza del quale il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, diretta o per equivalente, del profitto dei reati tributari, prevista dall'art. 12-bis, comma 1, d.lgs. n. 74 del 2000, prevale sui diritti di credito vantati sul medesimo bene per effetto di qualsiasi procedura concorsuale (concordato preventivo o fallimento), attesa l'obbligatorietà della misura ablatoria alla cui salvaguardia è finalizzato il sequestro, per cui il rapporto tra il vincolo imposto dall'apertura della procedura concorsuale e quello discendente dal sequestro deve essere risolto a favore della seconda misura, prevalendo sull'interesse dei creditori l'esigenza di inibire l'utilizzazione di un bene oggettivamente e intrinsecamente pericoloso, in vista della sua definitiva acquisizione da parte dello Stato.

Secondo questa impostazione, poi, le finalità del fallimento non sarebbero in grado di assorbire la funzione assolta dal sequestro, perché i diritti di credito dei terzi non sarebbero ricompresi nella clausola di esclusione di cui all'art. 12-bis, comma 1, d.lgs. n. 74 del 2000, in quanto l'unico limite alla confiscabilità, secondo l'ambito di applicazione della norma richiamata, sarebbe rappresentato dalla "appartenenza" del bene a persona estranea al reato.

In particolare, sul tema dei rapporti tra procedura concorsuale e sequestro penale, l'impugnata ordinanza ha osservato come la giurisprudenza di legittimità sia orientata nel ritenere prevalente il sequestro, laddove quest'ultimo sia intervenuto prima della dichiarazione di fallimento della società, laddove il dissenso interpretativo investirebbe essenzialmente il caso in cui, come nella vicenda in esame, la dichiarazione di fallimento sia intervenuta prima del sequestro.

A questo proposito, il tribunale cautelare, ripercorrendo la ratio decidendi di Sez. 3, n. 15776 del 2020, ha ricordato come la sequenza temporale tra i due vincoli non sia un aspetto di per sé dirimente per la soluzione della questione, e ciò in considerazione del differente ambito operativo intercorrente tra la procedura concorsuale e la misura cautelare reale. Mentre, infatti, la prima è finalizzata a consentire la soddisfazione dei creditori dell'impresa che versi in stato di insolvenza, la seconda è volta a sottrarre alla disponibilità dell'indagato (o della persona giuridica che si sia giovata del risparmio fiscale derivante dalla realizzazione del reato tributario, traendo dall'evasione un ingiusto profitto, n.d.r.) i proventi di un determinato reato, per cui il problema, in caso di sovrapposizione dei due vincoli, non sarebbe tanto quello di stabilire quale sia stato apposto per primo, quanto piuttosto quello di valutare a quale delle diverse esigenze di tutela occorre assicurare preminenza e in che termini. Questa costruzione teorica non sarebbe incrinata dal riconoscimento, in capo al curatore, della legittimazione all'impugnazione dei provvedimenti impositivi di cautele reali (Sez. un., n. 45936 del 26 settembre 2019, Curatela fall. Mantova petroli, Rv. 277257), in quanto tale riconoscimento, diversamente da quanto opina il ricorrente, non vale ad alterare l'assetto dei rapporti tra procedura fallimentare e sequestro preventivo finalizzato alla confisca del prezzo o del profitto del reato, cosicché la misura ablatoria reale, in virtù del suo carattere obbligatorio, da riconoscere sia alla confisca diretta che a quella per equivalente, è destinata a prevalere su eventuali diritti di credito gravanti sul medesimo bene, a prescindere dal momento in cui intervenga la dichiarazione di fallimento, non potendosi attribuire ad essa, se intervenuta prima del sequestro, effetti preclusivi rispetto all'operatività della cautela reale disposta in linea con i requisiti di legge, e ciò a maggior ragione nell'ottica della finalità evidentemente sanzionatoria perseguita dalla confisca espressamente prevista in tema di reati tributari, quale strumento volto a ristabilire l'equilibrio economico alterato dal reato. Unico limite all'operatività della confisca diretta o per equivalente, per come desumibile dal tenore letterale dell'art. 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000, è, dunque, soltanto l'eventuale appartenenza del bene a persona estranea al reato. Ciò comporta la necessità di un'attenta verifica da parte del giudice di merito, volta, nel solco interpretativo tracciato dalle Sezioni unite (Sez. un., n. 11170 del 25 settembre 2014, dep. 2015, Uniland s.p.a., Rv. 263681-01), ad accertare l'eventuale titolarità o meno di diritti dei terzi, e, in caso positivo, le modalità dell'acquisizione del diritto, ciò al fine di valutarne la buona fede.

L'esigenza di tale verifica assume una particolare pregnanza proprio nell'ambito delle procedure concorsuali, dovendosi in questo ambito scrutinare con particolare rigore, soprattutto in presenza di un attivo fallimentare, l'esistenza della somma oggetto della cautela reale e la possibile coesistenza, ove dedotta dal curatore, di diritti di proprietà concernenti gli stessi beni sottoposti a sequestro. Se è vero, infatti, che il sequestro penale è destinato a prevalere sugli interessi dei creditori all'integrale salvaguardia dell'attivo fallimentare, è tuttavia altrettanto innegabile che, sul piano pratico, è indispensabile circoscrivere compiutamente l'entità del profitto confiscabile, consentendo di soddisfare le preminenti ragioni di tutela penale, senza però arrecare pregiudizio alle concorrenti pretese creditorie, e tanto soprattutto laddove l'attivo fallimentare sia costituito da somme di denaro. In tema di reati tributari, poi, resta ferma l'esigenza di valutare anche se l'Erario abbia già proceduto al recupero delle somme non versate dal contribuente, ciò al fine di evitare un'indebita locupletazione da parte del Fisco, tenuto conto che, ai sensi del secondo comma dell'art. 12-bis, la confisca non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all'Erario anche in presenza di sequestro (così, quasi testualmente, Sez. 3, n. 15776 del 2020, cit., in motiv.).

Il Collegio cautelare ha fatto buon governo di tali principi ed ha anche aggiunto come il precedente approdo risulti corroborato dalle previsioni ex d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, avuto particolare riguardo alle modifiche introdotte dalla l. 17 ottobre 2017, n. 161 agli artt. 63 e 64 del c.d. "codice antimafia", dove è stata sancita la prevalenza del sequestro di prevenzione rispetto alle procedure concorsuali, sottolineando come anche il nuovo Codice della crisi dell'impresa, sebbene composto da molteplici disposizioni di cui è stata differita la vigenza, contenga norme, la cui entrata in vigore è stata appunto differita e poi prorogata, con le quali sono stati regolati i rapporti tra sequestro penale e procedure concorsuali, stabilendo il medesimo principio di prevalenza, fissato nella materia delle misure di prevenzione, del sequestro finalizzato alla confisca rispetto ai beni vincolati nel seno delle procedure concorsuali.

4. Il ricorrente, nella sostanza, rimprovera al tribunale del riesame di non aver preso posizione in conformità al diverso orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità alla luce del quale, in tema di reati tributari, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di cui all'art. 12-bis d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, non può essere adottato sui beni già assoggettati alla procedura fallimentare, in quanto la dichiarazione di fallimento importa il venir meno del potere di disporre del proprio patrimonio in capo al fallito, attribuendo al curatore il compito di gestire tale patrimonio al fine di evitarne il depauperamento (Sez. 3, n. 36745 del 15 ottobre 2020, Semprucci, non mass.; Sez. 3, n. 17766 del 26 febbraio 2020, Sangermano, in motiv.; Sez. 3, n. 45574 del 29 maggio 2018, E., Rv. 273951-01), chiedendo, con il ricorso, che la questione, in quanto oggetto di un radicato contrasto giurisprudenziale, venga rimessa alle Sezioni unite.

4.1. A quest'ultimo proposito, occorre innanzitutto precisare che l'esistenza di un contrasto all'interno della Corte non comporta l'obbligo per la Sezione semplice di rimettere la questione alle Sezioni unite, per la semplice ragione che il primo comma dell'art. 618 c.p.p., pur al cospetto di una espressa richiesta di parte, facoltizza ("può") ma non obbliga la Sezione semplice alla rimessione.

Nell'esercitare tale facoltà la Sezione semplice - cui sia stata presentata, come nella specie, una richiesta di rimessione della questione alle Sezioni unite - potrà, tra l'altro, valutare se, pur in presenza di un contrasto giurisprudenziale (che, stando alle massime ufficiali, non appare così radicato), la decisione impugnata contenga elementi di novità in ordine ai quali sia opportuna una presa di posizione della giurisprudenza di legittimità utile ad alimentare, in considerazione del novum proveniente dalla giurisprudenza di merito, la dialettica tra le Sezioni semplici per la successiva condivisione di un determinato orientamento o per la rimessione futura della questione alle Sezioni unite, che si potranno così giovare di indirizzi giurisprudenziali frutto di un proficuo dialogo tra giurisprudenza di merito e giurisprudenza di legittimità e tra le stesse Sezioni della Corte di cassazione.

4.2. Prima ancora di segnalare il novum argomentativo che contrassegna l'ordinanza impugnata, è solo il caso di ricordare come la giurisprudenza di legittimità, espressa dalle Sezioni civili della Corte, non abbia mai dubitato del fatto che la dichiarazione di fallimento di una società priva la stessa di ogni potere in relazione al suo patrimonio (eccezion fatta per i beni sottratti all'esecuzione concorsuale per disposizione di legge e per i beni sopravvenuti che non siano acquisiti dalla massa), ma non comporta di per sé alcuna alterazione dell'organizzazione sociale, i cui organi restano in funzione, sia pur con le limitazioni derivanti dall'intervenuta dichiarazione di fallimento, tant'è che, analogamente, la chiusura del fallimento fa venir meno lo "spossessamento" della società fallita, con il conseguente riacquisto da parte della stessa della libera disponibilità dei beni ma non comporta invece l'estinzione della società (Sez. 1, n. 9723 del 23 aprile 2010, Corte Del Tucano S.r.l. in liq. contro Latina S.r.l., Rv. 613181-01; Sez. 1, n. 11361 dell'11 ottobre 1999, Belgiardino Imm. Sas contro Fall. Bianchi, Rv. 530561-01).

È perciò singolare che - pur al cospetto della perdurante esistenza di un ente che, avendo beneficiato di un risparmio fiscale, ha conservato i beni che costituiscono il profitto o il prezzo di un reato tributario - la società possa risultare giuridicamente affrancata dall'applicazione di una misura ablativa obbligatoria e conseguentemente dall'applicazione di misure prodromiche alla confisca (appunto obbligatoria).

Se il fallimento comporta lo spossessamento dei beni ma lascia inalterata la struttura dell'ente fallito, logico corollario di tale affermazione è che la società continua ad esistere come soggetto giuridico, suscettibile di essere sanzionato (nei casi in cui sia previsa una responsabilità dell'ente ex lege 8 giugno 2001, n. 231) o di essere privato, ope legis, dei beni costituenti il profitto o il prezzo di un reato tributario e così pertanto si spiegano le pronunce che giustificano la perdurante vigenza del sequestro preventivo funzionale alla confisca riguardante una società fallita.

Ad ulteriore dimostrazione di ciò, oltre a quanto affermato dal Collegio cautelare in conformità alla pronuncia di Sez. 3, n. 15776 del 2020 che merita convinta adesione, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, in tema di rapporti tra sequestro preventivo e fallimento, è legittimo il sequestro preventivo dei beni ricompresi nell'attivo fallimentare, in quanto la deprivazione che il fallito subisce dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni, vincolati dalla procedura concorsuale a garanzia dell'equa soddisfazione di tutti i creditori mediante l'esecuzione forzata, non esclude che egli conservi, sino al momento della vendita fallimentare, la titolarità dei beni stessi (Sez. 5, n. 52060 del 30 ottobre 2019, Angeli, Rv. 277753-01).

L'orientamento che ammette la prevalenza del sequestro preventivo funzionale alla confisca, diretta o per equivalente, del profitto dei reati tributari, prevista dall'art. 12-bis, comma primo, del d.lgs. n. 74 del 2000, è stato anche ritenuto in materia di concordato preventivo, essendo stato affermato che la misura cautelare reale de qua prevale sui diritti di credito vantati sul medesimo bene per effetto della ammissione al concordato preventivo, attesa l'obbligatorietà della misura ablatoria alla cui salvaguardia è finalizzato il sequestro, sul fondamentale rilievo che il rapporto tra il vincolo imposto dall'apertura della procedura concorsuale e quello discendente dal sequestro, avente ad oggetto un bene di cui sia obbligatoria la confisca, deve essere risolto a favore della seconda misura, prevalendo sull'interesse dei creditori l'esigenza di inibire l'utilizzazione di un bene intrinsecamente e oggettivamente "pericoloso", in vista della sua definitiva acquisizione da parte dello Stato (Sez. 3, n. 28077 del 9 febbraio 2017, Marcantonini, Rv. 270333-01).

4.3. Tornando al contenuto innovativo della pronuncia impugnata, il tribunale del riesame ha giustificato l'approdo conseguito anche sulla base di alcune disposizioni incorporate nel d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (codice della crisi di impresa e dell'insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155), ricordando, sia pure con la precisazione che di esse è stata differita la vigenza, come, da un lato, in via generale, il codice della crisi d'impresa all'art. 320 preveda espressamente la legittimazione del curatore alle impugnazioni de libertate avverso il decreto di sequestro e le relative ordinanze, dall'altro, sancisca all'art. 317 il principio di prevalenza delle misure cautelari reali e della disciplina della tutela dei terzi contenute nel Libro I, Titolo IV, del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 rispetto alle procedure concorsuali, limitando però tale prevalenza alle sole ipotesi di sequestro preventivo penale strumentale alla confisca disposto ai sensi dell'art. 321, comma 2, c.p.p. (tra cui rientrano, tra gli altri, i sequestri per reati fiscali) e, invece, escludendo, con alcune eccezioni, la prevalenza del sequestro preventivo penale "impeditivo" (art. 321, comma 1, c.p.p.) e, in toto, del sequestro penale conservativo (art. 316 c.p.p.) nonché stabilendo che i beni sequestrati all'impresa sottoposta a liquidazione giudiziale siano assoggettati alle disposizioni, anche procedimentali, previste per le confische di prevenzione, che estende a tutti i sequestri finalizzati alla confisca le disposizioni del codice antimafia.

Cosicché la nuova disciplina non sancisce una vera e propria soccombenza degli interessi creditizi al sequestro penale, posto che, in disparte le previsioni di cui agli artt. 318 e 319 del codice della crisi d'impresa che già limitano l'ambito di operatività dei vincoli penali, gli artt. 63 e 64 del d.lgs. n. 159 del 2011 rinviano, inoltre, agli artt. 52 e ss. del codice antimafia ossia a disposizioni che consentono una pur parziale soddisfazione delle pretese del ceto creditorio in buona fede e con un titolo che cronologicamente preceda l'applicazione della misura cautelare reale.

A questo proposito si pone pertanto la questione se le norme della l. n. 14 del 2019, delle quali sia stata differita l'entrata in vigore, possano e, in caso positivo, in quale misura, essere utilizzate dal giudice nell'ambito di una interpretazione logico-sistematica di altre norme dell'ordinamento.

Va allora ricordata la lezione interpretativa impartita dalla giurisprudenza di legittimità che - con orientamento non recente ma tuttora valido quantunque relativo a diversa fattispecie - ha affermato che la differita entrata in vigore di una legge agli effetti per cui essa è emanata non esclude che una norma definitoria contenuta nella stessa legge, venuta ad esistenza e a conoscenza con la sua promulgazione e pubblicazione, possa essere utilizzata ai fini dell'interpretazione di una norma, di immediata applicazione, contenuta in altra legge (Sez. 1, n. 2540 del 14 ottobre 1985, Marion, Rv. 171111-01; Sez. 1, n. 1726 del 31 maggio 1985, Ricci, Rv. 170057-01; Sez. 1, n. 645 del 7 marzo 1985, Bassano, Rv. 168615-01).

Precisato che la categoria delle norme definitorie è non solo riservata a quelle che costituiscono esplicazione di un termine utilizzato in altre disposizioni ma anche a quelle che assolvono il compito di dettare principi generali o definire la funzione di un determinato istituto, concorrendo perciò alla individuazione del contenuto di altri precetti che presuppongono il concetto o il principio da esse definito, va chiarito che la ratio del differimento delle disposizioni in parola si giustifica in forza dell'intima connessione di esse con i riti e le procedure prescritte dal codice della crisi d'impresa, che esige l'entrata in vigore simultanea di una serie di disposizioni tra loro strettamente collegate per il razionale funzionamento della nuova disciplina, che ha inaugurato un unico modello processuale per l'accertamento dello stato di crisi o dello stato di insolvenza il quale, pur dovendo ricalcare il procedimento per la dichiarazione di fallimento disciplinato dall'art. 15 della legge fallimentare, dovrà caratterizzarsi per particolare celerità.

Diversamente ragionando sarebbe del tutto privo di ragionevolezza e davvero incomprensibile il differimento dell'entrata in vigore di talune norme, comprese quelle di cui si discute, contenute nella l. n. 14 del 2019.

Anzi per queste specifiche disposizioni - alcune delle quali hanno un contenuto anche ricognitivo (artt. 317, comma 1, e 320), perché in linea con principi già fissati dall'ordinamento per altri analoghi fini, e perciò non dissonanti da esso, o meramente definitorie (art. 317, comma 2) - è evidente che l'esegesi deve arrestarsi con la presa d'atto del principio da esse fissato (a titolo esemplificativo: le misure cautelari reali di cui all'art. 321, comma 2, c.p.p. prevalgono sulle procedure concorsuali; il sequestro penale impeditivo prevale a determinate condizioni, in mancanza delle quali è subvalente rispetto alle procedure concorsuali; il sequestro conservativo è sempre subvalente a queste ultime) e non può comportare l'anticipata applicazione di riti o il mero rinvio ad altre disposizioni e procedure, posto che il differimento ha costituito la ratio essendi della posticipata vigenza di esse.

In buona sostanza, si tratta di utilizzare le norme "definitorie" contenute nel d.lgs. n. 14 del 2019 esclusivamente come tramiti interpretativi che consentono di convalidare un'interpretazione delle norme vigenti che già autonomamente sia in grado di supportare un determinato risultato esegetico.

Si può pertanto affermare che i rapporti tra le procedure concorsuali e le misure cautelari reali possono essere dedotti con interpretazione logico-sistematica, oltre che dalle norme già vigenti nell'ordinamento, anche dalla disciplina fissata dagli artt. 317 e ss. del d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (codice della crisi di impresa e dell'insolvenza in attuazione della legge 19 ottobre 2017, n. 155). Infatti, il ricorso immediato a tali norme, esclusivamente quale sussidio interpretativo ai fini delle norme dalle quali deve trarsi la disciplina dei rapporti, allo stato, tra "sequestro penale e fallimento", è consentito anche prima del 16 maggio 2022, termine previsto dal d.l. 24 agosto 2021, n. 118 per l'entrata in vigore degli artt. 317 e ss. d.lgs. n. 14 del 2019. Ne consegue che la differita entrata in vigore di una legge, agli effetti per cui essa è emanata, non esclude che una o più norme definitorie contenute nella stessa legge, venute ad esistenza e a conoscenza con la sua promulgazione e pubblicazione, possano essere utilizzate ai fini della interpretazione di norme vigenti contenute in altre leggi.

Il motivo di ricorso è pertanto infondato.

5. Sulla base delle precedenti considerazioni il ricorso deve essere rigettato e ciò comporta l'onere per il ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Depositata il 2 febbraio 2022.