Corte di cassazione
Sezione III penale
Sentenza 21 dicembre 2022, n. 384

Presidente: Di Nicola - Estensore: Magro

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 24 settembre 2020, il Tribunale di Nola ha condannato A. Valentina per i reati di cui agli artt. 44, lett. b), d.P.R. 380/2001 (capo a) e artt. 83 e 95 d.P.R. [cit.] e l.r. n. 9/1983 (capo b) per aver, in concorso con i committenti, nella qualità di proprietaria dell'immobile, realizzato una struttura in alluminio anodizzato e vetro a chiusura di una tettoia, senza il permesso di costruire ed omettendo di depositare gli atti progettuali presso lo sportello unico competente; fatti commessi in San Sebastiano al Vesuvio il 5 settembre 2017.

La pronuncia è stata confermata dalla Corte d'appello di Napoli con sentenza del 16 giugno 2022 in ordine alla responsabilità, che ha disposto tuttavia la sostituzione della pena detentiva di mesi tre di arresto con la pena pecuniaria di euro 6.750,00 di ammenda, così rideterminando la pena inflitta in complessivi euro 12.750,00 di ammenda.

2.1. Ricorre per cassazione il difensore dell'imputata A. Valentina deducendo, con il primo motivo, violazione di legge in ordine all'affermazione della responsabilità per i reati contestati in entrambi i capi d'accusa, poiché la ricorrente, sebbene formale intestataria dell'immobile sin dal 2015, aveva dimostrato di non essere la committente delle opere abusive, di non aver prestato alcun consenso né di avere interesse all'esecuzione di tali opere, deducendo, anzi, di esserne totalmente all'oscuro, posto che la realizzazione delle suddette opere abusive era avvenuta su iniziativa del padre, quando la ricorrente non risiedeva più nell'immobile da parecchi anni, essendo residente altrove con il coniuge sin dal 2011. Rappresenta che l'immobile le veniva trasferito a seguito di formale suddivisione familiare dei beni nel 2015, fermo restando che l'uso dell'immobile, nonché tutte le determinazioni ad esso relative, fosse rimasto unicamente in capo al padre. Pertanto, la ricorrente deduce erronea applicazione della legge penale, laddove il giudice di merito richiama la giurisprudenza di legittimità in materia di concorso doloso del proprietario non committente, nonché l'assenza di qualunque disposizione normativa che radichi in capo al proprietario dell'immobile un obbligo di impedimento del reato da altri commesso. A maggior ragione, deduce violazione di legge in relazione al capo b) della sentenza impugnata, in quanto la ricorrente, non essendo a conoscenza della realizzazione delle opere, neppure avrebbe potuto attivarsi per la produzione della documentazione progettuale presso l'ufficio competente. Afferma quindi l'insufficienza del solo titolo formale di proprietà a fondare la responsabilità penale.

2.2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce mancata assunzione di una prova decisiva e vizio della motivazione, rappresentando che il giudice di merito aveva ritenuto inattendibili le dichiarazioni rese dal padre e dal fratello in ordine alla sua totale estraneità alla realizzazione delle opere e alle decisioni prodromiche, inattendibilità affermata dal giudice solamente sulla base dello stretto vincolo parentale esistente con l'imputata.

2.3. Con il terzo motivo si lamenta violazione dell'art. 131-bis c.p., rappresentando di aver posto in essere prontamente la condotta riparatoria e la rimessione in pristino dello stato dei luoghi mediante abbattimento dell'abuso, circostanza che quanto meno riprova l'esiguità dello stesso, anche considerando le conseguenze sul carico urbanistico, trattandosi di struttura di alluminio a chiusura di una tettoia realizzata previo rilascio di autorizzazione paesaggistica, né assume rilevanza in senso ostativo alla concessione della causa di non punibilità la contestuale violazione di più norme incriminatrici, in quanto avvenuta nel medesimo contesto spazio-temporale.

Si chiede pertanto annullamento con o senza rinvio della sentenza impugnata.

3. Il Procuratore generale, dott. Domenico Seccia, con requisitoria scritta, ha chiesto declaratoria di inammissibilità del ricorso.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è fondato. In tema di sindacato del vizio di motivazione, il compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta dai giudici di merito, bensì di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Sez. un., 13 dicembre 1995, Clarke, Rv. 203428). Il sindacato del giudice di legittimità sulla motivazione del provvedimento impugnato deve pertanto essere volto a verificare che quest'ultima: a) sia "effettiva", ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia "manifestamente illogica", perché sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell'applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente "contraddittoria", ovvero sia esente da antinomie e da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o tra le affermazioni in essa contenute; d) non risulti logicamente "incompatibile" con "altri atti del processo", indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente, nei motivi posti a sostegno del ricorso, in misura tale da risultare radicalmente inficiata sotto il profilo logico (Sez. 1, n. 41738 del 19 ottobre 2011, Rv. 251516). Più in generale, occorre osservare come il giudice sia tenuto ad interrogarsi in merito alla plausibilità di spiegazioni alternative alla prospettazione accusatoria, qualora esse vengano additate dall'oggettività delle acquisizioni probatorie. La regola di giudizio compendiata nella formula dell'"al di là di ogni ragionevole dubbio" impone infatti al giudicante l'adozione di un metodo dialettico di verifica dell'ipotesi accusatoria, volto a superare l'eventuale sussistenza di dubbi intrinseci a quest'ultima, derivanti, ad esempio, da autocontraddittorietà o da incapacità esplicativa, o estrinseci, in quanto connessi, come nel caso in disamina, all'esistenza di ipotesi alternative dotate di apprezzabile verosimiglianza e razionalità (Sez. 1, n. 4111 del 24 ottobre 2011, Rv. 251507). Può infatti addivenirsi a declaratoria di responsabilità, in conformità al canone dell'«oltre il ragionevole dubbio», soltanto qualora la ricostruzione fattuale a fondamento della pronuncia giudiziale espunga dallo spettro valutativo soltanto eventualità remote, astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benché minimo riscontro nelle risultanze processuali, ponendosi al di fuori dell'ordine naturale delle cose e dell'ordinaria razionalità umana (Sez. 1, n. 17921 del 3 marzo 2010, Rv. 247449; Sez. 1, n. 23813 dell'8 maggio 2009, Rv. 243801; Sez. 1, n. 31456 del 21 maggio 2008, Rv. 240763). La condanna al di là di ogni ragionevole dubbio implica che, laddove venga prefigurata una ipotesi alternativa, siano individuati gli elementi di conferma della prospettazione fattuale accolta, in modo che risulti l'irrazionalità del dubbio derivante dalla sussistenza dell'ipotesi alternativa (Sez. 4, n. 30862 del 17 giugno 2011, Rv. 250903; Sez. 4, n. 48320 del 12 novembre 2009, Rv. 245879).

Obbligo che, nel caso sub iudice, non può dirsi adempiuto dalla Corte d'appello, che si è trincerata dietro l'apodittica affermazione secondo cui sussiste l'elemento soggettivo del reato e la sussistenza di un sostrato probatorio idoneo a valicare la soglia del ragionevole dubbio e a supportare adeguatamente la declaratoria di responsabilità, limitandosi a richiamare la pagina 9 della sentenza pronunciata dal primo giudice, ove si afferma che, considerato il contesto di vicinanza spaziale rispetto al luogo di realizzazione dell'abuso, e il vincolo strettissimo di parentela con gli altri coimputati, l'imputata non ha fornito elementi contrari da cui desumere la sua estraneità dei fatti, ovvero che le opere fossero realizzate a sua insaputa e senza la sua volontà.

Tanto premesso, occorre ricordare che, con riferimento alle censure formulate nel primo e secondo motivo di ricorso, l'individuazione del comproprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi e presunzioni gravi, precise e concordanti tali da indiziare la compartecipazione, anche morale, alla realizzazione del manufatto. In particolare, la giurisprudenza di legittimità ha ricostruito la responsabilità del proprietario non committente sulla scorta dei principi generali concernenti il concorso di persone nel reato, individuando precisi indici da cui desumere la sussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi del concorso, quantomeno morale, del proprietario alla realizzazione del manufatto. Si è quindi affermato che la prova della responsabilità del proprietario non committente delle opere abusive non può essere desunta esclusivamente dal dato formale costituito dal titolo proprietario, ma necessita di ulteriori elementi, sintomatici della sua compartecipazione. Tali criteri sono esemplificativamente: la piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo; l'interesse specifico ad edificare la nuova costruzione; i rapporti di parentela o affinità tra terzo esecutore materiale dell'opera e proprietario; la presenza del proprietario in loco e lo svolgimento di attività di vigilanza nell'esecuzione dei lavori; in caso di coniuge comproprietario, il regime patrimoniale dei coniugi; l'espletamento di pratiche amministrative, quale ad esempio la presentazione della domanda di condono edilizio; l'esecuzione di qualsiasi altra attività indicativa di una partecipazione alla costruzione illecita; la destinazione finale della costruzione (Sez. 3, n. 52040 dell'11 novembre 2014, Rv. 261522; Sez. 3, n. 38492 del 19 maggio 2016, Rv. 268014; Sez. 3, n. 49719 del 25 settembre 2019, Rv. 277469).

Pertanto, deve concludersi in diritto che la compartecipazione nel reato materialmente commesso da altri, comproprietario o committente, non possa essere desunta dalla mera qualità di proprietario, ma debba poggiare su una serie di elementi indizianti, primi tra tutti quello della disponibilità giuridica e di fatto della superficie su cui è stata realizzata l'opera e dell'interesse specifico ad effettuare la costruzione (principio del cui prodest), gravando a carico dell'interessato l'onere di allegare circostanze utili a convalidare la tesi che, nella specie, si tratti di opere realizzate da terzi a sua insaputa e senza la sua volontà (Sez. 3, n. 49719 del 25 settembre 2019, Rv. 277469, che richiama Sez. 3, n. 38492 del 19 maggio 2016, Avanzato, Rv. 268014; Sez. 3, n. 52040 dell'11 novembre 2014, Langella e altro, Rv. 261522; Sez. 3, n. 44202 del 10 ottobre 2013, Menditto, Rv. 257625; Sez. 3, n. 25669 del 30 maggio 2012, Zeno, Rv. 253065).

Ciò posto, deve rilevarsi che la sentenza impugnata non è affatto allineata ai principi dianzi menzionati, avendo fondato l'affermazione di responsabilità penale omettendo la valutazione di alcuni elementi fattuali che depongono in senso contrario, né ha fatto buon governo dei principi normativi e giurisprudenziali in tema di standard probatorio. Di talché, dal plesso argomentativo costituito dalla saldatura tra gli apparati motivazionali delle sentenze di primo e di secondo grado non si evince quale sia stato l'iter logico-giuridico esperito dai giudici di merito in ordine alla deduzione difensiva relativa alla carenza dell'elemento soggettivo del reato, alla luce dei criteri sintomatici della compartecipazione al reato esemplificativamente indicati dalla giurisprudenza.

In particolare, la corte territoriale non ha adeguatamente vagliato la sussistenza del criterio della disponibilità giuridica e fattuale del bene e il criterio dell'interesse specifico, nulla dicendo sul fatto che la ricorrente non avesse la disponibilità del bene immobile già in epoca antecedente all'acquisto della proprietà (avvenuta nel 2015) nonché antecedente all'epoca della realizzazione dell'abuso (avvenuta nel 2017): costei aveva ricevuto la formale proprietà dell'immobile in virtù di suddivisione familiare nel 2015, ma fin dal 2011 era residente con il marito altrove. Il giudice di merito ha erroneamente ritenuto sussistente la fattispecie sotto il profilo soggettivo, senza considerare che il bene immobile era rimasto nella disponibilità fattuale della famiglia di origine, e che la ricorrente ben poteva non essere a conoscenza dell'abuso edilizio realizzato. In proposito, conformemente alla suesposta giurisprudenza, deve ritenersi insufficiente il solo dato formale relativo alla proprietà e il legame familiare esistente tra il committente delle opere (il di lei padre e il di lei fratello) e la proprietaria, in assenza di altri ulteriori indici; i suddetti elementi sono infatti inidonei a fornire prova "oltre ogni ragionevole dubbio" della sussistenza del c.d. dolo di partecipazione, ovvero della conoscenza dell'esecuzione delle opere, posto che, all'atto del sopralluogo, la ricorrente non era in loco, né risulta che abbia vigilato sulla realizzazione dei lavori. Neppure può ritenersi che ricorra il criterio del cui prodest, posto che l'abuso è consistito nella chiusura di una tettoia al fine di rendere più fruibile il terrazzino e, pertanto, anche sotto il profilo del criterio della destinazione delle opere non possono trarsi elementi integrativi della colpa.

Erronea è quindi l'affermazione del giudice di merito laddove ritiene che l'imputata non abbia fornito la prova che le opere siano state realizzate a sua insaputa e senza la sua volontà, pur avendo dato atto della dichiarazione resa dal committente, nonché della acquisizione dei certificati di residenza storica e dell'atto di trasferimento della proprietà in favore della ricorrente.

Merita infine un cenno l'affermazione secondo la quale l'imputata fosse gravata dall'onere di prova in ordine all'impossibilità di poter impedire l'esecuzione delle opere. Si è infatti ritenuto insufficiente, per escludere il concorso nel reato, che il proprietario del terreno non abbia commissionato materialmente i lavori, essendo necessario qualcosa in più e, cioè, che dagli atti emerga che lo stesso non sia stato nelle condizioni di impedirne l'esecuzione (così questa Sez. 3, n. 33540 del 19 giugno 2012, Pmt in proc. Grillo ed altri, Rv. 253169; conforme Sez. 4, n. 19714 del 3 febbraio 2009, Izzo F., Rv. 243961). Si osserva che "l'omesso impedimento", in quanto condotta di natura omissiva, presuppone la possibilità materiale di attivarsi, ovvero, nel caso di specie, la disponibilità di fatto del bene, e non solo quella giuridica. Non è quindi conferente al caso di specie dimostrare che la proprietaria, che deduce in radice di essere stata all'oscuro della realizzazione dell'opera, non sia stata nelle condizioni di impedirne l'esecuzione. Mancano infatti le suddette "condizioni" per poter impedire l'abuso, ovvero la disponibilità della res e quindi la possibilità materiale di agire. Né questa Corte può ritenere corretta la previsione di un obbligo di impedire l'evento ai sensi dell'art. 40, comma 2, c.p., ponendo a carico del proprietario una così ampia posizione di garanzia; tale obbligo infatti è posto a carico del proprietario solo in caso di pericolo per l'incolumità pubblica, in caso di omissione di lavori in edifici o costruzioni che minaccino rovina, a norma della fattispecie omissiva propria di cui all'art. 677 c.p.

2. Si impone pertanto un pronunciamento rescindente sul punto. La natura rescindente di tale epilogo decisorio determina l'ultroneità della disamina dell'ulteriore motivo di ricorso. [L]a sentenza impugnata va quindi annullata e il giudice del rinvio, in applicazione dei principi di diritto in precedenza indicati, verificherà se vi siano elementi, ulteriori rispetto alla qualifica di proprietaria e alla residenza, dai quali ritenere comprovato, al di là di ogni ragionevole dubbio, il concorso nel reato della ricorrente con i committenti e le ragioni per le quali, al di là del mero rapporto di parentela, le dichiarazioni a discarico dei committenti siano state stimate compiacenti (perché, in ipotesi, generiche, di stile, contraddittorie ecc.), risultando altrimenti assertiva l'affermazione della loro certa inattendibilità.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Napoli.

Depositata il 10 gennaio 2023.

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