Corte di cassazione
Sezione V civile (tributaria)
Ordinanza 20 maggio 2025, n. 13358

Presidente: Fuochi Tinarelli - Relatore: Caradonna

RITENUTO CHE

1. La Commissione tributaria regionale ha rigettato l'appello proposto da T. Carmine, titolare della omonima ditta individuale, esercente «Attività degli Studi di Ingegneria», avverso la sentenza di primo grado che aveva respinto il ricorso avente ad oggetto un avviso di accertamento, con il quale era stato contestato l'utilizzo di fatture oggettivamente inesistenti per euro 671.670,00, con indebita detrazione Iva per euro 142.809,00, allo scopo di simulare un credito nei confronti dell'Erario per estinguere, mediante compensazione, la propria posizione debitoria per il successivo anno 2014.

2. I giudici di secondo grado, in particolare, hanno ritenuto che:

- la censura relativa al difetto di motivazione dell'avviso impugnato era infondata in quanto il contribuente aveva eccepito il difetto per la prima volta in appello e pertanto tale censura doveva ritenersi inammissibile d'ufficio poiché diretta ad ampliare il tema della decisione, introducendo ulteriori temi di indagine;

- il contribuente non aveva sufficientemente provato la sua estraneità al disegno criminoso laddove dalla stessa dichiarazione dei redditi presentata dal contribuente emergeva che erano state utilizzate fatture oggettivamente inesistenti ai fini dell'indebita compensazione dell'Iva;

- inoltre, il contribuente che si avvaleva dell'opera di un professionista per la presentazione della dichiarazione era tenuto ad un'attività di vigilanza e di controllo sull'operato di quest'ultimo, ed era il contribuente che era onerato della prova della propria assenza di colpa, per cui egli era chiamato a rispondere per l'illecito commesso dal professionista incaricato, ove non dimostrava, come era avvenuto nel caso in esame, di avere vigilato su di lui;

- non poteva assumere rilevanza, nella presente causa, la sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario emessa, con la formula «perché il fatto non sussiste», dal Tribunale di Frosinone poiché, anche se i fatti accertati in sede penale erano gli stessi alla base dell'accertamento nei confronti del contribuente, tale sentenza poteva, al più, avere rilevanza come fonte di prova.

3. T. Carmine ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a tre motivi e memoria, cui resiste l'Agenzia delle entrate con controricorso.

CONSIDERATO CHE

1. In via preliminare va disattesa l'eccezione di inammissibilità del controricorso sollevata dal ricorrente nella memoria depositata in atti, essendo stato rispettato il termine di quaranta giorni (venti più venti) risultante dall'art. 370 c.p.c. (Cass., 13 maggio 2010, n. 11619; Cass., 11 febbraio 2011, n. 3325).

1.1. Ed invero, il ricorso per cassazione è stato notificato in data 26 luglio 2024 e il controricorso è stato depositato telematicamente in data 7 ottobre 2024 (lunedì, primo giorno utile alla scadenza del termine di 40 giorni avvenuta il 5 ottobre 2024 che era sabato, con differimento del termine che viene a scadere di sabato ex art. 155 c.p.c., cfr. Cass., 16 novembre 2016, n. 23375; Cass., 16 novembre 2021, n. 34672 e, più di recente, Cass., 12 agosto 2024, n. 22696), nel rispetto dei termini di legge, ivi compreso il periodo di sospensione feriale (Cass., 20 marzo 2017, n. 7112, in motivazione; Cass., Sez. un., 13 dicembre 2017, n. 26087).

2. Il primo motivo deduce la violazione e falsa applicazione di legge (art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.). Nullità della sentenza per erronea applicazione dell'art. 57, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992. L'istante rilevava la palese illegittimità dell'avviso di accertamento per difetto di motivazione, in quanto fondato sull'errata ipotesi di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture oggettivamente inesistenti ex art. 2 del d.lgs. n. 74 del 2000, anziché sul presunto delitto di indebita compensazione di crediti inesistenti ex art. 10-quater dello stesso decreto. Nella circostanza la frode consisteva nell'utilizzare fatture realmente emesse da clienti del sedicente studio, delegato alla tenuta delle scritture contabili, a cui veniva modificato il nome del destinatario intestandole all'ingegnere Carmine T., per creare dei crediti inesistenti da utilizzare in compensazione. L'errore dell'ufficio nel configurare la fattispecie delittuosa sottostante l'avviso di accertamento aveva avuto conseguenze vessatorie nei confronti del contribuente anche in ordine all'applicazione delle sanzioni pecuniarie, in quanto erano state applicate le sanzioni dal 135% al 270% previste dall'art. 5, comma 4-bis, del d.lgs. n. 471 del 1997, mentre si sarebbero dovute applicare quelle dal 100% al 200% previste dall'art. 13, comma 5, dello stesso decreto. Il giudice di appello aveva ritenuto, errando, che le censure afferenti il difetto di motivazione fossero da considerarsi inammissibili in quanto proposte per la prima volta in appello ai sensi dell'art. 57, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, precisando che nel processo tributario non potevano essere proposte domande nuove, ma solo specificate quelle già contenute nel ricorso introduttivo. Nella delineata circostanza il motivo di impugnazione proposto da parte contribuente non rientrava nella ipotesi dello jus novorum previsto dall'art. 57, comma primo, del d.lgs. n. 546 del 1992, in quanto derivante dall'esito del procedimento penale a carico dello stesso contribuente emesso dal Tribunale di Latina successivamente al deposito dei ricorsi di merito: la Procura della Repubblica di Latina, infatti, nel richiedere l'archiviazione del procedimento a carico dell'ingegnere Carmine T. dichiarava che il reato di cui all'art. 10-quater del d.lgs. n. 74 del 2000 non era procedibile per ne bis in idem e che in ordine al delitto previsto all'art. 2 dello stesso decreto non esisteva alcuna prova, essendo il presunto reato da imputarsi non all'utilizzo di fatture oggettivamente inesistenti, ma, se mai, ad indebita compensazione di crediti inesistenti.

2.1. Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza della censura, nella parte in cui la società ricorrente non riporta il contenuto dell'avviso di accertamento in contestazione, neppure riassunto nel suo specifico contenuto, non consentendo così a questa Corte di esprimere il suo giudizio in proposito alla correttezza o meno della valutazione compiuta dalla Commissione tributaria regionale (Cass., 19 dicembre 2022, n. 37170; Cass., 28 giugno 2023, n. 18418, in motivazione).

Occorre rammentare, infatti, che, nell'ipotesi in cui il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria sotto il profilo del giudizio espresso in ordine alla motivazione di un avviso di accertamento, che non è atto processuale ma amministrativo (Cass., 3 dicembre 2001, n. 15234), è necessario, a pena di inammissibilità, che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto avviso che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi dal giudice di merito, al fine di consentire alla Corte di esprimere il suo giudizio in proposito esclusivamente in base al ricorso medesimo (ex multis, Cass. 13 febbraio 2014, n. 3289).

3. Il secondo motivo deduce la violazione e falsa applicazione di legge e omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio (art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c.). La sezione penale del Tribunale di Frosinone con sentenza n. 369/2023, depositata in data 15 marzo 2023, aveva assolto l'ingegnere Carmine T., in concorso con il dott. Marco D.V., dai reati previsti agli artt. 2 e 10-quater del d.lgs. n. 74/2000 «perché il fatto non sussiste»; conseguentemente, essendo i presupposti su cui si fondava l'avviso di accertamento gli stessi su cui si era pronunciato il giudice penale, non si poteva non ritenere l'autorità di cosa giudicata della suddetta sentenza del Tribunale di Frosinone nei confronti del processo tributario. Nella circostanza non si configurava una automatica ed acritica estensione del giudicato penale a quello tributario bensì una ipotesi di logica e conseguente valutazione degli eventi occorsi, in quanto i fatti in merito ai quali si era pronunciato il giudice penale erano i medesimi su cui si controverteva in materia tributaria; l'efficacia vincolante del giudicato penale, inoltre, si produceva tanto più in casi come questo dove la direzione provinciale di Frosinone era stata parte nel giudizio penale. In estrema sintesi se il presupposto dell'avviso di accertamento, emesso dall'ufficio, era costituito da un presunto concorso tra l'ingegnere T. ed il dott. D.V. teso - attraverso più azioni appartenenti allo stesso disegno criminoso - ad eludere il versamento delle imposte utilizzando in compensazione crediti inesistenti, venendo meno il suddetto presupposto criminoso a seguito di sentenza passata in giudicato «perché il fatto non sussiste», doveva conseguentemente venir meno lo stesso avviso di accertamento. Sul punto oltre ad aver richiamato il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, non ultima la sentenza della Cassazione n. 25632 del 2021, si era fatto riferimento alla legge-delega per la riforma fiscale del 2024 [art. 20, comma 1, lett. a), n. 3), della legge-delega per la riforma fiscale n. 111 del 2023]. Il giudice di appello, eludendo le deduzioni di parte contribuente, aveva affermato che la sentenza irrevocabile di assoluzione in sede penale non poteva essere presa in considerazione nel procedimento tributario in quanto non esisteva alcun automatismo in tal senso; né tanto meno poteva essere richiamata la delega fiscale del Governo in assenza dei decreti attuativi previsti dall'art. 20 della l. n. 111 del 2023.

3.1. Il motivo è inammissibile innanzi tutto perché non si confronta con il contenuto del provvedimento impugnato, laddove i giudici di secondo grado hanno affermato che la valutazione dei fatti accertati nella sentenza di assoluzione emessa dal Tribunale di Frosinone presupponeva l'irrevocabilità della sentenza richiamata, circostanza che, tuttavia, non risultava agli atti (cfr. pag. 5 della sentenza impugnata). Peraltro, anche la sentenza penale depositata nel presente giudizio è priva della data di irrevocabilità.

3.2. Il motivo è pure inammissibile per un secondo profilo.

3.3. Ed invero, questa Corte ha precisato che la deduzione nel giudizio di cassazione deve tenere conto dei principi che regolano il processo di legittimità, in primo luogo il principio di chiarezza e specificità e che il mancato rispetto del dovere di chiarezza e sinteticità esprime un principio generale del diritto processuale, oggi espressamente recepito nell'art. 366, primo comma, nn. 3 e 4, c.p.c., restandone pregiudicata l'adeguata intellegibilità delle questioni ove renda oscura l'esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata, con conseguente inammissibilità della doglianza (Cass., 13 febbraio 2023, n. 4300; Cass., Sez. un., 30 novembre 2021, n. 37552; Cass., 21 marzo 2019, n. 8009; cfr. anche Cass., 14 febbraio 2025, n. 3800).

3.4. Ne consegue che la mera allegazione che la sentenza penale ha assolto la parte (con una delle formule rilevanti) e che essa riguardava i medesimi fatti oggetto del giudizio tributario (come nel caso in esame) non può considerarsi sufficiente, essendo necessario che siano indicati gli specifici fatti ed elementi - oggetto di puntuale accertamento nella sentenza penale - rispetto ai quali viene ravvisata l'identità e per i quali, dunque, viene invocato il giudicato.

4. Il terzo motivo deduce l'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio (art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.). La sentenza impugnata, inoltre, aveva omesso di pronunciarsi sulla eccezione di controparte concernente la non riconducibilità al ricorrente delle operazioni accertate da parte dell'ufficio, configurando una grave lesione dell'art. 112 c.p.c., recante il principio di corrispondenza tra «chiesto e pronunciato» a cui il codice del processo tributario espressamente rimandava. Il giudice di appello riconduceva le tesi difensive del contribuente ad una mera dichiarazione di estraneità dei fatti da parte dello stesso e ad una denuncia querela senza seguito, non considerando, invece, le prove emerse a seguito della chiusura delle indagini da parte della Guardia di finanza. Come emergeva dal verbale di interrogatorio della Guardia di finanza il ricorrente aveva corrisposto ai professionisti incaricati alla tenuta delle scritture contabili la somma di euro 50.000,00, parte in contante e parte in assegni, per provvedere alla estinzione di alcune posizioni debitorie nei confronti dell'Agenzia della riscossione. I richiamati professionisti, incassate le somme, avevano provveduto alla estinzione dei debiti senza utilizzare l'ammontare corrisposto dal ricorrente, ma attraverso la compensazione dei suddetti debiti con un falso credito d'imposta artificialmente creato utilizzando fatture oggettivamente inesistenti. Un'ulteriore circostanza che confermava la estraneità del ricorrente dai fatti contestati non considerata nelle motivazioni della sentenza impugnata riguardava la deposizione rilasciata da un funzionario dell'Agenzia delle entrate, ascoltato come teste nell'udienza del 5 giugno 2019 presso il Tribunale di Frosinone, che aveva riconosciuto esplicitamente il ruolo di ideatore della truffa al dott. D.V. (collaboratore del dott. Raffaele R.), in quanto da riscontri presso l'anagrafe tributaria era risultato che tutte le fatture ritenute oggettivamente inesistenti facevano capo a clienti per i quali il suddetto professionista risultava depositario delle scritture contabili; inoltre, altro particolare non trascurabile era costituito dal fatto che tutte le fatture contestate riportavano la stessa firma verosimilmente riconducibile al dott. D.V.

4.1. Il motivo è inammissibile in relazione all'omesso esame di fatto decisivo, in costanza del principio della c.d. doppia conforme ex art. 348-ter c.p.c. e non avendo la parte attuale ricorrente specificato in ricorso le ragioni di fatto poste rispettivamente a fondamento della decisione di primo grado e di secondo grado, così dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. 20 marzo 2024, n. 7442; Cass., 20 settembre 2023, n. 26934; Cass., 28 febbraio 2023, n. 5947; Cass., 9 marzo 2022, n. 7724; Cass., 26 gennaio 2021, n. 1562; Cass., 11 maggio 2018, n. 11439); inoltre, la giurisprudenza di questa Corte è ormai consolidata nell'affermare che il novellato testo dell'art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. ha introdotto nell'ordinamento un vizio specifico che concerne l'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che, oltre ad avere carattere decisivo, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti; che l'omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie e che neppure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito dà luogo ad un vizio rilevante ai sensi della predetta norma (Cass., 23 agosto 2023, n. 25124; Cass., Sez. un., 27 dicembre 2019, n. 34476; Cass., Sez. [un.], 7 aprile 2014, n. 8053).

4.2. Il motivo, poi, laddove censura la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato è infondato, avendo i giudici di secondo grado affermato che il contribuente che si avvaleva dell'opera di un professionista per la presentazione della dichiarazione era tenuto ad un'attività di vigilanza e di controllo sull'operato di quest'ultimo, ed era il contribuente che era onerato della prova della propria assenza di colpa, per cui egli era chiamato a rispondere per l'illecito commesso dal professionista incaricato, ove non dimostrava, come era avvenuto nel caso in esame, di avere vigilato su di lui (cfr. pag. 5 della sentenza impugnata).

4.3. Ciò, peraltro, conformemente alla giurisprudenza di questa Corte che, avuto riguardo alla responsabilità del professionista incaricato degli adempimenti tributari, con un orientamento consolidato, ha precisato che «In tema di sanzioni amministrative tributarie, l'esimente di cui all'art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 472 del 1997 si applica in caso di inadempimento al pagamento di un tributo imputabile esclusivamente ad un soggetto terzo, purché il contribuente abbia adempiuto all'obbligo di denuncia all'autorità giudiziaria e non abbia tenuto una condotta colpevole ai sensi dell'art. 5, comma 1, del detto decreto, nemmeno sotto il profilo della culpa in vigilando. Ne consegue che l'applicabilità di detta esimente deve essere esclusa laddove, pur in presenza di denuncia all'autorità giudiziaria del fatto imputabile al terzo, il contribuente non dia anche prova in ordine all'assolvimento a monte dell'obbligo di vigilanza sul puntuale e corretto adempimento del mandato da parte dell'intermediario» (Cass., 5 dicembre 2022, n. 35612) e che «Il contribuente, in caso di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi attribuibile al professionista "infedele", deve fornire la prova, non solo dell'attività di vigilanza e controllo in concreto esercitata sull'operato di questi, facendosi anche consegnare le ricevute telematiche dell'avvenuta presentazione della dichiarazione, ma anche del comportamento fraudolento del professionista, finalizzato proprio a mascherare il proprio inadempimento all'incarico ricevuto, quindi anche mediante falsificazione di modelli F24 di pagamento delle imposte o delle ricevute di ricezione delle dichiarazioni telematiche o attraverso altre modalità di difficile riconoscibilità da parte del mandante» (Cass. 20 luglio 2018, n. 19422; Cass., 11 aprile 2018, n. 8914; Cass., 17 marzo 2017, n. 6930; Cass., 9 giugno 2016, n. 11832; Cass., 18 dicembre 2015, n. 25580).

4.4. Il contribuente, dunque, non assolve agli obblighi tributari con il mero affidamento ad un commercialista del mandato a trasmettere in via telematica la dichiarazione alla competente Agenzia delle entrate, essendo egli sempre tenuto a vigilare, affinché tale mandato sia puntualmente adempiuto, sicché la sua responsabilità è esclusa solo se viene provato un comportamento fraudolento del professionista, finalizzato a mascherare il proprio inadempimento (Cass., 9 giugno 2016, n. 11832).

4.5. Ciò posto, la Commissione tributaria regionale si è attenuta ai suindicati principi, in quanto ha accertato, con una verifica in fatto non censurabile in sede di legittimità, che il contribuente non aveva dimostrato, in concreto, la condotta fraudolenta del commercialista, al di là della denuncia penale operata nei suoi confronti (cfr. pag. 5 della sentenza impugnata) e che, dunque, non aveva indicato elementi concreti da cui desumere che il comportamento del professionista fosse stato fraudolento ed idoneo ad impedire alla società contribuente di vigilare sulla corretta esecuzione dell'incarico.

5. Per le ragioni di cui sopra, il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali, sostenute dalla Agenzia controricorrente e liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della Agenzia controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.900,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, ove dovuto.