Corte di cassazione
Sezioni unite penali
Sentenza 26 settembre 2019, n. 21368

Presidente: Carcano - Estensore: Tardio

RITENUTO IN FATTO

1. Il Giudice della udienza preliminare del Tribunale di Reggio Emilia, con sentenza emessa il 9 novembre 2017, ha applicato, ai sensi dell'art. 444 c.p.p., a Gianina Alina S., Gjin N. e Viktor N., la pena concordata di anni quattro di reclusione e di euro diciottomila di multa per il delitto di cui all'art. 73, comma 1, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, contestato a tutti gli imputati quanto alla detenzione di 527,5 grammi di sostanza stupefacente del "tipo cocaina" (sub b) e, al solo Viktor N., anche in relazione alla cessione di 3,18 grammi di sostanza stupefacente del "tipo verosimilmente cocaina" (capo a).

Con la stessa sentenza gli imputati sono stati dichiarati interdetti dai pubblici uffici per cinque anni, nei loro confronti è stata ordinata l'espulsione dal territorio dello Stato a pena espiata ai sensi dell'art. 86 d.P.R. n. 309 del 1990 e, infine, è stata disposta, oltre alla distruzione della sostanza stupefacente in sequestro, la confisca, ex art. 12-sexies d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla l. 7 agosto 1992, n. 356, del denaro in sequestro in considerazione della sua sproporzione rispetto al reddito di Viktor N. e Gjin N., entrambi, per loro ammissione, disoccupati e privi di "beni di fortuna".

2. Avverso detta sentenza, depositata in udienza con motivazione contestuale, hanno proposto ricorso per cassazione tutti gli imputati.

2.1. Gianina Alina S., ricorrendo per mezzo del suo difensore, ha chiesto l'annullamento della sentenza in relazione alla disposta applicazione della misura di sicurezza della espulsione, articolando due motivi, con i quali ha denunciato, rispettivamente, violazione di legge e mancanza e illogicità della motivazione.

Secondo la ricorrente, il Giudice, omettendo di osservare il dettato normativo dell'art. 86 d.P.R. n. 309 del 1990, sì come inciso dall'intervento della Corte costituzionale che, con sentenza n. 58 del 1995, lo ha dichiarato parzialmente incostituzionale, ha ordinato di ufficio la sua espulsione a pena espiata senza accertare la sussistenza della pericolosità sociale e indicare in sentenza i relativi presupposti, limitandosi a richiamare la sua attuale posizione cautelare e, illogicamente, trascurando di apprezzare le autorizzazioni concessele per svolgere attività lavorativa esterna e il suo serbato rispetto delle prescrizioni imposte, oltre alla sua incensuratezza e alla confessione resa, pur valorizzate ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche.

2.2. Gjin N. e Viktor N. hanno proposto ricorso, a mezzo del comune difensore, con unico atto, chiedendo l'annullamento della sentenza sulla base di due comuni motivi.

Con il primo motivo hanno denunciato violazione di legge in relazione all'art. 129 c.p.p. e vizio di motivazione, rappresentando che il giudice aveva omesso di svolgere l'operazione preliminare demandatagli, tesa a riscontrare l'eventuale ricorrenza di cause di non punibilità giustificative del loro proscioglimento, ovvero non aveva adeguatamente motivato la loro non ritenuta sussistenza.

Con il secondo motivo hanno dedotto violazione di legge in relazione agli artt. 234 c.p.p. e 12-sexies l. n. 356 del 1992 e mancanza di motivazione in ordine alla confisca del denaro in sequestro, dolendosi della omessa acquisizione di documentazione, rappresentata da due dichiarazioni rese davanti a un notaio in Albania dal fratello e dal cugino di essi stessi e da una ricevuta bancaria, dimostrative della liceità della provenienza del denaro in sequestro, e del mancato adempimento da parte del giudice dell'obbligo di motivare sulle ragioni della confisca, disposta in termini del tutto generici, nonostante la non estensibilità al provvedimento di confisca della sinteticità della motivazione della sentenza di applicazione della pena.

2.3. Con successivo atto, sottoscritto dal medesimo difensore, Gjin N. e Viktor N., hanno dedotto un ulteriore motivo, opponendo l'errata applicazione dell'art. 86 d.P.R. n. 309 del 1990 e l'omessa motivazione in ordine alla misura di sicurezza della espulsione, disposta con la sentenza impugnata senza un previo accertamento della sussistenza in concreto della loro pericolosità sociale e senza l'obbligatoria verifica, alla luce delle richiamate norme interne e pattizie e delle illustrate pronunce costituzionali, delle loro condizioni di vita individuale, familiare e sociale.

2.4. La ricorrente Gianina Alina S. ha presentato il 19 dicembre 2018 motivi nuovi, con i quali, premesso in fatto di essere libera dal 5 ottobre 2018 in dipendenza della disposta revoca della misura degli arresti domiciliari e reiterata la denunciata carenza della motivazione quanto alla sua ritenuta pericolosità sociale, ha eccepito la illegittimità costituzionale dell'art. 19, comma 2, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, e dell'art. 86, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990 per contrasto con gli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., e dell'art. 86 anche in relazione all'art. 4 Cost.

3. Con ordinanza del 29 aprile 2019 la Sezione Sesta penale ha rimesso la decisione dei ricorsi alle Sezioni unite a norma dell'art. 618 c.p.p.

3.1. La Sezione rimettente - movendo dal rilievo che, a norma dell'art. 448, comma 2-bis, c.p.p., introdotto dall'art. 1, comma 50, l. 23 giugno 2017, n. 103, «il pubblico ministero e l'imputato possono proporre ricorso per cassazione contro la sentenza [di patteggiamento] solo per motivi attinenti all'espressione della volontà dell'imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all'erronea qualificazione giuridica del fatto e all'illegalità della pena e della misura di sicurezza» - ha rilevato profili di inammissibilità dei ricorsi con riferimento al vizio di motivazione in ordine alle statuizioni "esterne" al patto, ovvero non comprese nell'accordo sottostante, e relative ai punti della sentenza riguardanti le disposte misure di sicurezza - personale e patrimoniale - della espulsione dal territorio dello Stato e della confisca del denaro in sequestro.

3.2. Secondo un orientamento già sviluppatosi nella giurisprudenza di legittimità, dalla interpretazione testuale, sistematica e logica dell'art. 448, comma 2-bis, c.p.p., coerente con l'analisi dei lavori preparatori e compatibile con i ripercorsi parametri costituzionali e convenzionali, deve trarsi la conclusione della inammissibilità del sindacato sulla motivazione, nelle differenti declinazioni previste dall'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., essendo i casi e i punti impugnabili individuati «in modo tassativo e derogatorio rispetto a quelli generali» dal regime di impugnazione specifico per la sentenza di applicazione di pena concordata (Sez. 6, n. 3819 del 19 dicembre 2018, Boutamara).

3.3. La Sezione Sesta, sviluppando le questioni relative al contenuto e alla valenza dell'accordo tra le parti nella sentenza di "patteggiamento", alla tutela dei diritti e alla compatibilità costituzionale della unicità del regime di impugnazione sostenuta dal ridetto orientamento, ha rappresentato l'esistenza di almeno due opzioni interpretative alternative, capaci di conformare maggiormente il dato normativo sia ai principi costituzionali sia alla natura pattizia del rito.

Secondo la prima opzione (recepita da Sez. 3, n. 4252 del 15 gennaio 2019, Caruso), il vizio di omessa o apparente motivazione relativo all'applicazione della misura di sicurezza è deducibile in sede di legittimità in quanto configura un'ipotesi di illegalità della misura di sicurezza, rilevante come violazione di legge a norma dell'art. 111, comma 7, Cost.

In tal modo, sul presupposto che «la nozione di misura di sicurezza illegale è più ampia di quella di pena illegale e ricomprenderebbe anche quella di misura di sicurezza illegittima, cioè disposta in violazione dei presupposti e dei limiti stabiliti dalla legge», l'art. 448, comma 2-bis, c.p.p. avrebbe un ambito applicativo onnicomprensivo e riferibile a tutte le statuizioni, ricettive dell'accordo ovvero ad esso esterne.

Tale opzione, tuttavia, mentre si fa carico dei profili critici conseguenti al primo orientamento, suppone, ove recepita, chiarimenti sia in ordine alle ragioni della diversa ampiezza della nozione di illegalità della misura di sicurezza rispetto a quella della pena e alla sua attinenza anche alla illegittimità della misura di sicurezza, sia in ordine alla eventuale rivisitazione della nozione di illegalità della pena e ai riflessi sul tema della inammissibilità del ricorso per cassazione.

La seconda possibile opzione - non contrastante con l'art. 448, comma 2-bis, c.p.p. e compatibile con la rinuncia ai diritti e alle garanzie implicata dalla scelta dell'imputato di definizione della sua vicenda processuale con il "patteggiamento" e con la volontà legislativa di limitare le impugnazioni pretestuose - è fondata sulla distinzione tra le statuizioni che recepiscono il patto e quelle esterne all'accordo e sulla conformazione del potere di impugnazione sul tipo di statuizione e sul suo rapporto con il contenuto del patto (in tal senso, Sez. 3, n. 30064 del 23 maggio 2018, Lika; Sez. 4, n. 22824 del 17 aprile 2018, Daouk).

Premesso il possibile inserimento nel patto di eventuali profili ulteriori (misure di sicurezza) rispetto al suo oggetto essenziale, su cui la Corte di cassazione si è più volte espressa in senso favorevole pur chiarendo che il giudice non è obbligato da tale inclusione, la sentenza che recepisce l'accordo a contenuto complesso, esteso a tali statuizioni esterne, mentre non comporta l'onere del giudice di specifica motivazione sul punto, è impugnabile, secondo tale opzione, solo nei limiti previsti dall'art. 448, comma 2-bis, c.p.p.

Invece, il giudice, nell'ipotesi in cui non recepisca l'accordo anche nella parte accessoria o disponga una misura di sicurezza, personale o patrimoniale, sulla quale nulla si è convenuto tra le parti, ha un onere di motivazione specifica e il potere di impugnazione non può non ricomprendere anche il sindacato sulla motivazione del provvedimento, secondo la norma generale di cui all'art. 606, comma 1, c.p.p.

3.4. Profilandosi potenzialmente un contrasto sulla base del complesso dei rilievi svolti, la Sezione rimettente ha ritenuto necessario sottoporre alle Sezioni unite la questione dell'ammissibilità del ricorso per cassazione - alla luce del disposto dell'art. 448, comma 2-bis, c.p.p. - contro la sentenza di applicazione di pena su richiesta, ove sia dedotto il vizio di motivazione in ordine all'applicazione di misura di sicurezza, personale o patrimoniale.

4. Con decreto del 10 maggio 2019 il Presidente aggiunto della Corte di cassazione ha assegnato i ricorsi alle Sezioni unite penali ai sensi dell'art. 610, comma 2, c.p.p., fissando per la trattazione in camera di consiglio ai sensi dell'art. 611 c.p.p. l'udienza del 18 luglio 2019, poi differita all'udienza odierna.

5. Il 30 agosto 2019 il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta, sostenendo la tesi della ricorribilità per cassazione, secondo i parametri previsti dall'art. 606, commi 1 e 2, c.p.p., della sentenza di "patteggiamento" per tutto ciò che «è rimasto estraneo all'atto pattizio, come le misure di sicurezza, o non condiviso dal giudice», mentre il richiamo alla illegalità della misura di sicurezza individuerebbe i limiti della impugnazione, secondo lo statuto speciale, quando la stessa avesse formato oggetto di accordo ratificato dal giudice, e concludendo, nella specie, per l'ammissibilità e la fondatezza dei ricorsi in relazione ai motivi riguardanti la confisca e l'ordine di espulsione degli imputati e per l'annullamento della sentenza in relazione ai relativi capi, non determinanti, in quanto autonome statuizioni del giudice, per la validità dell'accordo ex art. 444 c.p.p.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. La questione di diritto per la quale i ricorsi sono stati assegnati alle Sezioni unite è la seguente: «se l'art. 448, comma 2-bis, c.p.p., come introdotto dall'art. 1, comma 50, della l. n. 103 del 2017, osti all'ammissibilità del ricorso per cassazione contro la sentenza di applicazione concordata della pena con cui si deduca il vizio di motivazione in ordine all'applicazione di misura di sicurezza, personale o patrimoniale».

2. La disamina della indicata questione, strettamente attinente all'ambito applicativo del vigente art. 448, comma 2-bis, c.p.p., introdotto dalla l. 23 giugno 2017, n. 103, e all'ammissibilità del ricorso per cassazione che, per vizio di motivazione, attinga la statuizione relativa all'applicazione di una misura di sicurezza, contenuta nella sentenza di "patteggiamento", richiede una sintetica ricognizione del quadro normativo di riferimento, che sarà in seguito ripreso.

È sufficiente annotare allo stato che, antecedentemente alla indicata legge, il regime delle impugnazioni era regolato dal principio dettato dall'art. 448, comma 2, c.p.p., alla cui stregua la sentenza di applicazione della pena è inappellabile, salva la sua appellabilità da parte del pubblico ministero dissenziente, e dal principio generale, desumibile dall'art. 568, comma 2, c.p.p., della ricorribilità per cassazione, ex art. 606, comma 2, c.p.p., delle sentenze non altrimenti impugnabili.

L'art. 448, comma 2-bis, c.p.p., invece, positivizzando la disciplina della ricorribilità per cassazione della ridetta sentenza, dispone che il pubblico ministero e l'imputato possono proporre ricorso «solo per motivi attinenti all'espressione della volontà dell'imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all'erronea qualificazione giuridica del fatto e all'illegalità della pena o della misura di sicurezza», correlando i previsti motivi a specifiche ipotesi, attinenti al contenuto dell'accordo ovvero della sentenza, e segnatamente alla legittima formazione dell'accordo e al suo esatto recepimento in sentenza, alla correttezza delle norme cui sono riferite le fattispecie concrete e al rispetto del canone della legalità della pena e della misura di sicurezza eventualmente applicata.

3. Con riguardo alla questione devoluta si contrappongono distinti orientamenti della giurisprudenza di legittimità, dei quali deve darsi conto, considerando anche le diversità degli approcci argomentativi delle pronunce emesse.

3.1. Un primo orientamento, che esclude l'ammissibilità del ricorso per cassazione con il quale si deduca un vizio della motivazione della sentenza di "patteggiamento" quanto all'applicazione delle misure di sicurezza, è sostenuto, nell'ambito di un'articolata motivazione, da una decisione intervenuta con riferimento a fattispecie in cui, applicata la pena concordata tra le parti per il reato di cessione e detenzione di cocaina, era stata disposta la confisca "facoltativa" di cui all'art. 240, primo comma, c.p., del denaro, ritenuto «provento di detto spaccio» (Sez. 6, n. 3819 del 19 dicembre 2018, dep. 2019, Boutamara, Rv. 274962).

Con detta decisione, esclusa l'ipotesi della illegalità della disposta confisca, denunciata perché non prevista dalla legge, si ritiene inammissibile, per non essere consentita nel giudizio di legittimità, ai sensi dell'art. 448, comma 2-bis, c.p.p., la censura di inadeguata motivazione circa l'illecita provenienza del denaro confiscato e la sproporzione tra il valore dei beni posseduti e il reddito dichiarato.

Tale esito è imposto, si legge nella sentenza, da convergenti ragioni di natura testuale, sistematica e logica, coerenti con i parametri costituzionali e convenzionali.

Una diversa interpretazione, che considerasse ammissibile il ricorso per cassazione per vizio di motivazione rispetto a una statuizione, come quella in punto di confisca, estranea all'accordo sull'applicazione della pena, con "recupero" dei motivi di ricorso previsti in via generale, si risolverebbe in una interpretatio abrogans della suddetta norma, «rievocando obblighi di motivazione e correlati mezzi di ricorso vigenti precedentemente alla riforma, che - invece - ha voluto accomunare l'illegalità della pena a quella della confisca limitando espressamente il ricorso per cassazione a dette ipotesi, nell'ambito di una tassatività già affermata dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3, n. 45559 del 7 marzo 2018, P., Rv. 273950)».

La proposta interpretazione trova fondamento anche nel dato esegetico dei lavori preparatori, in correlazione con la ratio dell'art. 14 dell'originario disegno di legge, poi confluito nell'art. 1, comma 50, l. n. 103 del 2017, introduttivo del comma 2-bis dell'art. 448 c.p.p.

Tale ratio - individuata dalla «Relazione governativa di accompagnamento del d.d.l.» (A.C. 2798 - XVII Legislatura) nel giudizio di non meritevolezza dell'«attuale troppo ampia ricorribilità per cassazione» della sentenza di applicazione della pena per il verificato largo esito di inammissibilità dei ricorsi - rivela, infatti, la ragionevolezza della limitazione del ricorso per cassazione avverso le sentenze di "patteggiamento" nel dichiarato intento del legislatore di scoraggiare i ricorsi defatigatori e di «accelerare la formazione del giudicato».

Inoltre, in logica coerenza con il principio di legalità, che, «enunciato per le misure di sicurezza dall'art. 199 c.p. e sistematicamente composto con quello della legalità della pena, di cui all'art. 1 c.p., nella previsione di cui all'art. 25, secondo comma, Cost.», permea l'intero sistema penale, la illegalità della misura di sicurezza, mutuando i criteri elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di illegalità della pena, riguarda la sua «radicale estraneità a sistema [...] per mancanza di elementi di struttura rispetto al modello tipico applicabile al caso concreto», mentre il vizio di motivazione evoca una causa di illegittimità della misura applicata in assenza dei presupposti giustificativi.

L'illegalità della misura di sicurezza si atteggia, pertanto, quale presupposto logico di ogni censura della motivazione della sentenza di "patteggiamento" sul relativo punto della decisione, che non è deducibile se non «accompagnata alla plausibile prospettazione di quella specifica violazione di legge penale - evocata nel comma 2-bis dell'art. 448 e sopra descritta - rappresentata dalla illegalità dell'applicata misura di sicurezza».

Da ultimo, le enunciate ragioni, nello sviluppo argomentativo della sentenza, sono ritenute coerenti con i principi costituzionali e convenzionali.

Si osserva, infatti, che, anche in ragione della previsione di una specifica disciplina transitoria per l'art. 448, comma 2-bis, c.p.p., la soluzione individuata è in linea con l'art. 111, commi 6 e 7, Cost. ed è «conforme alle esigenze di tutela del diritto di difesa e di rispetto dei principi dell'equo processo, di cui agli artt. 3, 24 e 111, comma 2, Cost. e art. 6 della Convenzione EDU, anche con specifico riferimento ai parametri di ragionevolezza, proporzionalità e ragionevole durata del processo».

Con riferimento alle garanzie dell'equo processo e del doppio grado di giurisdizione, l'arresto di legittimità, che si ripercorre, si sofferma in via conclusiva sulla giurisprudenza della Corte EDU, che ha ritenuto che la rinuncia da parte dell'imputato a una serie di diritti e garanzie procedurali, conseguente alla richiesta di "patteggiamento", faccia apparire ragionevole, ove accompagnata da garanzie minime commisurate alla sua importanza e non contrarie al pubblico interesse, la mancata previsione della possibilità di ricorrere a un giudice superiore (tra le altre, Corte EDU, GC, 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia, § 135-136; Corte EDU, GC, Hermi c. Italia, 18 ottobre 2006, § 73; Corte EDU, GC, Poitrimol c. Francia, 23 novembre 1993, § 31).

In questo orientamento si collocano anche Sez. 6, n. 5875 del 19 dicembre 2018, dep. 2019, Chtibi, non mass., e Sez. 6, n. 7630 del 19 dicembre 2018, dep. 2019, Fall, Rv. 275210, che hanno ribadito, in fattispecie analoghe, il ridetto percorso logico e sono pervenute alle stesse conclusioni di inammissibilità del motivo relativo alla inadeguata motivazione, con sentenza di "patteggiamento", della disposta confisca (nello stesso senso, anche Sez. 1, n. 21407 del 19 marzo 2019, Scaglione, non mass.).

3.2. L'opposto orientamento, favorevole alla ricorribilità per cassazione per vizio della motivazione della sentenza di "patteggiamento" in ordine all'applicazione di misure di sicurezza, personali o patrimoniali, giunge a tale conclusione sulla base di differenti impostazioni ermeneutiche, fondate rispettivamente sulla elaborazione della nozione di illegalità della misura di sicurezza e sulla distinzione tra le statuizioni che recepiscono il patto relativo all'applicazione della pena e quelle esterne all'accordo.

La prima opzione ritiene l'ammissibilità del ricorso per cassazione per la riconducibilità della mancata o apparente motivazione circa l'applicazione della misura di sicurezza alla nozione di illegalità, rilevante come «violazione di legge» ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost. (Sez. 3, n. 4252 del 15 gennaio 2019, Caruso, Rv. 274946-01).

Secondo tale impostazione, la nozione di illegalità della misura di sicurezza non è determinabile utilizzando i medesimi parametri elaborati dalla giurisprudenza per individuare il significato della nozione di pena illegale (in particolare, Sez. un., n. 40986 del 19 luglio 2018, Pittalà, non mass. sul punto, e Sez. un., n. 33040 del 26 febbraio 2015, Jazouli, Rv. 264205/206/207), essendo difficile ipotizzare, soprattutto nei casi di confisca ai sensi degli artt. 240 e 240-bis c.p., ovvero di espulsione o allontanamento dello straniero dallo Stato, «una misura che per specie o per quantità non corrisponda a quella astrattamente prevista, o che è stata determinata dal giudice sulla base di un procedimento di commisurazione basato su parametri edittali inapplicabili», e ricomprende tutti i casi in cui la misura sia disposta in violazione dei presupposti e dei limiti stabiliti dalla legge per la sua applicazione (Sez. 3, n. 4252 del 15 gennaio 2019, Caruso, Rv. 274946-02).

Si richiamano, al riguardo, una risalente decisione, alla cui stregua «tutto ciò che si riferisce alla erronea applicazione di una misura di sicurezza fuori dei casi consentiti, in quanto violazione del più ampio principio di legalità (artt. 199 c.p. e 25 Cost.), cui è sottoposto, come le pene, anche il regime delle misure di sicurezza, rientra nel potere decisorio ex officio della Corte di cassazione che, se rileva una causa di illegalità della misura di sicurezza, deve provvedere ad eliminarla» (Sez. 3, n. 1044 del 10 luglio 1967, Bertolini, Rv. 105611), e una più recente decisione che «ha affermato l'illegalità di una confisca per equivalente disposta per un valore superiore al profitto del reato, sul presupposto della natura "sanzionatoria" di tale misura», giungendosi alla conclusione che «la nozione di "misura di sicurezza illegale" sembra far riferimento alle misure di sicurezza applicate in violazione dei presupposti e dei limiti stabiliti dalla legge» (Sez. 3, n. 46049 del 28 marzo 2018, Carestia, Rv. 274697).

La conclusione cui si perviene, inferibile dal testo degli artt. 25, comma 2, Cost. e 199 c.p., è ritenuta coerente anche con la diversità dei presupposti applicativi delle pene rispetto alle misure di sicurezza, che - a differenza delle prime che seguono all'accertamento del reato e, nei casi previsti, alla esclusione di una causa di non punibilità - richiedono una valutazione ulteriore, afferente, a seconda dei casi, all'accertamento della pericolosità sociale ovvero, ai fini dell'applicazione della confisca facoltativa, alla verifica del nesso di strumentalità o di derivazione tra il bene e il reato; consente di assicurare il rispetto della garanzia costituzionale del controllo di legalità di tutte le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale, pacificamente esteso alla mancanza o mera apparenza della motivazione; è in linea con i principi enunciati dalla giurisprudenza, costituzionale e di legittimità, in tema di motivazione della sentenza di applicazione della pena su richiesta, che, «in relazione all'applicazione delle misure di sicurezza, implic[a] un discorso giustificativo più analitico ed approfondito di quello richiesto per l'accertamento del fatto di reato e per la determinazione della pena», in quanto, con riferimento alle stesse, «non è correlabile ad alcun atto negoziale con cui l'imputato dispensa l'accusa dall'onere di provare i fatti dedotti nell'imputazione o concorda la pena»; è, infine, compatibile con l'art. 2 Prot. 7 CEDU e con la giurisprudenza della Corte EDU, secondo cui l'attuazione della garanzia, di cui alla detta norma, in forza della quale ciascun condannato ha diritto a un giudizio di controllo da parte di un giudice superiore, è rimessa a un ampio margine di apprezzamento da parte degli Stati e i moduli di definizione concordata del procedimento penale possono implicare garanzie d'impugnazione meno ampie.

La seconda opzione distingue tra le statuizioni che recepiscono il patto e quelle esterne all'accordo, sviluppando nel suo interno argomenti diversi e pervenendo a esiti diversi, che tuttavia procedono da una stessa premessa, rappresentata dalla portata costitutiva dell'accordo, che, comunque inteso dal punto di vista strutturale, è sotteso alla sentenza di "patteggiamento", e dalla sua "legittimazione" costituzionale nel consenso e nel diritto di difendersi negoziando (in cui può essere declinato il diritto di difesa riconosciuto dall'art. 24, comma 2, Cost.).

Una prima impostazione individua il regime di impugnazione della sentenza avendo riguardo alla diversa intensità dell'onere di motivazione gravante sul giudice in relazione al tipo di statuizione e al rapporto tra la stessa e il contenuto del patto, il cui oggetto è tipizzato dall'art. 444 c.p.p., e ritiene ammissibile il ricorso per cassazione avente a oggetto la doglianza di mancanza di motivazione e di violazione dell'art. 240 c.p. in ordine alla disposta confisca del denaro, in quanto relativa a «un aspetto della sentenza estraneo al concordato sulla pena, dunque ricorribile indipendentemente da detti limiti [previsti dall'art. 448, comma 2-bis, c.p.p.] e secondo le regole generali» (Sez. 3, n. 30064 del 23 maggio 2018, Lika, cit.; conforme, Sez. 4, n. 22824 del 17 aprile 2018, Daouk, cit.).

Altra impostazione, cui perviene la stessa Sezione rimettente, valorizza l'interpretazione, per la quale, in linea con la sentenza n. 313 del 1990 della Corte costituzionale, si configura, nella determinazione della sentenza, un modello di "compartecipazione" delle parti e del giudice, che soprintende all'accordo, la legittimità della cui logica negoziale, riferita al tema principale della responsabilità e della sanzione, è estensibile alla parte relativa all'applicazione della misura di sicurezza.

L'ordinanza - anche richiamando approdi della giurisprudenza di legittimità (Sez. 6, n. 54977 del 14 ottobre 2016, Orsi, Rv. 268740; Sez. 2, n. 19945 del 19 aprile 2012, Toseroni, Rv. 252825; Sez. 2, n. 1934 del 18 dicembre 2015, dep. 2016, Spagnuolo, Rv. 265823; Sez. 5, n. 1154 del 22 marzo 2013, Defina, Rv. 258819), che hanno ritenuto possibile "inserire" nel patto una statuizione relativa alla misura di sicurezza, con esclusione, tuttavia, di un effetto vincolante per il giudice, gravato solo da un onere di motivazione nel caso in cui provveda in termini difformi da quelli concordati, nella impossibilità di estendere al punto relativo alla confisca le caratteristiche di sinteticità della motivazione tipiche della sentenza di patteggiamento - rappresenta la desumibilità da tale consolidato principio di una interpretazione dell'art. 448, comma 2-bis, c.p.p. che ne circoscrive l'applicazione, quanto al motivo di ricorso relativo all'illegalità della misura di sicurezza, alla sentenza di "patteggiamento" che recepisca il contenuto dell'accordo, nel quale siano inseriti dalle parti, oltre al suo oggetto essenziale, eventuali ulteriori profili (accidentalia negotii), rispetto ai quali il giudice è esonerato dall'onere di motivare specificamente.

Diversamente, esclusa la vincolatività dell'accordo sulla misura di sicurezza, il giudice che non lo recepisce o applica una misura di sicurezza non oggetto di accordo tra le parti, dovrebbe svolgere una motivazione specifica e la sentenza sarebbe impugnabile anche per vizio della motivazione.

4. Nella risoluzione della questione posta, si impongono alcune preliminari considerazioni, indotte dalla necessità di delimitare l'oggetto del quesito, che attiene, sì come devoluto, alla ricorribilità in cassazione per vizio della motivazione, alla luce dell'art. 448, comma 2-bis, c.p.p., della sentenza di "patteggiamento" che abbia applicato una misura di sicurezza, personale o patrimoniale, e di inquadrare l'indicato oggetto nel pertinente più ampio contesto normativo e interpretativo.

4.1. Deve innanzitutto precisarsi che la confisca "ex art. 12-sexies l. 356/92" e l'espulsione "ex art. 86 d.P.R. 309/90", ordinate con la sentenza impugnata a carico dei ricorrenti in relazione al delitto di cui all'art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, rientrano tra le misure di sicurezza, patrimoniali e personali, adottabili, con sentenza di applicazione, su richiesta delle parti, di una pena superiore a due anni di reclusione soli o congiunti a pena pecuniaria, ovvero, limitatamente alla «confisca nei casi previsti dall'articolo 240 del codice penale», quando la pena irrogata sia inferiore all'indicato limite, ai sensi dell'art. 445, comma 1, c.p.p.

In tal senso è il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (tra le altre, in punto di confisca, Sez. 6, n. 9930 del 13 febbraio 2014, Scivoli Di Domenico, Rv. 261533; Sez. 2, n 3247 del 18 settembre 2013, Gambacorta, Rv. 258546; Sez. 5, n. 47179 del 3 novembre 2009, D'Ambrosio, Rv. 245387; Sez. 6, n. 4280 del 25 settembre 2008, Garritano, Rv. 241875; in punto di espulsione dello straniero dal territorio dello Stato ex art. 86 d.P.R. 309 del 1990, Sez. 4, n. 42345 del 16 maggio 2017, Terzi, Rv. 270926; Sez. 4, n. 42841 del 2 ottobre 2008, Jara Salazar, Rv. 241333; Sez. 6, n. 3448 del 12 giugno 2006, Mahboubi, Rv. 235063), riferibile a tutte le ipotesi in cui con la sentenza di applicazione della pena, per espresso riferimento normativo ovvero per omesso richiamo, nella normativa di riferimento, a uno specifico modello procedimentale, debba o possa applicarsi una misura di sicurezza.

4.2. Si rileva, inoltre, che, con riferimento alla sentenza di applicazione di pena patteggiata, si è affermata nella giurisprudenza di legittimità la necessaria correlazione dello sviluppo delle linee argomentative della decisione all'esistenza di un sotteso accordo con cui l'imputato dispensa l'accusa dall'onere di provare i fatti dedotti nell'imputazione, puntualizzandosi che l'obbligo di motivazione, imposto al giudice ai sensi degli artt. 111 Cost. e 125 c.p.p. per tutte le sentenze, non può non essere conformato, rispetto a quella di applicazione della pena su richiesta delle parti, alle sue peculiari caratteristiche formali, strutturali, genetiche e funzionali che la differenziano dall'ordinaria sentenza di condanna, pur senza ridursi il compito del giudice alla semplice presa di atto del patto concluso dalle parti (Sez. un., n. 10372 del 27 settembre 1995, Serafino, Rv. 202270).

A tale riguardo le Sezioni unite, che hanno sempre sottolineato, intervenendo su istituti specifici, la portata costitutiva dell'indicato accordo vincolato alla tipicità dei contenuti legislativamente predefiniti (tra le altre, Sez. un., n. 35738 del 27 maggio 2010, Calibé, Rv. 247838/841; Sez. un., n. 17781 del 29 novembre 2005, dep. 2006, Diop, Rv. 233518; Sez. un., n. 3 del 25 novembre 1998, dep. 1999, Messina, Rv. 212437/438), hanno giudicato sufficiente una motivazione in termini sintetici in merito alle statuizioni costituenti oggetto del medesimo accordo, implicante per l'imputato che ne fa richiesta la rinuncia ad avvalersi della facoltà di contestare l'accusa (Sez. un., n. 20 del 27 ottobre 1999, Fraccari, Rv. 214637), ovvero l'esonero dell'accusa dall'onere della prova dei fatti dedotti nella imputazione (Sez. un., n. 5777 del 27 marzo 1992, Di Benedetto, Rv. 191134).

La giurisprudenza, antecedente alla entrata in vigore della l. n. 103 del 2017, che si è consolidata su tali condivisi principi (da ultimo, Sez. 6, n. 56976 dell'11 settembre 2017, Sejdara, Rv. 271671), ha, invece, escluso costantemente che la caratteristica di sinteticità della motivazione tipica del rito potesse estendersi alle statuizioni estranee all'accordo, come quelle relative, per quanto qui interessa, all'applicazione delle misure di sicurezza.

Quanto alla confisca si è, invero, ripetutamente affermato che, in caso di pena patteggiata, anche dopo la modifica - introdotta con l'art. 2, comma 1, lett. a), l. 12 giugno 2003, n. 134 - dell'art. 445, comma 1, c.p.p., che ha esteso le possibilità di provvedere alla confisca rendendola adottabile in tutti i casi previsti dall'art. 240 c.p., il giudice è tenuto a motivare l'esercizio del suo potere discrezionale, evidenziando i variabili presupposti delle disposte misure in relazione alla situazione concreta e secondo le specifiche normative che le disciplinano (tra le altre, Sez. 6, n. 9930 del 13 febbraio 2014, Scivoli Di Domenico, cit.; Sez. 6, n. 11497 del 21 ottobre 2013, dep. 2014, Musaku, Rv. 260879; Sez. 2, n 3247 del 18 settembre 2013, Gambacorta, cit.; Sez. 4, n. 41560 del 26 ottobre 2010, Rhameni, Rv. 248454).

Quanto, inoltre, alla espulsione dello straniero dal territorio dello Stato a pena espiata, prevista dall'art. 86, primo comma, d.P.R. n. 309 del 1990 per i reati ivi indicati, il giudice di merito deve effettuare, anche con la sentenza di "patteggiamento", in virtù dell'applicata statuizione contenuta nella sentenza n. 58 del 1995 della Corte costituzionale, un previo e motivato accertamento della sussistenza in concreto della pericolosità sociale dello straniero (tra le altre, Sez. 6, n. 3448 del 12 giugno 2006, Mahboubi, cit.; Sez. 4, n. 42317 dell'8 giugno 2004, Kola, Rv. 231006).

Le misure di sicurezza personali, qualunque sia la natura che ontologicamente si assegna loro, ha annotato al riguardo la Corte costituzionale, «comportano comunque la privazione o la limitazione della libertà personale e, quindi, incidono in ogni caso su un valore che l'art. 13 della Costituzione riconosce come diritto inviolabile dell'uomo, sia esso cittadino o straniero [...]. Ed è giurisprudenza di questa Corte che, di fronte all'incisione di beni di tal pregio, il controllo di costituzionalità delle norme di legge contestate deve avvenire in modo da garantire che il sacrificio della libertà sia giustificato dall'effettiva realizzazione di altri valori costituzionali o non vada incontro a ostacoli insormontabili costituiti dalla protezione di altri valori costituzionali (v., ad esempio, sentt. nn. 63 del 1994, 81 del 1993, 368 del 1992, 366 del 1991)».

Né, si è pure rilevato, come annotato anche nell'ordinanza di rimessione, le parti, nell'ambito della loro discrezionalità e autonomia, non possono includere nell'accordo, delimitato dal legislatore al solo trattamento sanzionatorio e alla eventuale concessione della sospensione condizionale della pena, anche le misure di sicurezza, tuttavia chiarendosi che il giudice non è vincolato alle richieste delle parti, in quanto dette misure, sottratte alla loro disponibilità, esulano dall'area della negozialità individuata e delimitata dall'art. 444 c.p.p., ma, ove le disattenda, senza essere obbligato a recepire o non recepire per intero l'accordo, deve indicare le ragioni per le quali ha provveduto, al riguardo, in termini difformi da quelli concordemente prospettati dal pubblico ministero e dalla difesa (tra le altre, con riferimento alla sola confisca, Sez. 6, n. 54977 del 14 ottobre 2016, Orsi, cit.; Sez. 2, n. 1934 del 18 dicembre 2015, Spagnuolo, cit.; Sez. 5, n. 1154 del 22 marzo 2013, Defina, cit.; Sez. 2, n. 19945 del 19 aprile 2012, Toseroni, cit.).

4.3. La giurisprudenza di legittimità, procedendo dalla considerazione che, in tema di "patteggiamento", il prestato consenso è frutto del generale potere dispositivo riconosciuto dalla legge alle parti e ratificato dal giudice, ha anche affermato, delimitando l'area dei vizi deducibili e parametrati sulle peculiarità del rito (Sez. 5, n. 102 del 18 gennaio 1995, Pepe, Rv. 200465), e ha ribadito, con orientamento costante (tra le altre, Sez. 6, n. 28427 del 12 marzo 2013, Ennaciri, Rv. 256455; Sez. 2, n. 3622 del 10 gennaio 2006, Laaziz, Rv. 233369; Sez. 6, n. 38943 del 18 settembre 2003, Conciatori, Rv. 227718; Sez. 1, n. 6898 del 18 dicembre 1996, dep. 1997, Milanese, Rv. 206642), che tutte le statuizioni non illegittime, concordate dalle parti e recepite dal giudice, precludono alle parti stesse la proposizione, nella successiva sede dell'impugnazione, che è quella di legittimità, di eccezioni o censure, che attengono al merito delle valutazioni sottese al consenso stesso, ovvero si risolvono in un recesso dall'accordo non consentito ad alcuna delle parti per il principio costituzionale di uguaglianza fra le stesse nel processo penale.

4.4. Quanto alle misure di sicurezza, in linea con il ribadito principio della non automatica estensione alla loro applicazione della motivazione sommaria propria del rito speciale, si è giudicato sussistente, nel caso in cui la confisca fosse disposta senza motivazione, l'interesse all'impugnazione da parte dell'imputato che avesse contestato nel giudizio di merito, o anche solo nei motivi di ricorso, l'esistenza di un qualsiasi nesso tra il bene e il reato, e si è ritenuto censurabile l'incorso inadempimento dell'obbligo di motivazione, annullandosi la sentenza resa in sede di "patteggiamento" limitatamente alla disposizione sulla confisca allo scopo di consentire all'interessato di far valere le sue ragioni (o dinanzi al giudice di rinvio, tra le altre, Sez. 6, n. 9930 del 13 febbraio 2014, Scivoli Di Domenico, citata; Sez. 4, n. 27935 del 2 maggio 2012, Anibaldi, Rv. 253556; Sez. 5, n. 47179 del 3 novembre 2009, D'Ambrosio, Rv. 245387; Sez. 6, n. 10531 del 21 febbraio 2007, Baffoè, Rv. 235928; Sez. 4, n. 28750 del 21 marzo 2002, Chiascione, Rv. 222062; ovvero - annullandosi senza rinvio la disposizione relativa alla confisca - in sede esecutiva, tra le altre, Sez. 5, n. 8440 del 24 gennaio 2007, Viglianesi, Rv. 236623; Sez. 6, n. 49966 del 9 novembre 2004, Salah, Rv. 230387; Sez. 4, n. 33303 dell'8 luglio 2002, Kanu, Rv. 222753; Sez. 4, n. 3200 del 15 ottobre 1999, Trovato, Rv. 215003; Sez. un., n. 9149 del 3 luglio 1996, Chabni Samir, Rv. 205708).

A tali conclusioni è giunta anche quella giurisprudenza, che, in presenza di un accordo delle parti includente anche le misure di sicurezza, ha esaminato il denunciato vizio di motivazione con riguardo alle stesse, pervenendo a una pronuncia rescindente ovvero al rigetto del ricorso (Sez. 6, n. 54977 del 14 ottobre 2016, Orsi; Sez. 2, n. 1934 del 18 dicembre 2015, Spagnuolo; Sez. 5, n. 1154 del 22 marzo 2013, Defina; Sez. 2, n. 19945 del 19 aprile 2012, Toseroni, citate).

4.5. Con la l. n. 103 del 2017, infine, si è introdotto, come anticipato, nel sistema delle impugnazioni un nuovo comma 2-bis nell'art. 448 c.p.p., secondo cui il pubblico ministero e l'imputato possono proporre ricorso per cassazione contro la sentenza di applicazione della pena su richiesta «solo per motivi attinenti all'espressione della volontà dell'imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all'erronea qualificazione giuridica del fatto e all'illegalità della pena o della misura di sicurezza».

La medesima legge ha anche aggiunto all'art. 130 c.p.p. il nuovo comma 1-bis, che dispone che «quando nella sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti si devono rettificare solo la specie e la quantità della pena per errore di denominazione o di computo, la correzione è disposta, anche d'ufficio, dal giudice che ha emesso il provvedimento. Se questo è impugnato, alla rettificazione provvede la Corte di cassazione, a norma dell'art. 619, comma 2».

Tali norme, che prevedono specifici motivi di ricorso e un possibile intervento correttivo, in sede di legittimità, di errori materiali estranei ai vizi sindacabili come tali e riferibili solo alla "pena", sono ritenute da più voci in dottrina espressive della svolta codificazione di alcuni degli approdi più significativi raggiunti dalla giurisprudenza nella individuazione e delimitazione delle ragioni di impugnazione di sentenze, pur rese in esito all'intervenuto accordo sulla pena e nella forma impugnabili per tutti i casi previsti dall'art. 606, comma 1, c.p.p., e coerenti con la ratio della riforma e con la prevista limitazione dei casi di ricorribilità di dette sentenze, quali desumibili dalla Relazione governativa (A.C. 2798) di accompagnamento del disegno di legge, esitato dopo un lungo iter parlamentare e riprodotto, poi, nel testo definitivo della norma con il solo escluso riferimento all'ipotesi, già prevista, della omessa applicazione della misura di sicurezza.

In detta Relazione, concordante con le valutazioni già espresse dalla Commissione ministeriale, si è, invero, annotato che «anzitutto si reputa che il modulo consensuale di definizione del processo, proprio del cosiddetto patteggiamento, non meriti l'attuale, troppo ampia ricorribilità per cassazione, constatato, d'altra parte, l'esito largamente prevalente di inammissibilità dei relativi ricorsi, con inutile dispendio di tempo e di costi organizzativi. Si ritiene pertanto di limitarne la ricorribilità ai soli casi in cui l'accordo non si sia formato legittimamente o non si sia tradotto fedelmente nella sentenza, ovvero il suo contenuto presenti profili di illegalità per la qualificazione giuridica del fatto, per la pena o per la misura di sicurezza, applicata od omessa».

4.6. La giurisprudenza di legittimità, nei suoi plurimi interventi successivi alla indicata novella, si è, in effetti, pronunciata sui vizi ricorribili in sostanziale continuità interpretativa con pregressi maggioritari orientamenti, che già avevano apprezzato i vizi ricorribili ex art. 606 c.p.p. tenendo conto dell'accordo processuale alla base del rito.

Dando conto di detti interventi, in termini generali e nei limiti funzionali alla decisione, si rileva, tra l'altro, che si è esclusa la proponibilità, a seguito di applicazione di pena su richiesta delle parti, di ripensamenti o proposizioni di asseriti vizi di volontà o di intelligenza, irrilevanti se non si traducono in censure di nullità, per le quali vige peraltro il principio di tassatività (Sez. 4, n. 54580 del 19 settembre 2018, Sentimenti, Rv. 274505), e l'ammissibilità dei motivi attinenti all'espressione della volontà dell'imputato, ove il ricorso non contenga la specifica indicazione degli atti o delle circostanze che hanno determinato il vizio (Sez. 1, n. 15557 del 20 marzo 2018, Tarik, Rv. 272630), e si è riaffermato, quanto al motivo relativo all'erronea qualificazione giuridica del fatto contenuto in sentenza, che sono denunciabili i soli casi di errore manifesto (Sez. 1, n. 15553 del 20 marzo 2018, Maugeri, Rv. 272619) o di motivazione meramente apparente (Sez. 6, n. 13836 del 16 gennaio 2019, Talal, Rv. 275371), ovvero di qualificazione palesemente eccentrica rispetto al contenuto del capo di imputazione (Sez. 3, n. 23150 del 17 aprile 2019, El Zitouni, Rv. 275971-02; Sez. 6, n. 2721 dell'8 gennaio 2018, Bouaroua, Rv. 272026), con conseguente inammissibilità della denuncia di errori valutativi in diritto che non risultino evidenti dal testo del provvedimento impugnato.

Si è, invece, ritenuto non deducibile, alla stregua del nuovo regime impugnatorio, il vizio relativo all'omessa valutazione da parte del giudice delle cause di proscioglimento previste dall'art. 129 c.p.p., sì da ritenersi l'intervento normativo «una ulteriore evoluzione della limitata ricorribilità della sentenza di "patteggiamento" già affermata, nel vigore della precedente normativa, nella giurisprudenza di legittimità, che per indirizzo consolidato disconosceva all'imputato il potere di rimettere in discussione i profili oggettivi e soggettivi della fattispecie su cui era caduto l'accordo in quanto coperti dal patteggiamento, conformando il ridotto obbligo di motivazione in considerazione dell'accordo presupposto dalla decisione (Sez. un., n. 5777 del 27 marzo 1992, di Benedetto, Rv. 191135; Sez. un., n. 10372 del 27 settembre 1995, Serafino, Rv. 202270)» (Sez. 6, n. 3819 del 19 dicembre 2018, Boutamara, cit.).

4.7. La previsione espressa quale motivo di ricorso della illegalità della misura di sicurezza, accanto alla illegalità della pena, ha indotto la giurisprudenza a chiedersi come la illegalità della misura di sicurezza dovesse essere intesa e se soprattutto la sua definizione dovesse o meno ripetere quella adottata per configurare come illegale, e censurabile con ricorso per cassazione prima della l. n. 103 del 2017, la pena concordata tra le parti e ratificata dal giudice.

La nozione di pena illegale si è attestata attraverso una progressiva elaborazione da parte della giurisprudenza e di plurimi interventi delle Sezioni unite, che l'hanno valorizzata sia in funzione di deroga del principio devolutivo, sia, e soprattutto, per la definizione dei detti limiti di sindacabilità, quanto alla determinazione della pena, della sentenza resa ex art. 444 c.p.p., procedendo da un ambito che la correla ai casi di illegalità ab origine della pena, inflitta extra o contra legem perché non prevista dall'ordinamento giuridico ovvero non corrispondente, per specie ovvero per quantità (sia in difetto che in eccesso), a quella astrattamente prevista per la fattispecie incriminatrice concreta, così collocandosi al di fuori del sistema sanzionatorio delineato dal codice penale (tra le altre, Sez. 6, n. 32243 del 15 luglio 2014, Tanzi, Rv. 260326; Sez. 2, n. 20275 del 7 maggio 2013, Stagno, Rv. 255197; Sez. 2, n. 22136 del 19 febbraio 2013, Nisi, Rv. 255729), ed estendendola anche alla pena determinata dal giudice attraverso un procedimento di commisurazione basato su una norma dichiarata costituzionalmente illegittima e, quindi, inesistente sin dalla sua origine (Sez. un., n. 37107 del 26 febbraio 2015, Marcon, Rv. 264857; Sez. un., n. 33040 del 26 febbraio 2015, Jazouli, Rv. 264205; Sez. un., 18821 del 24 ottobre 2013, dep. 2014, Ercolano, Rv. 258651), ovvero in violazione del principio di irretroattività della legge penale più sfavorevole sancito dall'art. 24, secondo comma, Cost. (Sez. un., n. 40986 del 19 luglio 2018, Pittalà, che ha anche dato conto degli approdi della giurisprudenza di legittimità e dei casi individuati come integranti ipotesi di pena illegale con riferimento al "patteggiamento").

In linea con tale delineato ambito della illegalità della pena, si è quindi affermato che non vi rientra la pena che risulti complessivamente legittima, anche se determinata secondo un percorso argomentativo viziato.

La nozione di misura di sicurezza illegale è stata definita da tre contemporanee decisioni (Sez. 6, n. 3819 del 19 dicembre 2018, Boutamara; Sez. 6, n. 5875 del 19 dicembre 2018, Chtibi; Sez. 6, n. 7630 del 19 dicembre 2018, Fall, già citate quali espressive del primo orientamento oggetto del contrasto potenziale), mutuando le definizioni, già maturate, di pena illegale, sulla premessa che «il principio di legalità, enunciato per le misure di sicurezza dall'art. 199 c.p. e sistematicamente composto con quello della legalità della pena, di cui all'art. 1 c.p., nella previsione dell'art. 25, secondo comma, Cost., informa di sé tutto il sistema penale e vieta che abbia esecuzione, con la pena illegale, anche una misura di sicurezza illegale», e ritenendo tale la misura di sicurezza non prevista dall'ordinamento giuridico per il caso concreto oggetto di giudizio, ovvero quella eccedente, per specie e quantità, i relativi limiti legali.

Distinta dalla illegalità, che predica la totale estraneità a sistema della misura di sicurezza, come della pena, per una irrimediabile deviazione dal rilevante modello tipico, è, per dette decisioni, la illegittimità conseguente a un vizio della motivazione, in una delle sintomatiche declinazioni di cui all'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. che, a differenza della illegalità, è emendabile nel rapporto tra giudizio rescindente e giudizio rescissorio di rinvio.

Si è sostenuto in tal senso anche che «l'illegalità della pena o della misura di sicurezza sussiste solo quando la sanzione irrogata non sia prevista dall'ordinamento giuridico ovvero quando, per specie e quantità, risulti eccedente il limite legale, ma non quando risulti errato il calcolo attraverso il quale essa è stata determinata, salvo che non sia frutto di errore macroscopico, trattandosi di errore censurabile solo attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione della sentenza», giudicandosi estraneo alla nozione di illegalità il vizio relativo alla quantificazione del profitto (così, Sez. 6, n. 52205 del 16 ottobre 2018, Diaverum Italia s.r.l., Rv. 274292).

In altri casi si è, invece, estesa la nozione di illegalità della misura di sicurezza, che consente il ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 448, comma 2-bis, c.p.p., ai casi in cui detta misura sia applicata in violazione dei presupposti e dei limiti stabiliti dalla legge anche in caso di motivazione mancante o meramente apparente, rilevante come "violazione di legge" ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost., valorizzando i presupposti applicativi delle misure di sicurezza, personali e reali, e richiamando risalente arresto (Sez. 3, n. 1044 del 10 luglio 1967, Bertolini), che aveva ritenuto che tutto ciò che si riferisce all'applicazione di una misura di sicurezza fuori dai casi consentiti, costituisce violazione del più ampio principio di legalità di cui agli artt. 199 c.p. e 25 Cost., cui è sottoposto anche il regime delle misure di sicurezza (in questo senso, Sez. 3, n. 15525 del 15 febbraio 2019, Bozzi, Rv. 275862; Sez. 3, n. 4252 del 15 gennaio 2019, Caruso, cit.).

A detta nozione di illegalità della misura di sicurezza si è, infine, anche ricondotta l'ipotesi di omessa applicazione con la sentenza di "patteggiamento" della misura di sicurezza, ritenendosi ammissibile il ricorso per cassazione del pubblico ministero volto a denunciarla, perché «incidente sul complessivo trattamento sanzionatorio e perciò rilevante come "violazione di legge" ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost.» (Sez. 3, n. 20781 del 17 dicembre 2018, dep. 2019, El Ghazzani, Rv. 275530, con riguardo alla espulsione dello straniero ai sensi dell'art. 86 d.P.R. n. 309 del 1990), ovvero «in quanto tale omissione determina una illegalità sul piano quantitativo delle statuizioni conseguenti alla realizzazione del reato per il quale [la] confisca è prevista come obbligatoria (Sez. 3, n. 29428 dell'8 maggio 2019, Scarpulla, Rv. 275896, con riguardo alla confisca, diretta o per equivalente, prevista dall'art. 12-bis d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, per il reato di omesso versamento di IVA), ovvero in quanto «l'omissione di qualsiasi statuizione sul punto integra un'ipotesi di illegalità della pena e della misura di sicurezza» (Sez. 5, n. 19735 dell'11 gennaio 2019, Rossi, Rv. 276986, con riguardo alla confisca prevista dall'art. 11 l. 16 marzo 2006, n. 146).

5. Poste tali considerazioni, la soluzione della questione devoluta - che, in coerente rapporto con il thema decidendum, presuppone che, con la sentenza di "patteggiamento", sia stata applicata una misura di sicurezza, personale o patrimoniale, obbligatoria o facoltativa, concordata o meno tra le parti - deve procedere apprezzando la portata dell'art. 448-bis c.p.p. nel delineato contesto normativo e interpretativo e in rapporto all'istituto del "patteggiamento" e al tema più generale, sotteso alla stessa prospettata questione, dell'attuale vigenza di un regime di impugnazione unitario della sentenza di applicazione di pena concordata, come delineato dall'art. 448-bis c.p.p., ovvero della coesistenza con tale regime di quello "ordinario" di cui all'art. 606 c.p.p., azionabile dalle parti per le statuizioni estranee al loro accordo.

6. Le Sezioni unite, che sotto diversi aspetti si sono occupate della sentenza di "patteggiamento", ponendo la sua motivazione e la sua impugnazione in correlazione con l'accordo delle parti sulla pena del quale la stessa rappresenta l'epilogo decisorio e che ne giustifica le sue peculiari caratteristiche, hanno da tempo messo in rilievo il rapporto tra il profilo di negozialità di detto accordo e il profilo dei poteri del giudice sulla sua verifica.

L'equilibrio di tale rapporto ovvero il bilanciamento del controllo giurisdizionale e dell'assetto predisposto dalle parti, coinvolgenti anche il tema della natura della sentenza di "patteggiamento", non richiedono approfondimenti in questa sede, essendo sufficiente rilevare che, pur a fronte degli interventi normativi che hanno modificato nel tempo l'istituto in esame, sono rimasti immutati, oltre alle modalità dell'accordo sulla pena previsto dall'art. 444 c.p.p. (formato dalla richiesta di applicazione di pena, indicata al primo comma, e dal consenso, indicato al secondo comma, della «parte che non ha formulato la richiesta»), i parametri del controllo giudiziario da compiersi sull'intero progetto di decisione, che, se è limitato a un accertamento negativo circa la possibilità di pronunciare sentenza di proscioglimento per una delle cause di non punibilità indicate dall'art. 129 c.p.p., è positivo, e bilancia il profilo dispositivo dell'accordo, quanto alla correttezza della qualificazione giuridica del fatto, all'applicazione e alla comparazione delle circostanze prospettate dalle parti e alla congruità della pena, nonché quanto alla sussistenza delle condizioni che giustificano la concessione della sospensione condizionale, alla quale la richiesta sia stata subordinata.

Anche la Corte costituzionale, investita di questioni di legittimità costituzionale in tema di applicazione della pena su richiesta delle parti, ha affermato che il potere dispositivo delle parti, «concepito in funzione di collaborazione ad una rapida affermazione della giustizia con una effettiva ed immediata applicazione della pena», si inserisce in un contesto edittale predeterminato dal legislatore in cui il giudice, senza rivestire un ruolo di carattere meramente "notarile", esercita una funzione giurisdizionale determinante allorché procede al controllo sull'accordo raggiunto tra le parti e alle ulteriori valutazioni di merito (Corte cost., sent. n. 313 del 1990), fermo restando il fondamento primario dell'istituto nell'accordo tra pubblico ministero e imputato sul merito dell'imputazione, responsabilità dell'imputato e pena conseguente (sent. n. 66 del 1990), che condiziona, circoscrive e indirizza il compito del giudice (sent. n. 155 del 1996), e la cui componente negoziale è resa evidente anche dalla facoltà concessa al giudice di verificare la volontarietà della richiesta o del consenso (art. 446, comma 5, c.p.p.), in un «sistema costruito in modo che l'imputato possa determinarsi alla sua scelta con piena consapevolezza delle conseguenze giuridiche derivanti dall'applicazione della pena su richiesta, così da poterne adeguatamente ponderare i benefici e gli svantaggi» (sent. n. 394 del 2002).

7. Il tema del contenuto dell'accordo sulla pena e dei limiti del controllo giurisdizionale e con esso delle censure proponibili con il ricorso per cassazione è anche alla base del contrasto, denunciato in termini potenziali e come tale devoluto, seguito alla entrata in vigore della indicata legge alla luce della previsione del richiamato art. 448, comma 2-bis, c.p.p.

7.1. Intendendo, invero, detta norma come introduttiva, in relazione a dati testuali e sistematici, di un regime di impugnazione specifico per la sentenza di applicazione di pena, giustificato «dall'origine concordata del provvedimento impugnato (e dalla conseguente preclusione della possibilità di contestare i termini fattuali dell'imputazione e la valutazione di merito sulle prove)», tale regime, riferito a punti della decisione certamente estranei all'accordo delle parti, come quello relativo all'applicazione di misure di sicurezza (espressamente ricorribile solo in caso di illegalità della disposta misura), è ritenuto proprio a tutte le statuizioni espresse e contenute in sentenza, «rientrino o meno nel perimetro dell'accordo sulla pena», con estraneità al sindacato di legittimità della diversa fattispecie della misura di sicurezza la cui applicazione sia denunciata per vizio di motivazione (Sez. 6, n. 3819 del 19 dicembre 2018, Boutamara, cit.).

Al contrario, valorizzandosi la unicità del regime di impugnazione previsto dall'art. 448, comma 2-bis, c.p.p. per le statuizioni recettive dell'accordo e per quelle estranee allo stesso, la nozione di illegalità della misura di sicurezza è ritenuta comprensiva di tutti i casi in cui la misura sia disposta in violazione dei presupposti e dei limiti stabiliti dalla legge per la sua applicazione e anche senza motivazione o con motivazione apparente (Sez. 3, n. 4252 del 15 gennaio 2019, Caruso, cit.), ovvero, rimarcandosi la «estraneità strutturale della misura di sicurezza al concordato sanzionatorio», il cui oggetto è tipizzato dall'art. 444 c.p.p., l'aspetto estraneo all'accordo è ritenuto ricorribile secondo le regole generali (Sez. 3, n. 30064 del 23 maggio 2018, Lika, cit.; conforme, Sez. 4, n. 22824 del 17 aprile 2018, Daouk, cit.).

7.2. La lettura alternativa proposta dalla Sezione Sesta muove, a sua volta, anche dall'esame dell'accordo sotteso alla sentenza di applicazione di pena e delle sue caratteristiche strutturali, che lo rendono vincolato sul piano contenutistico a quanto stabilito dall'art. 444 c.p.p., e valorizza, in rapporto ai limiti della sua controllabilità, la possibilità che profili pertinenti a elementi che non hanno una base concordata siano oggetto di statuizione giudiziale, ovvero che il patto abbia un oggetto più ampio e riguardi elementi accessori e comunque ulteriori rispetto al nucleo tipico ed essenziale dell'accordo sulla pena.

La prima possibilità è correlata all'applicabilità, con la sentenza, unitamente alla pena delle misure di sicurezza patrimoniali o personali, di carattere obbligatorio o facoltativo, di diversa natura e fondamento, implicanti, per l'imputato, anche la probabile irreversibile disposizione di diritti fondamentali, senza alcuna rinuncia da parte sua ai diritti e alle garanzie che caratterizza, invece, la scelta di accedere al rito del "patteggiamento", e soggette, per il giudice, all'onere di motivare e fornire una giustificazione esterna e razionale della decisione.

Le argomentazioni svolte al riguardo sono tese a dimostrare, da un lato, la sussistenza di questioni, non risolte, indotte dalla soluzione interpretativa, che, facendo riferimento all'integrale contenuto della sentenza di origine concordata, individua nel regime impugnatorio specifico, introdotto dall'art. 448, comma 2-bis, c.p.p., i casi di impugnazione e i punti impugnabili, con esclusione di ogni diversa censura che non sia, quanto alle misure di sicurezza, la loro illegalità, intesa come radicale estraneità a[l] sistema per mancanza di elementi di struttura, e, dall'altro lato, la sussistenza di ragioni inducenti a diverso esito impugnatorio in relazione: alla natura negoziale del rito che dà via a un accordo sulla pena, senza possibilità di recesso; alla estraneità a tale logica di statuizioni, implicanti l'accertamento dei presupposti giustificativi del loro oggetto, e non attività meramente ricognitiva, e alla esigenza della controllabilità di tali statuizioni.

La seconda possibilità è, invece, correlata alla «compartecipazione» delle parti e del giudice nella «determinazione dalla sentenza», che si trae dalla impostazione che si configura sulla base della interpretazione prescelta dalla Corte costituzionale (sent. n. 313 del 1990), alla cui stregua, in tema di applicazione concordata di pena, si individua nel giudice «l'organo del controllo di legalità che sovrintende all'accordo delle parti», e al consolidato principio, affermato prima della riforma, della inseribilità nell'accordo sul trattamento sanzionatorio di pattuizione attinente alle misure di sicurezza, non vincolante per il giudice, tenuto a motivare le ragioni della sua diversa decisione.

Registrato detto principio, si osserva che il modello di compartecipazione delle parti e del giudice, legittimo con riferimento al tema principale della responsabilità e della sanzione, costituenti presupposti dell'accordo, può essere estensibile anche alla parte relativa all'applicazione delle misure di sicurezza, in assenza di ostacoli a una estensione della logica negoziale ad altri punti della decisione e in presenza del previsto vaglio del giudice sulle prospettazioni delle parti, funzionale al rispetto dei canoni costituzionali di legalità e giurisdizionalità.

La prima e la seconda possibilità fondano l'opzione interpretativa secondo cui, nella riaffermata centralità dell'accordo sulla pena, il riferimento contenuto nell'art. 448, comma 2-bis, c.p.p. alla misura di sicurezza illegale è interpretabile come riferentesi alla ricorribilità della sentenza di "patteggiamento", che recepisca un accordo relativo anche alla misura di sicurezza, solo se questa sia illegale, mentre, nell'ipotesi in cui tale accordo non sia recepito nella parte accessoria dal giudice, che non vi è obbligato, e nell'ipotesi in cui il giudice disponga una misura di sicurezza, patrimoniale e personale, su cui non è intervenuto alcun accordo tra le parti, il potere di impugnazione non potrebbe non ricomprendere anche il sindacato sulla motivazione del provvedimento, che deve pertanto essere specificamente svolta, e troverebbe il suo fondamento giustificativo nella norma generale di cui all'art. 606, comma 1, c.p.p.

8. Le diverse interpretazioni proposte in ordine alla ricorribilità o no per cassazione per vizio di motivazione della sentenza di "patteggiamento" in ordine all'applicazione di misure di sicurezza, che delimita, come già detto, il tema devoluto, si espongono a rilievi critici.

8.1. L'interpretazione che valorizza il testo dell'art. 448, comma 2-bis, c.p.p., e congiunte ragioni di natura sistematica e logica e di coerenza con i parametri costituzionali e convenzionali, non considera che il riferimento alla illegalità della misura di sicurezza come motivo di ricorso per cassazione, ove inteso come limitativo della possibilità di dolersi della statuizione a essa relativa, compresa o meno nell'accordo tra le parti, solo se la misura sia radicalmente estranea a sistema, prescinde da ogni riferimento coerente alla pur richiamata origine concordata del provvedimento, da un lato, e alla poliforme natura giuridica, ai presupposti applicativi, alle finalità delle misure di sicurezza, dall'altro lato, oltre che alle consolidate regulae iuris quanto alla motivazione, e per l'effetto alla impugnabilità dei suoi vizi, in punto di applicazione delle stesse misure.

In tale prospettiva la disciplina impugnatoria, se applicata come dedotto, più che essere, come assunto, compatibile con i parametri costituzionali e convenzionali, si pone in contrasto, nel non consentire la ricorribilità delle statuizioni relative alle misure di sicurezza per vizio di motivazione, con esigenze di tutela dei diritti e, come ricordato nell'ordinanza rimettente, con il principio di proporzional[i]tà, che, affermato anche a livello sovranazionale dalle fonti dell'Unione (parr. 3 e 4 dell'art. 5 TUE, art. 49, par. 3, e art. 52, par. 1, della Carta dei diritti fondamentali) e dal sistema della CEDU, assolve «ad una funzione strumentale per un'adeguata tutela dei diritti individuali in ambito processuale penale, e ad una funzione finalistica, come parametro per verificare la giustizia della soluzione presa nel caso concreto».

Né aggiungono ragioni di concretezza alla indicata interpretazione la sua evocata favorevole rispondenza nella ratio dell'intervento riformatore, espressa nella Relazione governativa di accompagnamento dell'originario disegno di legge (A.C. 2798 - XVII Legislatura), relativo alla predetta norma, posto, peraltro, l'espresso riferimento operato al «modulo consensuale di definizione del processo, proprio del cosiddetto patteggiamento» e al profilo transattivo, le cui condizioni sono stabilite negli artt. 444 e segg. c.p.p., né il richiamo alla categoria, di incerto contenuto e di non agevole controllabilità, della ragionevole prevedibilità del limitato regime impugnatorio delle misure di sicurezza all'atto della scelta del rito alternativo, comunque riferibile all'oggetto dell'accordo.

8.2. Anche l'opzione interpretativa che riconduce alla nozione di misura di sicurezza illegale la misura applicata senza motivazione o con motivazione apparente (cui è anche estesa la sua omessa applicazione), rilevante come «violazione di legge» ai sensi dell'art. 111, comma 7, Cost., non può essere favorevolmente apprezzata.

Tale interpretazione, se risponde all'avvertita esigenza di cercare una soluzione ragionevole, scardina il chiaro riferimento della illegalità, da parte della giurisprudenza di legittimità e delle stesse Sezioni unite, alla pena irrogata non prevista dall'ordinamento giuridico per il caso concreto oggetto di giudizio, così collocandosi al di fuori del sistema sanzionatorio delineato dal codice penale, ovvero quella eccedente, per specie e quantità, i relativi limiti legali, e in tali termini riferita alla misura di sicurezza.

La riconduzione della illegalità a tutti i casi in cui le misure siano disposte (ovvero non disposte) in violazione dei presupposti e dei limiti stabiliti dalla legge, richiamando le valutazioni sottese alla loro applicazione, è anche in evidente contrasto con il testo normativo che utilizza il richiamo alla illegalità sia per la pena sia per le misure di sicurezza, salvo in ipotesi estendere anche alla pena la sindacabilità della violazione di legge derivante da vizio di motivazione, nella sua forma più radicale di omessa o apparente motivazione, con le relative conseguenze anche in rapporto alla sindacabilità della pena concordata, costituente l'oggetto essenziale dell'accordo delle parti, in contrasto con la qui riaffermata distinzione delle categorie della illegittimità e della illegalità della pena e con la stessa modifica normativa dell'art. 448 c.p.p.

8.3. Non può ritenersi esaustiva l'impostazione ermeneutica che è favorevole alla deducibilità in cassazione del vizio di motivazione secondo le regole generali con riguardo al punto relativo all'applicazione delle misure di sicurezza, sostenendo la tesi del regime di impugnazione differenziato sulla base della estraneità delle misure di sicurezza al concordato sulla pena e della conformazione dell'onere di motivazione gravante sul giudice e del potere di impugnazione della parte al tipo di statuizione e al rapporto tra la stessa e il contenuto del patto.

L'apertura sul regime differenziato, invero, si arresta al rilievo della estraneità strutturale delle misure di sicurezza all'accordo che, ex art. 444 c.p.p., può riguardare solo la sanzione sostitutiva, la pena pecuniaria e la pena detentiva, sì da indicarsi come imposta al giudice, anche in presenza di un accordo delle parti sull'applicazione della misura di sicurezza, la verifica in concreto della sussistenza dei relativi parametri applicativi, omettendosi ogni riferimento alla previsione dell'art. 448, comma 2-bis, c.p.p.

8.4. Né appare completa l'ultima opzione che, posta la fattibilità di un accordo a contenuto complesso in cui le parti abbiano concordato anche l'applicazione di misure di sicurezza, ipotizza che - mentre l'accoglimento dell'accordo nella sua interezza esonera il giudice dal motivare specificamente sul punto relativo all'applicazione della misura di sicurezza concordata tra le parti, e la sentenza sarebbe impugnabile entro i limiti previsti dall'art. 448, comma 2-bis, c.p.p. - il mancato accoglimento dell'accordo nella parte accessoria imporrebbe una motivazione specifica, e una tale motivazione sarebbe richiesta anche se fosse applicata una misura di sicurezza non concordata, con deducibilità del relativo vizio di motivazione secondo la norma generale di cui all'art. 606, comma 1, c.p.p.

Tale soluzione, che consente nel coerente sviluppo dato al già affermato regime differenziato il controllo del vizio di motivazione delle statuizioni su punti estranei all'accordo, recuperando, riguardo alle stesse, il controllo di legalità, e che permette una logica lettura del riferimento, nell'art. 448, comma 2-bis, c.p.p., alla illegalità della misura di sicurezza, non spiega, invero, la ragione per cui l'inserimento nell'accordo di «eventuali, possibili, profili ulteriori (misura di sicurezza) [...] accidentalia negotii», indicato come produttivo dell'esito decisionale di cui al secondo comma dell'art. 444 c.p.p. se l'accordo è recepito nella sua interezza, con le pure indicate conseguenze quanto alla ricorribilità della sentenza, non determini l'effetto negativo, supposto dalla medesima norma, ove l'accordo sulla misura di sicurezza non sia accolto, piuttosto che il ricorso ex art. 606 c.p.p. per vizio della motivazione mancante, contraddittoria o manifestamente illogica.

9. A questo punto, può essere utile procedere da un più ampio confronto con il significato e la incidenza dell'intervento normativo, rappresentato dal nuovo comma 2-bis dell'art. 448 c.p.p., limitato nella forma al controllo della sentenza di "patteggiamento" in sede di legittimità.

10. L'art. 448, comma 2-bis, c.p.p., come più volte rappresentato, ha introdotto per la prima volta un regime di impugnazione specifico per la sentenza resa ex art. 444 c.p.p., disponendo, ferme restando le ulteriori disposizioni contenute nel titolo II del libro VI del codice di procedura penale, che il pubblico ministero e l'imputato possono proporre ricorso per cassazione contro detta sentenza «solo per motivi attinenti all'espressione della volontà dell'imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all'erronea qualificazione giuridica del fatto e all'illegalità della pena o della misura di sicurezza».

10.1. Il riferimento specifico tra i casi di ricorso alla illegalità della misura di sicurezza, affiancata alla illegalità della pena, non è solo riducibile alla indicazione tassativa di un punto impugnabile, di non univoco ovvero limitato contenuto, e riconducibile a esigenze deflattive e per l'effetto limitative della ricorribilità per cassazione delle sentenze di applicazione della pena, avendo una valenza significante di più ampia portata.

La norma si collega, invero, completandolo, a un percorso di rimodellamento del procedimento, già in corso per pregressi interventi normativi con riguardo specifico, per quanto qui interessa, alla pena e alle misure di sicurezza.

10.2. Una prima rilevante innovazione è stata attuata con la l. 16 dicembre 1999, n. 479, che ha introdotto, nell'innovato secondo comma dell'art. 444 c.p.p., la espressa previsione del giudizio sulla "congruità della pena", «divenuto da criterio eccezionale operante solo in forza di un accertamento di responsabilità secondo lo schema delineato dall'art. 448 c.p.p. [...] lo specimen, legislativamente predisposto, di ogni controllo del giudice, secondo uno schema costituzionalmente obbligato [...] da statuizioni demolitorie ultranovennali della Corte costituzionale (più in particolare dalle sentenze 313 del 1990 e 443 del 1990)» (Sez. un., n. 17781 del 29 novembre 2005, Diop, cit.).

Un successivo intervento normativo, attuato con la l. 11 giugno 2003, n. 134, ha comportato che l'istituto dell'applicazione della pena su richiesta delle parti abbia «decisamente cambiato pelle» (Sez. un., Diop, cit.).

Con detta legge, ritenuta dalla Corte costituzionale (sent. n. 219 del 2004) non in contrasto con i richiamati principi costituzionali, si è, tra l'altro, elevato il tetto di pena detentiva, previsto dall'art. 444, comma 1, c.p.p. per l'introduzione del rito, da due a cinque anni e sono state introdotte per il nuovo patteggiamento (c.d. editio maior) preclusioni oggettive e soggettive in relazione alla gravità dei reati e ai casi di pericolosità qualificata dell'imputato, oltre alla esclusione di alcuni effetti premiali, rimasti a connotare l'applicazione della pena inferiore a due anni (c.d. editio minor).

Quanto agli effetti premiali, in particolare, si è prevista, nel nuovo art. 445, comma 1, c.p.p., l'operatività della esenzione dal pagamento delle spese processuali, del divieto di applicare pene accessorie e misure di sicurezza (ad eccezione della confisca nei casi di cui all'art. 240 c.p., e non più solo nei casi di cui al suo secondo comma) e della estinzione del reato nei termini rispettivamente previsti per i delitti e per le contravvenzioni solo nei casi in cui la pena detentiva "irrogata" non superi i due anni, soli o congiunti a pena pecuniaria, a ciò conseguendo che, a contrario, l'editio maior comporta l'applicazione delle pene accessorie e delle misure di sicurezza, compresa la confisca nei casi previsti dall'art. 240 c.p.

Pertanto, nel delineato contesto normativo il giudice «al verificarsi del presupposto per la confisca obbligatoria o di quella facoltativa [...] è tenuto ad applicarla, a prescindere dall'intervenuto accordo delle parti sul punto» (Sez. un., Diop, cit.), con la pronuncia della sentenza di applicazione della pena concordata, equiparata a una pronuncia di condanna, salve diverse disposizioni di legge, secondo il precetto che, già contenuto nell'art. 445, comma 1, c.p.p., è stato trasferito dalla stessa legge nel successivo nuovo comma 1-bis.

Assume univoco rilievo dimostrativo della prosecuzione con la ridetta legge dell'intrapreso rimodellamento dell'assetto normativo riguardante il "patteggiamento" proprio il riferimento fatto dall'indicato art. 445, comma 1, c.p.p., alla pena "irrogata", laddove si prevede che «la sentenza prevista dall'art. 444, comma 2, quando la pena irrogata non superi [...,] non comporta [...] l'applicazione di pene accessorie e di misure di sicurezza [...]». Si è al riguardo condivisibilmente affermato «che mentre la pena "applicata" esprime il contrassegno della specialità del rito, la pena "irrogata" designa la risultante del principio di equiparazione reso palese - nell'ineludibile unitarietà dell'istituto - dall'applicazione, nell'editio maior, di un regime che non può che conseguire da una sentenza di condanna, e che si concentra nella condanna alle spese del procedimento e nell'applicazione delle misure di sicurezza» (Sez. un., Diop, cit.).

11. La positivizzazione del regime di impugnazione delle sentenze di applicazione della pena con l'art. 448, comma 2-bis, c.p.p. ha all'evidenza tenuto conto dei ridetti approdi della giurisprudenza di legittimità, nella cui sequenza è individuabile un oggettivo diritto vivente, e della pertinente normativa complementare già incisa dalle indicate interpolazioni prescrittive, intervenute in un ambito sistematico in cui - al di là delle linee interpretative volte a cogliere di volta in volta il mantenuto equilibrio, funzionale alla stessa legittimità dell'istituto, del controllo giurisdizionale e della regolamentazione pattizia - sono rimasti apparentemente immodificati nel loro nucleo essenziale la struttura e la funzione del "patteggiamento".

11.1. Posta, infatti, la certa interpolazione, con la l. n. 134 del 2003, dell'istituto del "patteggiamento" con la eliminazione di ogni limite all'applicazione della confisca, sussistente nel testo originario e riferito alla sole ipotesi di cui all'art. 240, secondo comma, c.p., e con l'applicazione, prevista a contrario, delle misure di sicurezza in genere quando «la pena irrogata [...] superi i due anni [...]», e posto l'approdo della giurisprudenza di legittimità, già registrato, con il quale si è riconosciuta la possibilità alle parti processuali di inserire nel perimetro negoziale pattuizioni, come quelle afferenti alle misure di sicurezza, non necessarie ai fini e per gli effetti di cui agli artt. 444 e segg. c.p.p., è desumibile dal testo normativo che la novella, andando anche oltre i contenuti riferiti dalle richiamate decisioni ai casi concreti e non univocamente rappresentati quanto agli effetti della inclusione della pattuizione relativa alle misure di sicurezza nell'accordo sulla pena, ha a sua volta interpolato l'art. 444 c.p.p.

Detta interpolazione è stata operata introducendosi, con valenza precettiva, un contenuto innovativo nell'oggetto del "patteggiamento", che è stato ampliato con la possibilità che l'accordo riguardi anche le misure di sicurezza, previste espressamente come applicabili con la sentenza resa ex art. 444, comma 2, alla stregua del disposto dell'art. 445, comma 1, c.p.p., e già ritenute dalla giurisprudenza, antecedente alla novella, inseribili nel perimetro dell'accordo processuale.

Tale rimodellamento dell'art. 444 c.p.p. comporta, poi, per coerenza interna del sistema, che, se le misure di sicurezza sono inserite nell'accordo, la relativa pattuizione è vincolante e non discutibile per le parti processuali, alla pari delle pattuizioni "necessarie" (sulla pena), ove ratificata dal giudice, salva la loro illegalità, che - denunciabile in sede di legittimità ex art. 448, comma 2-bis, c.p.p. - compromette, se denunciata e ritenuta, la permanente validità della base negoziale sulla quale è maturato l'accordo, viziando la sentenza che lo ha recepito, mentre al fatto stesso della possibile inseribilità nell'accordo di "pattuizioni facoltative" (sulle misure di sicurezza), ulteriori rispetto al nucleo essenziale dell'accordo sulla pena, consegue che se, a seguito della richiesta di misura di sicurezza inserita nell'accordo sulla pena, non vi è il consenso dell'altra parte, non si forma l'accordo e non vi è spazio per la pronuncia della sentenza di patteggiamento "complessa".

Sorreggono dette considerazioni concordanti rilievi di natura sistematica e logica.

11.2. Si rileva, innanzitutto, che il comma 2-bis dell'art. 448, rubricato «provvedimenti del giudice», segue il primo e il secondo comma, che attengono alla pronuncia della sentenza nella ricorrenza delle «condizioni per accogliere la richiesta prevista dall'art. 444, comma 1» e alla disciplina del dissenso del pubblico ministero rispetto alla stessa richiesta e ai suoi effetti, in contesto riferito alla pronuncia sul patto di cui all'art. 444 c.p.p.

Detta annotazione fonda anche un ulteriore rilievo, correlato alla rimodulata disciplina del primo comma dell'art. 448 c.p.p., con l. n. 479 del 1999, e al trasferimento all'art. 444, comma 2, c.p.p. del giudizio di congruità della misura della pena, assurto da parametro di valutazione di natura eccezionale per la pronuncia della sentenza «dopo la chiusura del dibattimento di primo grado o nel giudizio di impugnazione», unitamente al giudizio di ingiustificato dissenso del pubblico ministero, a oggetto necessario di ogni controllo del giudice, condizionante lo stesso accesso all'istituto del "patteggiamento".

Conferma ulteriormente le già menzionate considerazioni la circostanza che l'indicato trasferimento del criterio di congruità della misura della pena, pur conseguito all'intervento della Corte costituzionale (sent. n. 313 del 1990), si pone in termini di univoca premessa sistematica rispetto alla previsione, quale motivo di ricorso, della illegalità della pena (già ritenuta congrua dal giudice che l'ha applicata), da ciò dovendo logicamente inferirsi che il richiamo normativo congiunto alla illegalità della pena e della misura di sicurezza - riaffermatone il comune riferimento alla stessa nozione - esprime la scelta del legislatore di porre anche la misura di sicurezza, ove inserita nell'accordo, come oggetto, tra gli altri, del controllo del giudice ai fini e per gli effetti di cui all'art. 444 c.p.p., conformando il predisposto meccanismo di protezione alla nuova dimensione del patto processuale.

Né può trascurarsi di rilevare che il possibile consentito ampliamento dell'accordo in dipendenza del suo contenuto innovativo, indotto dall'interferente sistema impugnatorio predisposto dall'art. 448, comma 2-bis, c.p.p., e segnatamente dalla previsione del ricorso per cassazione per illegalità della misura di sicurezza, consente di ritenere, disvelando - attraverso la «mediazione accertativa della giurisprudenza» (così espressa da Sez. un. civ., n. 15144 dell'11 luglio 2011) - le dinamiche evolutive interne all'ordinamento, che, in linea con la direzione in cui si sta sviluppando il processo penale nel quale si assiste alla espansione dei profili patrimoniali e preventivi, e con essi alla moltiplicazione soprattutto delle misure di sicurezza patrimoniali, anche l'istituto del "patteggiamento" si stia rinnovando, adeguandosi a tale tendenza, con il riconoscimento a ciascuna delle parti della facoltà di chiedere l'applicazione, o di dare il consenso all'applicazione, di misure di sicurezza, e quindi inserire nell'accordo anche la pattuizione alle stesse relativa, con accettazione delle conseguenze connesse e conseguenti alla pronuncia sull'intero accordo, ratificato dal giudice, della sentenza resa ex art. 444 c.p.p., e tra queste quelle - correlate alle, già enunciate, caratteristiche formali, strutturali, genetiche e funzionali di detta sentenza - riguardanti la sua motivazione e la sua impugnazione.

Peraltro, nell'indicato segnato contesto relativo all'istituto del "patteggiamento" permane un rapporto tra il patto e la giurisdizione non sbilanciato a favore della componente pattizia, rivestendo essenziale rilievo anche il controllo che il giudice, secondo il modello codicistico congruente con il suo oggetto, compie sulle richieste e prospettazioni congiunte delle parti, e quindi sull'intero progetto di decisione a contenuto complesso, e che, in collegamento con il regolamentato sindacato di legittimità della decisione finale, se è un accertamento negativo in relazione alla responsabilità, è positivo quanto alla verifica - oltre che in ordine alla correttezza della qualificazione giuridica del fatto, all'applicazione e alla comparazione delle circostanze e alla congruità della pena - anche quanto al riscontro della legalità della pena e della misura di sicurezza, oggetto di accordo, bilanciando il ridetto contenuto pattizio del rito.

11.3. Dall'esame delle «connotazioni testuali» dell'art. 448, comma 2-bis, c.p.p. (Sez. un., n. 3464 del 30 novembre 2017, dep. 2018, Matrone, Rv. 271831), che rappresentano l'oggetto prioritario dell'attività interpretativa e segnano il limite "esterno", indicato, in ambito civile, come il limite di «tolleranza ed elasticità del significante testuale» (Sez. un. civ., n. 15144 dell'11 luglio 2011; Sez. un. civ., n. 27341 del 23 dicembre 2014), senza esonerare il giudice dalla ricerca dei possibili e coerenti significati autorizzati dal testo «anche alla luce del sistema normativo in cui [la norma] è inserita [... e] della disciplina legale dell'istituto di cui la norma è parte» (Sez. un., n. 40986 del 19 luglio 2018, Pittalà, cit.), si trae, pertanto, un coerente significato del riferimento, nel testo, alla illegalità della misura di sicurezza.

Tale significato della norma, come individuato, e la sua incidenza rispetto all'istituto del "patteggiamento" confermano la logica coerenza del quadro normativo, che - a fronte della riaffermata legittimità dello stesso istituto, del più volte ribadito giudizio della sua complessiva armonia costituzionale e della riconosciuta aderenza della sua applicazione ai principi CEDU - limita a ipotesi specifiche la ricorribilità della sentenza di applicazione della pena, correlandole, sotto l'aspetto strutturale-sistematico, a profili particolari che hanno comunque riguardo all'aspetto negoziale del rito e anche a un oggetto, quale la misura di sicurezza, che, una volta ricompreso nell'accordo, non è "a peso intermedio" ma vincola il giudice a recepire l'intero accordo complesso ovvero a non pronunciare la sentenza di "patteggiamento" e prendere i consequenziali provvedimenti.

11.4. Può quindi trarsi la seguente sintesi:

- se la misura di sicurezza è parte dell'accordo tra le parti, il giudice, nel ratificare tale accordo complesso, potrà ricorrere a una motivazione sintetica, tipica del rito, e comunque la sentenza sarà ricorribile per cassazione nei limiti previsti dall'art. 448, comma 2-bis, c.p.p.;

- se, a seguito del ricorso per cassazione, l'applicazione concordata della misura di sicurezza dovesse risultare "illegale", la conseguenza sarà l'annullamento senza rinvio della sentenza di "patteggiamento", dal momento che la rilevata illegalità rende invalido l'intero accordo.

12. Discende da quanto esposto che l'applicazione, obbligatoria o facoltativa, di una misura di sicurezza, personale o patrimoniale, non concordata fra le parti, può essere comunque disposta, ai sensi dell'art. 445, comma 1, c.p.p., con la sentenza prevista dall'art. 444, comma 2, in relazione al quantum della «pena irrogata».

E, in tal caso, se la sentenza dispone una misura di sicurezza, sulla quale non è intervenuto accordo tra le parti, la statuizione relativa - che richiede accertamenti circa i previsti presupposti giustificativi e una pertinente motivazione che non ripete quella tipica della sentenza di "patteggiamento", ed è inappellabile, alla luce del disposto del, tuttora vigente, art. 448, comma 2, c.p.p. - è impugnabile, per coerenza dello sviluppo del ragionamento giuridico non disgiunto da esigenze di tenuta del sistema secondo postulati di unitarietà e completezza, con ricorso per cassazione anche per vizio della motivazione, ex art. 606, comma 1, c.p.p.

Del resto, militano in tal senso le stesse previsioni delle richiamate norme, poiché non appare senza significato che la formula di cui al ridetto art. 444, comma 2, c.p.p. (il giudice «dispone con sentenza l'applicazione [della pena] enunciando nel dispositivo che vi è stata la richiesta delle parti») rinvia alla specialità del rito, connotato, tra l'altro, da un regime di impugnazione limitato, quanto alle misure di sicurezza, alla loro illegalità; il riferimento alla pena irrogata nell'art. 445, comma 1, c.p.p. rinvia più direttamente al principio di equiparazione della sentenza a una pronuncia di condanna, attestato dal regime applicabile (condanna alle spese del procedimento e applicazione delle misure di sicurezza) quando la pena supera i due anni; l'art. 448, comma 2, seconda parte, c.p.p., prevede tuttora l'inappellabilità della sentenza «negli altri casi», diversi dalla ipotesi in cui è il pubblico ministero dissenziente legittimato all'appello, e quindi ammette il ricorso per cassazione ai sensi del vigente art. 568, comma 2, c.p.p., nella vigenza del nuovo comma 2-bis dello stesso art. 448 c.p.p.

13. Le ragioni esposte e le conclusioni cui si è pervenuti escludono che possa formare oggetto di ricorso per cassazione, a norma dell'art. 448, comma 2-bis, c.p.p., la censura relativa alla omessa applicazione - con la sentenza di applicazione della pena concordata - di una misura di sicurezza, salvo, come è chiaro, che essa sia prevista per legge come obbligatoria in relazione al titolo di reato, oggetto di imputazione, soccorrendo in tal caso la disciplina generale di cui all'art. 606 c.p.p., ovvero le possibili alternative tutele offerte dall'ordinamento, la cui natura e i cui limiti trovano la loro disciplina nelle pertinenti disposizioni che le prevedono.

14. Deve, conseguentemente, essere enunciato, a norma dell'art. 173, comma 3, disp. att. c.p.p., il seguente principio di diritto:

«A seguito della introduzione della previsione di cui all'art. 448, comma 2-bis, c.p.p., è ammissibile il ricorso per cassazione per vizio di motivazione contro la sentenza di applicazione di pena con riferimento alle misure di sicurezza, personali o patrimoniali, che non abbiano formato oggetto dell'accordo delle parti».

15. Passando al caso in esame e alle posizioni dei ricorrenti con riferimento alle censure svolte contro la sentenza di applicazione della pena si osserva quanto segue, tenendo conto del principio di diritto enunciato per le parti in cui rileva.

16. Il ricorso di Gianina Alina S., che attiene alla contestata disposta applicazione della misura di sicurezza della espulsione dal territorio dello Stato a pena espiata, merita accoglimento.

16.1. Detta misura è stata disposta dal Giudice della udienza preliminare del Tribunale di Reggio Emilia con la sentenza impugnata, emessa il 9 novembre 2017 ex art. 444 c.p.p., sul presupposto che l'imputata, alla quale era stata applicata la pena concordata di anni quattro di reclusione e di euro diciottomila di multa per il delitto di cui all'art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990, fosse attualmente pericolosa, trovandosi agli arresti domiciliari.

Il ricorso, successivo, come la richiesta di "patteggiamento", alla introduzione, con l. n. 103 del 2017, dell'art. 448, comma 2-bis, c.p.p., è ammissibile ai sensi dell'art. 606 c.p.p. alla luce dell'enunciato principio di diritto, non avendo la disposta misura di sicurezza formato oggetto dell'accordo delle parti, ed è fondato, essendo stato omesso il necessario accertamento della pericolosità dell'imputata, sì come denunciato dalla stessa anche rappresentando di essere stata anche autorizzata al lavoro in relazione alla disposta misura cautelare.

Il giudice di merito deve, invero, effettuare, anche con la sentenza di "patteggiamento" - se la misura, prevista per il reato ascritto e applicabile in relazione alla entità della pena irrogata, è rimasta estranea all'accordo sulla pena - la verifica circa la sussistenza dei relativi presupposti giustificativi, dando, a sostegno dell'adottata statuizione, la pertinente e adeguata motivazione.

La verifica attiene segnatamente alla sussistenza in concreto del presupposto della pericolosità sociale, necessaria per la misura in oggetto, come già detto, richiesta dall'art. 86, primo comma, d.P.R. n. 309 del 1990 nei termini in cui è stato inciso dalla dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale con sentenza n. 58 del 1995 della Corte costituzionale, e ritenuta tale dalla costante giurisprudenza di legittimità, che, ripresa anche in sede civile (Sez. un. civ., n. 15750 del 12 giugno 2019, Rv. 654215), ha rimarcato che, ai fini dell'applicazione di tale misura di sicurezza, si impongono il previo accertamento della sussistenza in concreto della pericolosità sociale del condannato sulla base delle «circostanze indicate dall'art. 133», cui fa rinvio l'art. 203, secondo comma, c.p. (tra le altre, Sez. 4, n. 24427 del 20 aprile 2018, Er Radi, Rv. 273743; Sez. fer., n. 35432 del 14 agosto 2013, Weng, Rv. 255815; Sez. 6, n. 45468 del 23 novembre 2010, Gjondrekaj, Rv. 248961; Sez. 4, n. 46759 del 25 ottobre 2007, Rv. 238359), e anche, ove la pericolosità sussista, un esame comparativo della condizione familiare dell'imputato, se ritualmente prospettata, con gli altri criteri di valutazione indicati dall'art. 133 c.p., in una prospettiva di bilanciamento tra l'interesse generale alla sicurezza e l'interesse del singolo alla vita familiare (tra le altre, Sez. 3, n. 20781 del 17 dicembre 2018, El Ghazzani, cit., non mass. sul punto; Sez. 4, n. 52137 del 17 ottobre 2017, Talbi, Rv. 271257; Sez. 4, n. 50379 del 25 novembre 2014, Xhaferri, Rv. 261378).

16.2. La motivazione non soddisfa nella specie il criterio dell'adeguatezza e della congruenza.

Essa - e anche prescindendo dal rilievo che la ricorrente ha pure evocato documentazione inammissibilmente allegata ai motivi nuovi, e comunque relativa a fatti sopravvenuti alla pronuncia della sentenza impugnata che segna il momento dell'accertamento della condizione di pericolosità sociale, salva la successiva verifica della sua permanenza (tra le altre, Sez. 1, n. 1027 del 31 ottobre 2018, dep. 2019, Argento, Rv. 274790) - è, invero, limitata al mero richiamo, per dare contenuto al giudizio di attualità della pericolosità, alla circostanza della sottoposizione della imputata alla misura degli arresti domiciliari.

Detto riferimento è, nei termini enunciati, palesemente inconferente, tanto da potersi ritenere apparente il discorso giustificativo della decisione, risolvendosi nel rinvio a un atto extra-processuale, non allegato, né descritto nel suo contenuto, e contenente, verosimilmente e per sua natura, valutazioni giustificative dell'adozione della misura cautelare degli arresti domiciliari e relative alle esigenze cautelari ex art. 274 c.p.p., alle quali, anche quando attingono il giudizio di pericolosità, non è assimilabile, per diversità dei parametri di riferimento, l'accertamento della condizione di pericolosità sociale, da compiersi, ai fini e per gli effetti dell'applicazione di una misura di sicurezza, alla stregua degli indici contenuti nel primo e nel secondo comma dell'art. 133 c.p., globalmente valutati.

16.3. Quanto alla questione di legittimità costituzionale degli artt. 19, comma 2, d.lgs. n. 286 del 1998 e 86, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990 per contrasto con gli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., e dell'art. 86 anche in relazione all'art. 4 Cost. - non preclusa solo perché posta con i motivi nuovi presentati nel termine di cui all'art. 585, comma 4, c.p.p., potendo comunque valere la sua deduzione a sollecitarne l'apprezzamento, e in ciò non vi è limite salvo quello posto dall'art. 24, secondo comma, l. 11 marzo 1953, n. 87 (Sez. 1, n. 36231 dell'8 novembre 2016, dep. 2017, Curea, Rv. 271042) - si rileva che gli argomenti che la sostengono sono astratti da ogni confronto con le previste regole generali presupposte dalle indicate norme.

Tali regole, secondo convergenti linee interpretative, mentre richiedono che tutte le misure di sicurezza personali devono essere ordinate con la sentenza - salvo ipotesi derogatorie, nella specie non sussistenti - soltanto dopo l'accertamento in concreto, da parte del giudice procedente, che colui il quale ha commesso il fatto di rilevanza penale è persona socialmente pericolosa, prevedono, infatti, che l'applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca - quando, come nella specie, la sua esecuzione sia differita "a pena espiata" - postula la rivalutazione di tale accertamento, ovvero la verifica da parte del magistrato di sorveglianza della persistenza, al momento della decisione, delle condizioni di un giudizio positivo sulla pericolosità sociale del sottoposto avendo riguardo anche al comportamento dallo stesso tenuto durante e dopo l'espiazione della pena, pregiudicando, oltre alla fondatezza, la stessa rilevanza nel giudizio in corso della questione prospettata.

16.4. La rilevata carenza di motivazione comporta l'annullamento della sentenza impugnata nei confronti di Gianina Alina S. limitatamente alla disposta espulsione e il rinvio per nuovo giudizio, secondo la previsione dell'art. 623, comma 1, lett. d), c.p.p., al Tribunale di Reggio Emilia, che l'ha pronunciata, individuato quale giudice del rinvio, non potendo a tal fine farsi riferimento al disposto dell'art. 680, comma 2, c.p.p., richiamato dall'art. 579, comma 2, c.p.p., stante la inappellabilità della sentenza per espressa previsione normativa.

17. I ricorsi di Viktor N. e Gjin N., proposti congiuntamente con due distinti successivi atti, presentati nei termini di legge, sono accoglibili solo in parte.

17.1. Il primo motivo del primo atto di ricorso è inammissibile.

Si tratta, invero, di un motivo non deducibile con il ricorso per cassazione, attingendo la sentenza in relazione alla denunciata omessa valutazione delle condizioni per la pronuncia di sentenza di proscioglimento ai sensi dell'art. 129 c.p.p., peraltro sinteticamente espressa, e, pertanto, per vizio non riconducibile ad alcuna delle ipotesi per le quali l'artt. 448, comma 2-bis, c.p.p. prevede il ricorso per cassazione, come in più punti già affermato.

Né i ricorrenti, che genericamente evocano decisioni della giurisprudenza di legittimità antecedenti alla l. n. 103 del 2017, si correlano con il rinnovato consentito perimetro devolutivo e riconducono allo stesso il vizio dedotto.

17.2. È destituito di fondamento il secondo motivo del primo atto di ricorso con il quale - contestualmente impugnandosi per violazione dell'art. 234 c.p.p. l'ordinanza, che, in data 9 novembre 2017, ha rigettato l'istanza difensiva di acquisizione della documentazione offerta in produzione per dimostrare la liceità della provenienza del denaro in sequestro, oggetto della richiesta di confisca del Pubblico ministero - si oppone l'omessa motivazione circa le ragioni della disposta confisca del denaro ex art. 12-sexies l. n. 356 del 1992.

Il motivo, che è ammissibile, afferendo a statuizione adottata con riguardo a misura di sicurezza non concordata fra le parti e non soggetta, pertanto, alle limitazioni della ricorribilità per cassazione introdotte con il predetto art. 448, comma 2-bis, c.p.p., alla stregua del già enunciato principio di diritto, non ha giuridico pregio.

17.2.1. Non sussiste, invero, la dedotta violazione dell'art. 234 c.p., che i ricorrenti denunciano assumendo la rilevanza "di per sé" come fatto storico della documentazione, della quale hanno chiesto la produzione, rappresentata da due dichiarazioni rese davanti a un notaio in Albania da un loro cugino e da un loro fratello e da una ricevuta bancaria in lingua albanese, e la sua valenza probativa della liceità della somma in sequestro.

Si rileva in diritto che la Corte costituzionale, con sentenza n. 142 del 1992, con la quale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 431 c.p.p., sollevata in riferimento agli artt. 76, 24 e 97 della Costituzione, ha osservato che «l'art. 234 del codice di procedura penale, nel consentire l'acquisizione nel processo come prove documentali "di scritti o di altri documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo", identifica e definisce il documento - così come precisato nella Relazione al progetto preliminare del nuovo codice - "in ragione della sua attitudine a rappresentare", senza discriminare tra i diversi mezzi di rappresentazione e le differenti realtà "rappresentate" e, in particolare, senza operare una distinzione [...] tra rappresentazione di fatti e rappresentazione di dichiarazioni».

Può costituire, pertanto, prova documentale anche il documento rappresentativo di una dichiarazione di scienza, ma, ferma la distinzione tra la natura e l'attitudine del documento "a rappresentare" e il contenuto della dichiarazione incorporata nel documento, la prova del contenuto, ovvero del fatto attestato nella dichiarazione, non si risolve nella prova del contenente, ovvero del documento che la contiene.

È, in tal senso, coerente la motivazione dell'ordinanza, che, rilevata anche la mancanza di un consenso di tutte le parti, non ha ammesso la produzione documentale, osservando che le «dichiarazioni prodotte [, ...] nella sostanza testimonianze», non corrispondevano a «nessuna forma processuale nemmeno quella [relativa] alle indagini difensive» e che, rispetto alle stesse, i dichiaranti non avevano assunto nessuna responsabilità.

17.2.2. Né sono ravvisabili i denunciati vizi della sentenza, il cui corredo giustificativo della disposta confisca del denaro in sequestro ha il suo fondamento univoco nella predetta ordinanza, che, espressamente e contestualmente impugnata dagli imputati e implicitamente richiamata e confermata dal giudice, correttamente non ha ammesso la offerta produzione documentale, funzionale - nella prospettazione dei deducenti - alla dimostrazione della lecita provenienza e disponibilità del denaro, e nella rappresentata ammissione degli stessi imputati circa il mancato espletamento da parte loro di attività lavorativa e il mancato possesso di "beni di fortuna".

L'espresso giudizio conclusivo di totale sproporzione del denaro con il reddito dei due imputati non è, pertanto, privo di motivazione in relazione alla pertinente previsione normativa, né i ricorrenti, che inammissibilmente reclamano una rinnovata lettura della documentazione non acquisita, che allegano al ricorso, si correlano con la esaustività delle argomentazioni svolte, limitandosi a evocarne in termini generici la sinteticità come espressione di generalizzata omissione.

17.3. Deve, invece, essere accolto l'unico motivo del secondo atto di ricorso, con il quale Viktor N. e Gjin N. si dolgono della omessa motivazione in ordine all'applicazione nei loro confronti della misura di sicurezza della espulsione dal territorio dello Stato a pena espiata, ordinata sulla base del solo rilievo che per essi - cui è stata applicata la pena di anni quattro di reclusione e di euro diciottomila di multa per il delitto di cui all'art. 73, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990 - fosse ancora attuale la pericolosità, in quanto «si trovano tutti agli arresti domiciliari».

Detti ricorrenti anche per questa misura non hanno inserito alcuna pattuizione nell'accordo sulla pena e, per l'effetto, non è loro precluso, avuto riguardo all'enunciato principio, il ricorso per cassazione secondo la disciplina generale di cui all'art. 606 c.p.p.

La sostanziale mancanza di motivazione, che connota la decisione, già rilevata con riferimento alla ricorrente S., conduce allo stesso epilogo decisorio, e, per l'effetto, all'annullamento della sentenza limitatamente alla loro disposta espulsione, con rinvio per nuovo giudizio sul punto al Tribunale di Reggio Emilia.

17.4. I ricorsi, in tali limiti accolti, devono essere, in definitiva, rigettati nel resto.

A detta statuizione di rigetto non segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali per effetto dell'accoglimento dell'ultimo motivo della impugnazione. Trova, infatti, applicazione il principio secondo il quale «al parziale accoglimento dell'impugnazione dell'imputato deve conseguire l'esclusione della sua condanna alle spese del procedimento di impugnazione» (Sez. un., n. 6402 del 30 aprile 1997, Dessimone, Rv. 207947).

18. L'applicazione della regola della formazione progressiva del giudicato e l'autonomia della disposizione annullata, relativa alla sola misura di sicurezza della espulsione, comportano, infine, per tutti i ricorrenti, la irrevocabilità della sentenza impugnata, che si dichiara, quanto all'accertamento di responsabilità, alle pene applicate e alla confisca (Sez. un., n. 20 del 9 ottobre 1996, Vitale, Rv. 206170).

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla disposta espulsione e rinvia per nuovo giudizio sul punto al Tribunale di Reggio Emilia.

Rigetta nel resto i ricorsi di N. Viktor e N. Gjin.

Dichiara irrevocabile la sentenza quanto all'accertamento di responsabilità, alle pene applicate e alla confisca.

Depositata il 17 luglio 2020.